don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Cerchie, pregiudizi e moggi, o la Luce del ch’i

(Lc 8,16-18)

 

C’è luce e Luce. C’è pompa che brilla artificiosamente, e sontuosità sostanziale della Vita. 

Una delle differenze tra settarismo e proposta di Fede è che l’insegnamento del Risorto non è un mistero accessibile a soli iniziati, o manieristi e forti.

Nulla a che vedere con lunghe discipline dell’arcano, le quali di norma indirizzano il pensiero e soppesano il volontarismo del candidato.

Nel commento al Tao Tê Ching (ii) il maestro Ho-shang Kung afferma che «Il ch’i originario dà vita a tutte le creature e non se ne appropria»: non torna indietro, non conferisce l’ordine antico, retrivo e fisso, non corre ai ripari; piuttosto dà una carica - non parziale, bensì vitale e illuminante.

Intesa e assimilazione della Parola di Dio che chiama in prima persona immettono un’energia fondamentale, estrema e rigenerante. In grado di creare vita nuova e imprimere un senso non blando e codino alla nostra vicenda.

Nella Relazione di Fede, Ascolto e interiorizzazione fanno incessante, intimo appello; in sintonia con la nostra identità-essenza profondi e vocazione personale.

Percezione e sequela dell’anima ci liberano dall’influsso di corti pensieri esterni, condizionanti.

Trasmettono una sorta di possesso immediato e vitale delle cose, una cognizione energetica che guida alla realizzazione; anticipando e attirando futuro.

Quando il Vangelo rimane confinato all’interno di cerchie, non fa brillare tutta la comunità, non comunica con la vita reale; mentre vorrebbe donarla e allietarla, nell’amicizia col nostro carattere e lato eterno che sviluppa.

Fin da bambini ci è sembrato che Parola e consuetudini fossero un tutt’uno: una sorta di Logos attivo, fuso con le manifestazioni qualsiasi della religiosità - soprattutto in occidente.

Ci è parso spontaneo, sicuro, indiscutibile, crescere in un clima di unità di pensiero… sino al momento in cui abbiamo forse scoperto che alcuni costumi e mode temono la Luce.

Oggi infatti ci accorgiamo che anche il pensiero sedicente alternativo, se troppo grande, schematico e disincarnato, evita di confrontarsi col “basso”.

Anzi, volentieri si confina in club d’élite a se stanti; scollegate dalla cruda realtà - considerata vile, poco raffinata [non sofisticata]. Che non vale la pena vagliare in sé.

Ma i Doni che Dio elargisce non sopportano d’essere delimitati da un «vaso» (v.16), né ‘misurati’ da alcun «moggio» (Mt 5,15; Mc 4,21), o messi in buca, occultati: servono solo a edificare e rischiarare.

I tesori del Cielo vanno elargiti, trasmessi, comunicati, non trattenuti; altrimenti si scatena una mediocrità paludosa [da «sotto un letto»: v.16] che non istruisce, né rende radiosi.

Dunque attenzione ai pregiudizi (v.18): l’Ascolto non è azione neutrale.

Le attese popolari del Messia, vincitore, vendicatore, autosufficiente… impedivano alla gente di comprendere l’Annuncio del Regno e del Padre amante della vita rigogliosa.

L’idea antica di un Re affermato ci ha forse inclinati a considerare il Volto dell’Eterno nel Crocifisso come una parentesi, presto superata dal trionfo e dalla sistemazione [della Chiesa, impiantata e visibilissima].

Viceversa, le piaghe d’amore del Figlio descrivono in pienezza tutt’altra cifra costante; protesa - quindi paradossale - ma profonda.

In tal guisa, ciascuno ha una propria attitudine affettiva e le sue competenze, tutte da esplorare e mettere in gioco senza limiti… affinché vengano condivise, rese sapienziali e propulsive.

Come ha dichiarato Papa Francesco:

«L'incapacità degli esperti di vedere i segni dei tempi è dovuta al fatto che sono chiusi nel loro sistema; sanno cosa si può e non si può fare, e stanno sicuri lì. Interroghiamoci: sono aperto solo alle mie cose e alle mie idee, oppure sono aperto al Dio delle sorprese?».

Mi raccontava un grande parroco romano che una delle cose che lo avevano colpito nei suoi viaggi in USA era stato vedere troppe cittadelle cattoliche sulla cima di alture, ben visibili all’occhio ma altrettanto palesemente munite di tutto - quindi staccate, in grado di provvedere a se stesse, chiuse al confronto con la vita reale urbana di oggi.

Impostazione diametralmente opposta a quella di realtà comunitarie evangelicali, meno appariscenti [senza la pretesa di attirare per bellezza esteriore] in quanto mescolate nel tessuto cittadino; per questo in grado di gettare luce nei risvolti della vita quotidiana della gente in ricerca d’un rapporto personale e reale con Dio Padre.

Insomma (v.18): chiunque si aggiorna, si confronta, s’interessa e dà un contributo, vede la propria ricchezza umana e spirituale crescere e fiorire.

Ciò - nella migliore delle ipotesi - rimanendo fedele a se stesso ed evitando di farsi travolgere dalla routine del pensiero fisso-omologato e dalle fatiche dell’Esodo contromano.

Nessuno si sorprenderà che le situazioni di retroguardia culturale, o stagnanti - pile scariche, estenuanti, fiacche, esaurite, grigie e noiose; ovvero à la page e sfarzose ma confusionarie - subiscano ulteriori flessioni e infine periscano senza lasciare rimpianti.

Malgrado la loro artificiosa [inutile] appariscenza, esse resteranno dipendenti da ciò che è valutato già apprezzabile. E cercheranno sempre più invano l’approvazione esterna.

 

Impariamo piuttosto a osservare noi stessi, le relazioni, le situazioni, senza pregiudizi; lasciando sullo sfondo i ‘filtri’, le ‘misure’.

Riconosceremo in noi le più autentiche risorse, e l’eco spontaneo della divina Parola.

Accenderemo l’inedito, il lato unico e immenso, personale; la nostra bellezza singolare e plurale.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come ti proponi di accendere il tuo lato eterno, e la tua bellezza singolare e plurale?

 

 

Lumen Fidei

 

1. La luce della fede: con quest’espressione, la tradizione della Chiesa ha indicato il grande dono portato da Gesù, il quale, nel Vangelo di Giovanni, così si presenta: « Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre » (Gv 12,46). Anche san Paolo si esprime in questi termini: « E Dio, che disse: "Rifulga la luce dalle tenebre", rifulge nei nostri cuori » (2 Cor 4,6). Nel mondo pagano, affamato di luce, si era sviluppato il culto al dio Sole, Sol invictus, invocato nel suo sorgere. Anche se il sole rinasceva ogni giorno, si capiva bene che era incapace di irradiare la sua luce sull’intera esistenza dell’uomo. Il sole, infatti, non illumina tutto il reale, il suo raggio è incapace di arrivare fino all’ombra della morte, là dove l’occhio umano si chiude alla sua luce. « Per la sua fede nel sole — afferma san Giustino Martire — non si è mai visto nessuno pronto a morire ». Consapevoli dell’orizzonte grande che la fede apriva loro, i cristiani chiamarono Cristo il vero sole, « i cui raggi donano la vita ». A Marta, che piange per la morte del fratello Lazzaro, Gesù dice: « Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio? » (Gv 11,40). Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta.

Una luce illusoria?

2. Eppure, parlando di questa luce della fede, possiamo sentire l’obiezione di tanti nostri contemporanei. Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere. Il giovane Nietzsche invitava la sorella Elisabeth a rischiare, percorrendo « nuove vie…, nell’incertezza del procedere autonomo ». E aggiungeva: « A questo punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga ». Il credere si opporrebbe al cercare. A partire da qui, Nietzsche svilupperà la sua critica al cristianesimo per aver sminuito la portata dell’esistenza umana, togliendo alla vita novità e avventura. La fede sarebbe allora come un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani.

3. In questo processo, la fede ha finito per essere associata al buio. Si è pensato di poterla conservare, di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino. Poco a poco, però, si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla mèta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione.

Una luce da riscoprire

4. È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo. Da una parte, essa procede dal passato, è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vincere la morte. Allo stesso tempo, però, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte, la fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro "io" isolato verso l’ampiezza della comunione. Comprendiamo allora che la fede non abita nel buio; che essa è una luce per le nostre tenebre. Dante, nella Divina Commedia, dopo aver confessato la sua fede davanti a san Pietro, la descrive come una "favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla". Proprio di questa luce della fede vorrei parlare, perché cresca per illuminare il presente fino a diventare stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce.

[Lumen Fidei]

Set 14, 2025

Sia la Luce

A Pasqua, al mattino del primo giorno della settimana, Dio ha detto nuovamente: “Sia la luce!”. Prima erano venute la notte del Monte degli Ulivi, l’eclissi solare della passione e morte di Gesù, la notte del sepolcro. Ma ora è di nuovo il primo giorno – la creazione ricomincia tutta nuova. “Sia la luce!”, dice Dio, “e la luce fu”. Gesù risorge dal sepolcro. La vita è più forte della morte. Il bene è più forte del male. L’amore è più forte dell’odio. La verità è più forte della menzogna. Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, Egli stesso, pura luce di Dio. Questo, però, non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi.

Ma come può avvenire questo? Come può tutto questo giungere fino a noi così che non rimanga solo parola, ma diventi una realtà in cui siamo coinvolti? Mediante il Sacramento del battesimo e la professione della fede, il Signore ha costruito un ponte verso di noi, attraverso il quale il nuovo giorno viene a noi. Nel Battesimo, il Signore dice a colui che lo riceve: Fiat lux – sia la luce. Il nuovo giorno, il giorno della vita indistruttibile viene anche a noi. Cristo ti prende per mano. D’ora in poi sarai sostenuto da Lui e entrerai così nella luce, nella vita vera. Per questo, la Chiesa antica ha chiamato il Battesimo “photismos” – illuminazione.

Perché? Il buio veramente minaccioso per l’uomo è il fatto che egli, in verità, è capace di vedere ed indagare le cose tangibili, materiali, ma non vede dove vada il mondo e da dove venga. Dove vada la stessa nostra vita. Che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Il buio su Dio e il buio sui valori sono la vera minaccia per la nostra esistenza e per il mondo in generale. Se Dio e i valori, la differenza tra il bene e il male restano nel buio, allora tutte le altre illuminazioni, che ci danno un potere così incredibile, non sono solo progressi, ma al contempo sono anche minacce che mettono in pericolo noi e il mondo. Oggi possiamo illuminare le nostre città in modo così abbagliante che le stelle del cielo non sono più visibili. Non è questa forse un’immagine della problematica del nostro essere illuminati? Nelle cose materiali sappiamo e possiamo incredibilmente tanto, ma ciò che va al di là di questo, Dio e il bene, non lo riusciamo più ad individuare. Per questo è la fede, che ci mostra la luce di Dio, la vera illuminazione, essa è un’irruzione della luce di Dio nel nostro mondo, un’apertura dei nostri occhi per la vera luce.

[Papa Benedetto, Veglia Pasquale 7 aprile 2012]

Gesù Cristo, luce vera che illumina ogni uomo

1. Chiamati alla salvezza mediante la fede in Gesù Cristo, «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), gli uomini diventano «luce nel Signore» e «figli della luce» (Ef 5,8) e si santificano con «l'obbedienza alla verità» (1 Pt 1,22).

Questa obbedienza non è sempre facile. In seguito a quel misterioso peccato d'origine, commesso per istigazione di Satana, che è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44), l'uomo è permanentemente tentato di distogliere il suo sguardo dal Dio vivo e vero per volgerlo agli idoli (cf 1 Ts 1,9), cambiando «la verità di Dio con la menzogna» (Rm 1,25); viene allora offuscata anche la sua capacità di conoscere la verità e indebolita la sua volontà di sottomettersi ad essa. E così, abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo (cf. Gv 18, 38), egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa verità.

Ma nessuna tenebra di errore e di peccato può eliminare totalmente nell'uomo la luce di Dio Creatore. Nella profondità del suo cuore permane sempre la nostalgia della verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua conoscenza. Ne è prova eloquente l'inesausta ricerca dell'uomo in ogni campo e in ogni settore. Lo prova ancor più la sua ricerca sul senso della vita. Lo sviluppo della scienza e della tecnica, splendida testimonianza delle capacità dell'intelligenza e della tenacia degli uomini, non dispensa dagli interrogativi religiosi ultimi l'umanità, ma piuttosto la stimola ad affrontare le lotte più dolorose e decisive, quelle del cuore e della coscienza morale.

2. Ogni uomo non può sfuggire alle domande fondamentali: Che cosa devo fare? Come discernere il bene dal male? La risposta è possibile solo grazie allo splendore della verità che rifulge nell'intimo dello spirito umano, come attesta il salmista: «Molti dicono: "Chi ci farà vedere il bene?". Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4,7).

La luce del volto di Dio splende in tutta la sua bellezza sul volto di Gesù Cristo, «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), «irradiazione della sua gloria» (Eb 1,3), «pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14): Egli è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Per questo la risposta decisiva ad ogni interrogativo dell'uomo, in particolare ai suoi interrogativi religiosi e morali, è data da Gesù Cristo, anzi è Gesù Cristo stesso, come ricorda il Concilio Vaticano II: «In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro, e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione».

Gesù Cristo, «la luce delle genti», illumina il volto della sua Chiesa, che Egli manda in tutto il mondo ad annunciare il Vangelo ad ogni creatura (cf Mc 16,15). Così la Chiesa, Popolo di Dio in mezzo alle nazioni, mentre è attenta alle nuove sfide della storia e agli sforzi che gli uomini compiono nella ricerca del senso della vita, offre a tutti la risposta che viene dalla verità di Gesù Cristo e del suo Vangelo. È sempre viva nella Chiesa la coscienza del suo «dovere permanente di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto».

[Papa Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor]

Set 14, 2025

Luce che incontra

Pubblicato in Angolo dell'apripista

Gesù utilizza le metafore del sale e della luce e le sue parole sono dirette ai discepoli di ogni tempo, quindi anche a noi.

Gesù ci invita ad essere un riflesso della sua luce, attraverso la testimonianza delle opere buone. E dice: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Queste parole sottolineano che noi siamo riconoscibili come veri discepoli di Colui che è la Luce del mondo, non nelle parole, ma dalle nostre opere. Infatti, è soprattutto il nostro comportamento che – nel bene e nel male – lascia un segno negli altri. Abbiamo quindi un compito e una responsabilità per il dono ricevuto: la luce della fede, che è in noi per mezzo di Cristo e dell’azione dello Spirito Santo, non dobbiamo trattenerla come se fosse nostra proprietà. Siamo invece chiamati a farla risplendere nel mondo, a donarla agli altri mediante le opere buone. E quanto ha bisogno il mondo della luce del Vangelo che trasforma, guarisce e garantisce la salvezza a chi lo accoglie! Questa luce noi dobbiamo portarla con le nostre opere buone.

La luce della nostra fede, donandosi, non si spegne ma si rafforza. Invece può venir meno se non la alimentiamo con l’amore e con le opere di carità. Così l’immagine della luce s’incontra con quella del sale.

Ognuno di noi è chiamato ad essere luce e sale nel proprio ambiente di vita quotidiana, perseverando nel compito di rigenerare la realtà umana nello spirito del Vangelo e nella prospettiva del regno di Dio. Ci sia sempre di aiuto la protezione di Maria Santissima, prima discepola di Gesù e modello dei credenti che vivono ogni giorno nella storia la loro vocazione e missione. La nostra Madre ci aiuti a lasciarci sempre purificare e illuminare dal Signore, per diventare a nostra volta “sale della terra” e “luce del mondo”.

[Papa Francesco, Angelus 5 febbraio 2017]

Astuzia cristiana: senso del dovere e del “padrone” giusto

(Lc 16,1-13)

 

In «La morte di Peregrino» [De morte Peregrini, 13] l’irriverente Luciano di Samosata, polemista del II sec. - così si esprime nei confronti dei cristiani:

«Il loro primo Legislatore li persuade che sono tutti fratelli tra loro e, come si convertono, rinnegando gli dei greci, adorano quel sapiente Crocifisso, e vivono secondo le sue leggi. Per la qualcosa disprezzano tutti i beni egualmente e li credono comuni e non se ne curano quando li hanno. Perciò se tra loro sorgesse un accorto impostore che sapesse ben maneggiarli, immediatamente diventerebbe ricco, canzonando questa gente credulona e sciocca».

 

A maggior ragione dei privati, la società ecclesiale gestisce beni per se stessi comuni, sacri, non esclusivi.

Ma un responsabile, leader di comunità [cf. v.14], viene accusato di approfittare della sua posizione di amministratore dei beni di Dio e della chiesa.

La Torah, le normative specifiche e tutto il costume ufficiale dell’Oriente antico vietavano di chiedere interessi sulle forniture (o prestiti) di derrate alimentari.

Malgrado ciò, di fatto e sottobanco i possidenti facevano leva sul ricatto. Trattenendo compensi indebiti e lauti, sulle transazioni.

Allora il “pizzicato” mette in campo la valutazione giusta: ricalcola e allinea la contabilità - rinunciando all’illecito introito che aveva accarezzato di godersi in prima persona.

Sebbene abituato ad andare a testa alta in società, il tizio sceglie finalmente di non proseguire cocciutamente nell’imbroglio delle quote in aggiunta, che non gli spettavano.

Coglie l’occasione che si presenta sulla sua strada. Questo il punto che Lc sottolinea. E decide prontamente di non continuare a corrompere se stesso e gli altri: opzione valida.

Viene dunque lodato (v.8) perché si accorge di un’altra possibilità. E lo fa con equa ‘scaltrezza’, stavolta non aleatoria.

 

La Via spirituale ha un crocevia crudo: chiedersi se ricominciare nello stile d’accumulo-e-trattenere, o puntare sulla qualità dei rapporti.

Opera eccellente della Fede nell’esperienza ecclesiale - e soglia della gioia - è trasformare le risorse in Vita e Relazione.

Insomma, non basta uno spiritualismo di carattere sentimentale. Bisogna sanare i bilanci ed evitare le cordate [cf. v.14].

Giustizia e destinazione universale dei beni non sono semplici aggiunte, di cui si possa sfumare il senso.

Ristabilita la verità, ecco un bel metodo per «purificare» anche la ricchezza iniqua: usarla per i destinatari.

 

Malgrado gli errori che si possono commettere - sempre possiamo dare una svolta decisiva.

Insomma, la pienezza del Regno di Dio si realizza attraverso l’Incontro, e i beni hanno senso come possibilità di sviluppo umano (vv.9-13).

Pertanto le guide spirituali devono essere i primi testimoni di detta funzione sociale, umanizzante e divina.

Essi sono chiamati a disporre delle risorse comuni in modo non allegro né spensierato, bensì con spiccato senso di responsabilità - senza ombra alcuna.

 

 

[25.a Domenica T.O. (anno C), 21 settembre 2025]

La scelta giusta, nel piccolo e nel grande

Lc 16,1-13 (1-15)

 

Astuzia cristiana: senso del dovere e del “padrone” giusto

(Lc 16,1-8)

 

Ci chiediamo: c’è un altro stile di vita, oltre il vezzo di farsi valere in qualsiasi circostanza? Cosa genera tanti attriti senza posa né criterio, anche in tempi di sottomissione? Qual è la soluzione per edificare una casa comune? E il primo passo concreto per il futuro?

Lc parla molto chiaro, cesellando una catechesi probabilmente tratta da un’esperienza viva che ha segnato l’ambiente dei credenti.

 

«Chi [è] fedele in una cosa minima è fedele anche in una cosa grande, e [chi] è ingiusto in una cosa minima è ingiusto anche in una cosa grande» (Lc 16,10).

In «La morte di Peregrino» [De morte Peregrini, 13] l’irriverente Luciano di Samosata, polemista del II sec. - così si esprime nei confronti dei cristiani:

«Il loro primo Legislatore li persuade che sono tutti fratelli tra loro e, come si convertono, rinnegando gli dei greci, adorano quel sapiente Crocifisso, e vivono secondo le sue leggi. Per la qualcosa disprezzano tutti i beni egualmente e li credono comuni e non se ne curano quando li hanno. Perciò se tra loro sorgesse un accorto impostore che sapesse ben maneggiarli, immediatamente diventerebbe ricco, canzonando questa gente credulona e sciocca».

 

Ipotizziamo la situazione, probabilmente da riferire a un veterano della cerchia giudeo cristiana [considerata nei Vangeli quella dei “farisei” di ritorno nelle assemblee dei primi tempi] (cf. Lc 16,14).

Un responsabile, leader di comunità [cf. v.14], viene accusato di profittare della posizione di amministratore dei beni di Dio e della chiesa.

La Torah, le normative specifiche e tutto il costume ufficiale dell’Oriente antico vietavano di chiedere interessi sulle forniture (o prestiti) di derrate alimentari.

Ma di fatto e sottobanco i possidenti facevano leva sul ricatto. Trattenendo compensi indebiti e lauti, sulle transazioni.

La percentuale di scremature dipendeva dalla capacità di scrutare i bisogni e alzare il tasso d’interesse - persino sul frumento, l’olio e il cibo base.

Anche il coordinatore di chiesa si era lasciato sedurre dal malcostume corrente, per un facile guadagno (sulla fame della gente).

Avendo fatto a lungo orecchie da mercante, lo scandalo emerge (fra dirigenti e gruppi che si fregiano del nome Cristiano!).

L’uomo di spicco viene messo alle strette per un rendiconto trasparente.

Allora il “pizzicato” sceglie di ricalcolare e allineare la contabilità - rinunciando all’illecito introito che aveva accarezzato di godersi in prima persona.

Tutto avrebbe dovuto essere messo a disposizione dei fedeli e del bene comune, senza intrallazzi (privi di controllo - soliti).

Sebbene abituato ad andare a testa alta in società, il tizio sceglie finalmente di non proseguire cocciutamente nell’inguaribile imbroglio delle quote in aggiunta che non gli spettavano.

I tesori (di Dio) sono da condividere, senza ricarico privato - quindi evita di arrampicarsi sugli specchi, piroettare, cercare l’appoggio di complici o di cordate [cf. v.14] e gruppi di ammanicati.

Coglie l’occasione che si presenta sulla sua strada. Questo il punto che Lc sottolinea. E decide prontamente di non continuare a corrompere se stesso e gli altri: opzione valida.

Le cose sono evidenti e non accampa quel genere di spiegazioni - come purtroppo capita - che cronicizzano e degenerano la situazione.

Viene dunque lodato (v.8) perché invece di tornare ad alimentare se stesso e il suo codazzo… si accorge di un’altra possibilità.

C’è un Altrove da percepire, qui; con previdente tensione interiore ed equa “scaltrezza”, stavolta non aleatoria.

La Via spirituale ha un crocevia crudo: chiedersi se ricominciare nello stile d’accumulo-e-trattenere, o puntare sulla qualità dei rapporti.

Non più intimidazioni del tipo: «Tu non sai chi sono io»; «Voi non sapete chi e quanti siamo noi» - e tentativi appiccicati al tornaconto.

Non più imbrogli da celare e sotterfugi distruttivi, per un’allegra gestione amministrativa: meglio sfigurare personalmente che essere complici attivi e omertosi di un altro “dio” (quello che dà ordini opposti ai consigli del Padre).

Opera eccellente della Fede nell’esperienza ecclesiale - e soglia della gioia - è trasformare le risorse in Vita e Relazione.

Ecco la nostra Guida per il domani e la felicità, sempre.

Giustizia e destinazione universale dei beni non sono semplici aggiunte all’andare devoto, di cui si possa sfumare il senso - anche laddove le pertinenze comunitarie fossero appannaggio di chi ha mani e piedi dappertutto: cricche dalle buone maniere e pessime abitudini.

Esiste un’altra proficuità e funzionalità degli antichi profitti disinvolti: non quelli dell’economia liberale e della proprietà privata, ma dell’Amicizia libera, che non trattiene - capacità di ricreare equilibri dove non sono; coltivare uguaglianza e trasparenza, felicità e vita diffusa.

 

Non basta uno spiritualismo di carattere sentimentale. Bisogna sanare i bilanci.

Ristabilita la verità e senza guardare in faccia a nessun primattore, né a “compagni di merende” o gruppi di pressione, ecco un bel metodo per «purificare» anche la ricchezza iniqua: usarla per i destinatari.

È l’unica valutazione giusta, che annienta il malcostume e le stranissime competizioni fra poveracci senza dote e a testa in giù, che paiono destinati solo a friggere.

Siamo chiamati a usare le “nostre” energie e risorse per dilatare l’esistere di tutti, invece di continuare a beccarsi e papparci per far vedere chi comanda.

Questo è - malgrado gli errori che si possono commettere - dare la svolta decisiva, per una vita bella.

Insomma, la pienezza del Regno di Dio si realizza attraverso l’incontro, e i beni hanno senso come possibilità di sviluppo umano (cf. vv.9-13).

 

Nell’enciclica Fratelli Tutti leggiamo al n.120:

«la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata. Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale, è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione [...] Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica».

 

Tale diritto-base è senza frontiere, e altrettanto vale per il funzionamento della società ecclesiale - non cooptata, né occulta.

A maggior ragione dei privati, essa deve rendere conto senza trucchi: gestisce infatti beni per se stessi comuni, variegati, sacri e non esclusivi.

I responsabili di Chiesa sono i primi chiamati a vincere l’unilateralità del ruolo e delle risorse, tantomeno da gestire come fossero di proprietà selettiva o di club riservati.

Pertanto le guide spirituali devono essere i primi testimoni di detta funzione sociale, umanizzante e divina.

Essi sono chiamati a disporre delle risorse da “spezzare” in modo non allegro e spensierato, bensì con spiccato senso di responsabilità - senza ombra alcuna.

 

«Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l'approvò; e Agnese, superba d'averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell'orto, per non esser veduto da' ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n'andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all'in giù, nella mano d'un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l'alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura» [I Promessi Sposi, cap.3].

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Nella tua comunità l’amministrazione dei beni è pubblica, regolare e trasparente o cronico appannaggio d’individui e gruppi senza controllo?

 

 

Amministratori onesti - a vario livello - e Casa comune

 

Mammona nel piccolo e nel grande

(Lc 16,9-15)

 

«In definitiva, dice Gesù, occorre decidersi: “Non potete servire a Dio e a mammona” (Lc 16,13). Mammona è un termine di origine fenicia che evoca sicurezza economica e successo negli affari; potremmo dire che nella ricchezza viene indicato l’idolo a cui si sacrifica tutto pur di raggiungere il proprio successo materiale e così questo successo economico diventa il vero dio di una persona. È necessaria quindi una decisione fondamentale» [papa Benedetto, omelia a Velletri 23 settembre 2007].

Il responsabile di chiesa “pizzicato” ad approfittarsi dei beni della comunità (vv.1-8) sapeva fare grandi discorsi - forse strumentali - sulla solidarietà necessaria, ma non viveva la fraternità concreta.

Ecco dunque una catechesi di Lc sulla fedeltà nel piccolo e nel grande: insegnamento attualissimo. Anche oggi infatti non mancano corifei dai grandi proclami... assai diffusi, però anche solo per darsi tono.

Sovvenire nel concreto e giocarsi la vita - mettendosi una mano sulla coscienza e una nel portafoglio - resta cosa purtroppo ancora faticosa e rara.

Molti non trovano di meglio che girare la testa dall’altra parte e svicolare, delegando colpe e responsabilità al “sistema”, alla crisi contingente, etc. - non senza appigli o ragioni concrete.

Invece, come sottolinea l'enciclica sociale di Papa Francesco, il mondo più giusto è opera «laboriosa, artigianale» (FT n.217).

«E io vi dico, fatevi amici dal mammona ingiusto affinché quando verrà a mancare vi accolgano nelle tende eterne.

Chi fedele in una cosa minima, è fedele anche in una cosa grande, e chi ingiusto in una cosa minima, è ingiusto anche in una cosa grande.

Se dunque non siete stati fedeli con il mammona ingiusto, chi vi affiderà la [ricchezza] vera?

E se non siete stati fedeli con la [ricchezza] altrui, chi vi darà la vostra?» (Lc 16,9-12).

 

 

Nell’intento dell’evangelista la vicenda particolare cui si allude nei vv. precedenti doveva servire a formare in modo concreto le sue piccole comunità sull’uso dei beni materiali.

Dopo un errore che anche i capi possono commettere, persino la ricchezza ingiusta può essere ben usata in favore di tutti - per creare già sulla terra quel clima di vitalità serena indistruttibile che è tratto e attributo della condizione divina.

Nella Chiesa autentica il misero - oppresso, ribassato, impoverito e reso pitocco dalla società competitiva - ritrova stima, speranza, voglia di vivere; col semplice aiuto di fratelli altrettanto bisognosi.

In origine (infatti) tutte le comunità sorsero tra indigenti. Poco a poco iniziarono ad affacciarsi anche benestanti.

Sembrava una grande apertura al futuro di Dio; invece, man mano che il tempo passava, ci si accorgeva della crescita d’insensibilità e chiusura del cuore, nei nuovi ceti abbienti e nelle chiese.

L’ingresso dei ricchi - inizialmente ben visto - recò nel tempo non pochi problemi, anche di gestione interna delle risorse collettive.

I beni comuni diventarono talora appannaggio esclusivo di dirigenti che sembravano non avere più idee chiare sul ruolo sociale del denaro.

 

I primi cristiani avevano compreso che la fede nella risurrezione è incompatibile con l’attaccamento all’effimero. Ma si trattava di condizione rischiosa.

A tale riguardo è significativa la testimonianza indiretta di Luciano di Samosata (125-192) autore di satire contro superstizioni e credulonerie tra le quali annovera anche il cristianesimo.

Con linguaggio scanzonato, egli descrive in «La morte di Peregrino» [De morte Peregrini, 13] l’impatto che la Fede esercitava sulla vita dei cristiani del suo tempo, e con fermezza non convenzionale:

«Il loro primo legislatore li persuade che sono tutti fratelli tra loro e, come si convertono, rinnegando gli dei greci, adorano quel sapiente crocifisso e vivono secondo le sue leggi. Per la qualcosa disprezzano tutti i beni egualmente e li credono comuni e non se ne curano quando li hanno. Perciò se tra loro sorgesse un accorto impostore che sapesse ben maneggiarli, immediatamente diventerebbe ricco, canzonando questa gente credulona e sciocca».

 

La Liberazione dagli idoli del patrimonio privato che Gesù propone stimolava le anime anche più svelte e affermate ad apprezzare la trasformazione delle proprietà in relazione e possibilità di vita altrui.

Ovviamente per introdurre tale modello di condivisione e incontrare il mondo esterno, la scelta doveva iniziare da vicino a sé: non si poteva opprimere sorelle e fratelli di credo, e predicare giustizia al mondo.

L’emancipazione inizia nel piccolo della propria famiglia, dei conoscenti e amici; nello spicciolo dei rapporti interni e giornalieri.

Il fatto è che Dio e il denaro danno ordini opposti. Uno distoglie l'altro.

Quindi prima o poi anche chi è motivato da ottime intenzioni può giungere a disprezzare il Padre, la Comunione, gli ideali vissuti anche nel sommario - e affezionarsi a scorciatoie banali.

I leaders religiosi ufficiali, tutti congregati nella difesa dei lauti guadagni assicurati dal mondo antico - che (avidamente) sorreggevano a spada tratta - onoravano sì l’Eterno nei segni, ma... cedevano alla tentazione.

Privi ormai sia di scelte di fondo che di dettaglio, i direttori se la ridevano alle spalle di Gesù, tramando di nascosto e di concerto. Ancora oggi purtroppo trattandolo come un ingenuo sognatore da strapazzo (vv.14-15).

Eppure il Maestro continua a sgolarsi, affinché anche noi entriamo nella sua nuova Economia «proattiva» [come forse la definirebbero i vescovi del Sudafrica, e la recente enciclica sociale].

Economia della gratuità che non depaupera - per una «maggior ricchezza possibile» che spegne il «desiderio di dominare», ma fa «stare insieme come esseri umani» (FT n.229).

 

Qui l’esiguo diventa rilevante. La sfida è aperta.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Sei genericamente solidale o... fraterno nel conquibus?

Hai provato l’esperienza del dono che non depaupera, bensì arricchisce?

In ambito ecclesiale, ti sei sentito deprivato, o viceversa umanizzato?

[…]  ho avuto modo di soffermarmi a riflettere sul retto uso dei beni terreni, un tema che in queste domeniche l’evangelista Luca, in vari modi, ha riproposto alla nostra attenzione. Raccontando la parabola di un amministratore disonesto ma assai scaltro, Cristo insegna ai suoi discepoli quale è il modo migliore di utilizzare il denaro e le ricchezze materiali, e cioè condividerli con i poveri procurandosi così la loro amicizia, in vista del Regno dei cieli. "Procuratevi amici con la disonesta ricchezza – dice Gesù – perché quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne" (Lc 16,9). Il denaro non è "disonesto" in se stesso, ma più di ogni altra cosa può chiudere l’uomo in un cieco egoismo. Si tratta dunque di operare una sorta di "conversione" dei beni economici: invece di usarli solo per interesse proprio, occorre pensare anche alle necessità dei poveri, imitando Cristo stesso, il quale – scrive san Paolo – "da ricco che era si fece povero per arricchire noi con la sua povertà" (2 Cor 8,9). Sembra un paradosso: Cristo non ci ha arricchiti con la sua ricchezza, ma con la sua povertà, cioè con il suo amore che lo ha spinto a darsi totalmente a noi.

Qui potrebbe aprirsi un vasto e complesso campo di riflessione sul tema della ricchezza e della povertà, anche su scala mondiale, in cui si confrontano due logiche economiche: la logica del profitto e quella della equa distribuzione dei beni, che non sono in contraddizione l’una con l’altra, purché il loro rapporto sia bene ordinato. La dottrina sociale cattolica ha sempre sostenuto che l’equa distribuzione dei beni è prioritaria. Il profitto è naturalmente legittimo e, nella giusta misura, necessario allo sviluppo economico. Giovanni Paolo II così scrisse nell’Enciclica Centesimus annus: "la moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi" (n. 32). Tuttavia, egli aggiunse, il capitalismo non va considerato come l’unico modello valido di organizzazione economica (cfr ivi, 35). L’emergenza della fame e quella ecologica stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile.

Maria Santissima, che nel Magnificat proclama: il Signore "ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote" (Lc 1,53), aiuti i cristiani ad usare con saggezza evangelica, cioè con generosa solidarietà, i beni terreni, ed ispiri ai governanti e agli economisti strategie lungimiranti che favoriscano l’autentico progresso di tutti i popoli.

[Papa Benedetto, Angelus 23 settembre 2007]

2. Vengono da lontano, si potrebbero quasi definire endemici, i problemi e le sfide che si presentano all’attività pastorale del Nordest brasiliano, ponendo ai pastori della Chiesa l’inquietante interrogativo: come evangelizzare così immense e povere popolazioni e condividere le angustie nate dalla loro povertà che riveste, nella vita reale, aspetti concretissimi, nei quali dovremmo riconoscere le sembianze sofferenti di Cristo? Come edificare la Chiesa, con la caratteristica che la distingue di “segnale e salvaguardia della dimensione trascendente della persona umana” e promotrice della sua dignità integrale, con queste “pietre vive”, quando la loro povertà non è, molte volte, solamente una tappa casuale di situazioni ineluttabili di fattori naturali, ma anche prodotto di determinate strutture economiche, sociali e politiche?

3. Non si può non ricordare con gratitudine in questa circostanza, per lo meno globalmente le pleiadi di missionari e pastori abnegati, virtuosi e devoti che vi hanno preceduto e che debbono essere considerati come i fondatori della Chiesa di Dio (cf. Ef 2, 20) nelle vostre attuali diocesi, o, per usare l’espressione patristica, “hanno lì generato” Chiese e non senza sofferenza. A loro tempo, essi si saranno sicuramente chiesti quale fosse il piano di Dio sulla vocazione di ciascun uomo nella costruzione della società, per renderla sempre più umana, giusta e fraterna, e come si potesse attuare la priorità delle priorità nell’evangelizzazione: cercare innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia.

5. I popoli e i gruppi umani, in generale, per poter progredire, gradualmente ed efficacemente e non solo soddisfare le immediate necessità vitali, hanno bisogno di solidarietà, per giungere all’indispensabile e permanente trasformazione delle strutture della vita economica. Ma non si presenta facile procedere lungo lo scosceso sentiero di questa trasformazione, se non interviene una vera conversione delle menti, della volontà e dei cuori, che faccia scomparire la confusione della libertà con l’istinto dell’interesse individuale e collettivo, o ancora con l’istinto di lotta e di predominio, qualunque siano i colori ideologici di cui essi si rivestono (cf. Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 16).

[Papa Giovanni Paolo II, Discorso ai Vescovi Brasiliani 16 settembre 1985]

La parabola contenuta nel Vangelo di questa domenica (cfr Lc 16,1-13) ha come protagonista un amministratore furbo e disonesto che, accusato di aver dilapidato i beni del padrone, sta per essere licenziato. In questa situazione difficile, egli non recrimina, non cerca giustificazioni né si lascia scoraggiare, ma escogita una via d’uscita per assicurarsi un futuro tranquillo. Reagisce dapprima con lucidità, riconoscendo i propri limiti: «Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno» (v. 3); poi agisce con astuzia, derubando per l’ultima volta il suo padrone. Infatti, chiama i debitori e riduce i debiti che hanno nei confronti del padrone, per farseli amici ed essere poi da loro ricompensato. Questo è farsi amici con la corruzione e ottenere gratitudine con la corruzione, come purtroppo è consuetudine oggi.

Gesù presenta questo esempio non certo per esortare alla disonestà, ma alla scaltrezza. Infatti sottolinea: «Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza» (v. 8), cioè con quel misto di intelligenza e furbizia, che ti permette di superare situazioni difficili. La chiave di lettura di questo racconto sta nell’invito di Gesù alla fine della parabola: «Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne» (v. 9). Sembra un po’ confuso, questo, ma non lo è: la “ricchezza disonesta” è il denaro – detto anche “sterco del diavolo” – e in generale i beni materiali.

La ricchezza può spingere a erigere muri, creare divisioni e discriminazioni. Gesù, al contrario, invita i suoi discepoli ad invertire la rotta: “Fatevi degli amici con la ricchezza”. È un invito a saper trasformare beni e ricchezze in relazioni, perché le persone valgono più delle cose e contano più delle ricchezze possedute. Nella vita, infatti, porta frutto non chi ha tante ricchezze, ma chi crea e mantiene vivi tanti legami, tante relazioni, tante amicizie attraverso le diverse “ricchezze”, cioè i diversi doni di cui Dio l’ha dotato. Ma Gesù indica anche la finalità ultima della sua esortazione: “Fatevi degli amici con la ricchezza, perché essi vi accolgano nelle dimore eterne”. Ad accoglierci in Paradiso, se saremo capaci di trasformare le ricchezze in strumenti di fraternità e di solidarietà, non ci sarà soltanto Dio, ma anche coloro con i quali abbiamo condiviso, amministrandolo bene, quanto il Signore ha messo nelle nostre mani.

Fratelli e sorelle, questa pagina evangelica fa risuonare in noi l’interrogativo dell’amministratore disonesto, cacciato dal padrone: «Che cosa farò, ora?» (v. 3). Di fronte alle nostre mancanze, ai nostri fallimenti, Gesù ci assicura che siamo sempre in tempo per sanare con il bene il male compiuto. Chi ha causato lacrime, renda felice qualcuno; chi ha sottratto indebitamente, doni a chi è nel bisogno. Facendo così, saremo lodati dal Signore “perché abbiamo agito con scaltrezza”, cioè con la saggezza di chi si riconosce figlio di Dio e mette in gioco sé stesso per il Regno dei cieli.

La Vergine Santa ci aiuti ad essere scaltri nell’assicurarci non il successo mondano, ma la vita eterna, affinché al momento del giudizio finale le persone bisognose che abbiamo aiutato possano testimoniare che in loro abbiamo visto e servito il Signore.

[Papa Francesco, Angelus 22 settembre 2019]

Nella differenza tra religiosità comune e Fede personale

(Lc 8,4-15)

 

Le parabole pongono a confronto la realtà vissuta e il mondo dello Spirito:

«E un’altra parte cadde sulla terra quella bella, e germogliata fece frutto al centuplo» (v.8).

Il terreno sassoso e il clima rovente della Palestina non rendevano facile la vita dei lavoratori che vivevano di agricoltura.

La scarsità di piogge e l’intrusione nei campi di chi voleva abbreviare il cammino distruggeva le piante.

Un’azione faticosa e pochi risultati tangibili.

Malgrado le enormi difficoltà, ogni anno il contadino gettava chicchi a spaglio, generosamente - e arava, animato dalla fiducia nella forza vitale interna del seme e nella munificenza della natura.

L’aratura era successiva alla seminagione, per evitare che le zolle di terreno rivoltato seccassero immediatamente sotto la potente calura, e non consentissero ai grani di attecchire grazie a un minimo di umidità. 

Quindi il seminatore non selezionava anzitempo i diversi tipi di terreno.

 

Il Seme già opera: il nuovo “Regno che Viene” non è glorioso, ma qua e là alligna e produce - anche dove non t’aspetti.

A norma di mentalità religiosa antica sembra una follia, ma il divino Agricoltore non sceglie il tipo di “terreno”, né lo discrimina sulla base della percentuale produttiva - che pur sembrerebbe facile prevedere.

Il Seminatore accetta persino che il suo ‘chicco’ caduto sul terreno «bello» frutti in maniera diversa: il cento, il sessanta, il trenta per uno [Mt 13,8.23; Mc 4,8.20; il testo di Lc non parla di percentuali].

Con il termine «bello» (in senso orientale) s’intende il terreno pieno e fecondo [l’anima e l’opera dei discepoli più intimi, anche anonimi].

 

Il Signore vuol dire che l’opera di evangelizzazione non è misurabile con pignoleria.

La sua Parola permane come Inizio gettato nel cuore umano da Colui che non è taccagno, né esclusivo - bensì magnanimo.

In tal guisa, la Chiesa suo Popolo nuovo è un piccolo mondo alternativo sia all’Impero che alle religioni selettive.

Il nuovo Rabbi non aveva intenzione di ritagliarsi discepoli migliori di altri - isolati dalla realtà della famiglia umana.

Proponeva un nuovo stile di vita, convivente.

Insomma, Dio non forza la crescita del “granello” in ciascuno di noi, in modo astratto; ma attende con pazienza.

Accetta perfino che nasca male o che non spunti affatto. Conosce dove andare.

 

Visto che sparge in modo trabocchevole su tutti i generi di cuori (anche sull’asfalto), sa che verrà tacciato di essere poco accorto.

Ma Egli non si preoccupa della quantità, né dei frutti esteriori immediati della sua ‘semente’.

Non si cura che il lavoro risulti “efficace in partenza”!

Tale la amabile, umanizzante e divina, genitoriale Tolleranza che salva. Essa che non ci sequestra ogni attimo, a pianificare.

Gl’interessa piuttosto farci capire che non è un Dio calcolatore e avaro, esteriore, taccagno e prevenuto; bensì Padre munifico e conciliante.

Signore del Regno che non attende prima le nostre piccole ‘perfezioni’.

 

La metafora che segue la parabola iniziale vuole sottolineare che l’eventuale scarsità di risultato non è da attribuire alla mancanza di vitalità del Seme, né all’Opera divina, bensì alla libertà dell’uomo; alla sua condizione di limite o incoerenza.

 

Purtroppo, fin dalle prime generazioni di credenti, il richiamo positivo di Gesù è stato reinterpretato un po’ al contrario: con venature moraliste e individualiste (vv.11-15) che ne hanno intaccato la genuinità.

In tal guisa, la iniziale proposta di Fede personale si è contaminata con la consuetudinaria ottica purista e di ripiego [colpevolizzante] tipica delle filosofie e religioni circostanti, come del pensiero comune.

Alcune configurazioni di ordine ecclesiale hanno di seguito normalizzato la stessa potenza eccezionale del Messaggio; così inedito. In particolare, il nuovo senso di adeguatezza, fiducia e autostima che il Figlio di Dio intendeva comunicare ai suoi amici, e al mondo dei piccoli.

 

 

[Sabato 24.a sett. T.O. 20 settembre 2025]

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Let us look at them together, not only because they are always placed next to each other in the lists of the Twelve (cf. Mt 10: 3, 4; Mk 3: 18; Lk 6: 15; Acts 1: 13), but also because there is very little information about them, apart from the fact that the New Testament Canon preserves one Letter attributed to Jude Thaddaeus [Pope Benedict]
Li consideriamo insieme, non solo perché nelle liste dei Dodici sono sempre riportati l'uno accanto all'altro (cfr Mt 10,4; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13), ma anche perché le notizie che li riguardano non sono molte, a parte il fatto che il Canone neotestamentario conserva una lettera attribuita a Giuda Taddeo [Papa Benedetto]
Bernard of Clairvaux coined the marvellous expression: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis - God cannot suffer, but he can suffer with (Spe Salvi, n.39)
Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio non può patire, ma può compatire (Spe Salvi, n.39)
Pride compromises every good deed, empties prayer, creates distance from God and from others. If God prefers humility it is not to dishearten us: rather, humility is the necessary condition to be raised (Pope Francis)
La superbia compromette ogni azione buona, svuota la preghiera, allontana da Dio e dagli altri. Se Dio predilige l’umiltà non è per avvilirci: l’umiltà è piuttosto condizione necessaria per essere rialzati (Papa Francesco)
A “year” of grace: the period of Christ’s ministry, the time of the Church before his glorious return, an interval of our life (Pope Francis)
Un “anno” di grazia: il tempo del ministero di Cristo, il tempo della Chiesa prima del suo ritorno glorioso, il tempo della nostra vita (Papa Francesco)
The Church, having before her eyes the picture of the generation to which we belong, shares the uneasiness of so many of the people of our time (Dives in Misericordia n.12)
Avendo davanti agli occhi l'immagine della generazione a cui apparteniamo, la Chiesa condivide l'inquietudine di tanti uomini contemporanei (Dives in Misericordia n.12)
Addressing this state of mind, the Church testifies to her hope, based on the conviction that evil, the mysterium iniquitatis, does not have the final word in human affairs (Pope John Paul II)
Di fronte a questi stati d'animo la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l'ultima parola nelle vicende umane (Papa Giovanni Paolo II)
Jesus reminds us today that the expectation of the eternal beatitude does not relieve us of the duty to render the world more just and more liveable (Pope Francis)
Gesù oggi ci ricorda che l’attesa della beatitudine eterna non ci dispensa dall’impegno di rendere più giusto e più abitabile il mondo (Papa Francesco)
Those who open to Him will be blessed, because they will have a great reward: indeed, the Lord will make himself a servant to his servants — it is a beautiful reward — in the great banquet of his Kingdom He himself will serve them [Pope Francis]
E sarà beato chi gli aprirà, perché avrà una grande ricompensa: infatti il Signore stesso si farà servo dei suoi servi - è una bella ricompensa - nel grande banchetto del suo Regno passerà Lui stesso a servirli [Papa Francesco]
At first sight, this might seem a message not particularly relevant, unrealistic, not very incisive with regard to a social reality with so many problems […] (Pope John Paul II)

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