La vita reale in Gesù - il condannato per aver vissuto controcorrente
(Gv 17,11-19)
«Padre santo conservali nel tuo Nome che mi hai dato, affinché siano Uno come noi» (Gv 17,11b).
Nel tempo in cui si facevano avanti ceti sociali intermedi, in un ambiente disincantato come Roma capitale, Domiziano si attribuiva titoli divini anche per tentare di arginare le congiure dell’invidiosa aristocrazia senatoriale da sempre conservatrice, vanitosa e complottista.
In oriente - per questioni culturali - la divinizzazione dell’imperatore era presa più sul serio, sia dai funzionari che dai ranghi dell’esercito, nonché dall’immaginario religioso e sociale delle folle che per consuetudine misterica tendevano a identificare il potere con connubi sacrali.
Per questi motivi, in Asia Minore si prendevano facilmente di mira le fraternità dei figli di Dio - innocue, eppure considerate una bomba per quel sistema, il quale non voleva che qualsivoglia verità alternativa entrasse nel suo mondo.
Immesse nella morte-risurrezione del Cristo, le comunità di Fede vivevano come una grande famiglia, unita nella carità e comprensione vicendevole - non secondo obblighi sociali già configurati.
Nelle chiese si percepiva il calore dei rapporti fraterni: un nucleo di società alternativa a quella dell’impero, che all’orizzonte del suo universo ben gestito escludeva l’accesso di umili e bisognosi.
La Fede giocava al limite.
Così Gesù chiede al Padre un’intima custodia dei credenti, consacrati in Lui (vv.11-13.17.19)... non per toglierli dalle tribolazioni, bensì per l’evangelizzazione.
Procedendo il cammino di esodo nei suoi e immergendosi nelle situazioni, la sua Persona, Parola e vicenda prolungava l’atto gesuano della consacrazione del mondo secondo categorie semitiche.
Non una sorta di protezione di sorelle e fratelli, alla stessa maniera d’una divinità pagana, ma per vivere la pienezza delle Beatitudini.
Tutto ciò, nell’arco di un discernimento profondo, e capacità d’azione incisiva - indotta dal clima fraterno e dal senso di approvazione divino, senza più diktat esterni.
Era il “potere” del «Nome» (vv.11-12): la realtà del nuovo Volto dell’Altissimo, come svelato nella vicenda problematica del Figlio.
Energia primordiale, intima ed empatica, che nei medesimi termini - gloriosi e paradossali - investiva i discepoli, i chiamati a manifestare la condizione divina, diventati come Cristo.
Persino di fronte alle fatiche, a beffe e ripulse altrui, nell’amore scambievole vissuto in comunità, nella convivialità delle differenze di fedeli e chiese, si manifestava la terapia e il rilancio di Dio.
Il Padre si svelava amore imprevedibile, proprio nella manifestazione di questa unità.
Ma anche la presenza di Gesù non riuscì a proteggere Giuda dall’autodistruzione.
Il suo caso è un risultato speciale, proprio perché non ha avuto fiducia nell’amore e nella Parola della Vita. Vittima d’influsso e calcolo di false guide esterne.
Qui si spiega l’esclusione del «mondo» dalla preghiera di Gesù (v.9).
In un ambiente chiuso, segnato dal connubio “potere religione interesse”, non si può essere segni umanizzanti.
Senza onda vitale, non si riesce a vivere il senso del Mistero nella vertigine della condivisione, né qualsiasi insegnamento.
Sorelle e fratelli amici devono sempre avere la grazia di essere liberati dal mondo dei doveri conformisti, che talora prendono il sopravvento.
In ciò: «santificati nella verità» - per la missione che riscopre la densità, il ritmo interno e l’effetto a cascata della reciprocità vissuta.
In Gv è pressante tale nitida icona del Signore.
Nel suo congedo non pretende che qualcuno si metta in ginocchio di fronte a Lui; sogna bensì uno spirito di unità fra discepoli, e - appunto - le chiese.
Era l’unica attitudine che potesse consentire di resistere agli attacchi, all’emarginazione e alle lusinghe del mondo romano-ellenistico, in particolare di Efeso, quarta città dell’impero.
Gesù promette una gioia contromano: la felicità autentica, delle radicali “differenze”.
Non la gioia garantita dall’ambiente opulento e dispersivo (soprattutto del porto) dell’emporio cosmopolita di riferimento.
Cristo non desiderava assicurare l’ilare frenesia d’una religiosità contaminata da ambivalenze e tornaconti.
A al proposito, si pensi al grande commercio garantito dall’Artemision, e molti altri luoghi sacri eminenti, spettacolari, radicati nell’impianto urbanistico e nel tessuto della vita cittadina.
L’ideale del Risorto doveva fermentare nel cuore di tutti, anche in quel punto, ambiguo e mondano; non… fuggire in un domani irraggiungibile.
Legame che aveva il suo specchio nell’intensità di relazione Padre-Figlio e nella dignità dei malfermi e fuori-gioco che si aprivano all’Azione dello Spirito.
Come dire: ciò che veniva spacciato per venerando non aveva alcun fondamento umano-divino.
Unico ambito sacro doveva essere la Persona e il rispetto della Verità profonda, difforme, propria dell’intima semenza dei figli; quella senza belletto.
«Custodire nel Nome» era dunque avere accesso al Padre, nel Figlio. In Lui - irradiando la sua eccentricità, trasparenza e disinteresse - costruire Unità.
Solo nella consapevolezza di tale concatenazione i discepoli potevano dedicare la vita a testimoniare altre convinzioni - pur in clima d’intimidazione sociale.
Gesù ha trasformato la sua preoccupazione in preghiera.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa pensi di un Gesù condannato per aver vissuto controcorrente? Qual è l'anima e il fondamento che in te vedi riflessi nel Figlio? Come ti apri alla santità di Dio? In che modo ti lanci nel mondo? Per cosa preghi?