E perché Elia
(Mt 11,11-15)
S. Agostino affermava: «In Vetere Testamento Nuvum latet, in Novo Testamento Vetus patet». Ma a un diverso livello.
È vero che il messaggio del secondo Patto sorge dall’humus del primo, così come il nuovo rivela il senso ed è culmine dell’antico.
È anche accertato che nell’arco della storia della Redenzione il Battista sia stato un crocevia di proposte radicali, inattese, dirimenti.
Aveva rifiutato di far parte della classe sacerdotale, corrotta e refrattaria alle novità dello Spirito.
Predicava la giustizia sociale, nonché il perdono dei peccati fuori del Tempio - grazie a un cambiamento di mentalità che si dispiegasse nella vita reale.
Già secondo Giovanni, fattore di salvezza non poteva essere un rito formale, bensì la conversione concreta e di relazione: ad es. il non pensare più solo a se stessi.
Ma non ha rivelato - come il Figlio - la profondità del cuore del Padre.
Credeva che l’opera dei nuovi profeti dovesse fare giustizia immediata (sommaria...).
Sognava di poter recuperare l’incontaminatezza e la forza antiche, rabberciando gl’ingredienti della religione dei padri; insomma, di tornare alle origini.
Tutto, purificando e aggiornando il gran Tempio - non soppiantandolo nella sua configurazione giuridico-teologica.
Secondo Gesù invece, essa permaneva radicalmente deviante, perché incline alla forza e incapace di valorizzare fragilità e insicurezze.
Il Dio delle credenze arcaiche disdegnava le contraddizioni. Veniva a sentenziare e castigare secondo un freddo codice, tanto ideale quanto distante da ciascuno [anche dei suoi stessi credenti].
Ma un Altissimo sovrano che non ha cura delle persone deboli o delle cose che non piacciono, non sembra amabile: innesca e accentua i meccanismi settari della devozione competitiva, ansiogena, avvilente.
E il problema «Dove trovo la fiducia?» non ha riscontro; non si sposta di un millimetro.
Ebbene, non possiamo trarre energia da un’impostazione severa, purista, forzata e sterilizzante; contraria alla fioritura della nostra preziosa unicità.
Le continue mortificazioni delle eccentricità che renderebbero fantastici, demotivano.
Chiusi nelle armature che non ci appartengono, diventiamo arcigni, nemici della vita, invece che eccezionali, unici, rigogliosi.
Per questo Gesù annuncia la novità di un Regno da «accogliere».
Non da allestire con sudori e preparare con sforzo, secondo dettati culturali, legalisti, esterni, ma appunto da ospitare e includere; perché spiazza, travalica, sbalordisce.
Gli occhi nuovi per scoprire il senso di tutto un cammino sono trasmessi solo da colui che è Amico.
E Cristo lo fa non quando ci collochiamo bene o attrezziamo forte - permanendo in atteggiamento dirigista - bensì nell’ascolto totale (v.15).
In tal senso Giovanni è inferiore a qualsiasi ultimo degli ultimi e senza peso (v.11) che si presenta alla soglia delle comunità.
Costui vuol godere della vita fraterna, e apprendere come interiorizzare il passaggio dal senso religioso alla Fede, alla fioritura di sé, all’Amore.
Anche l’idea del Battezzatore circa il Messia non era quella del Cristo disposto ad abbracciare, recuperare, valorizzare e prediligere persino i senza voce, o i lontani considerati impuri.
Il nostro Maestro e Fratello è viceversa propugnatore di opere di sola vita con pienezza di Felicità (vv.2-6). Non di rudezze e cruda mortificazione - propria e dei nemici - o accuse.
Per Gesù i mikròi (v.11) - ossia i minimi, estranei e pitocchi - portano in cuore e nel Regno il germe della novità dei cieli squarciati per sempre.
Malgrado abbiano scarsa energia, essi recano la colomba di pace [Mt 3,16; Mc 1,10; Lc 3,22].
Icona di una energia non più aggressiva, sebbene la subiscano (v.12) [cf. Lc 16,16].
E come sottolineava Paolo VI, a prezzo di uno stile figliale, aperto al ripensamento di sé, crocifiggente - nella virtù intima del rovesciamento:
«Questo Regno e questa salvezza, parole-chiave dell'evangelizzazione di Gesù Cristo, ogni uomo può riceverli come grazia e misericordia, e nondimeno ciascuno deve, al tempo stesso, conquistarli con la forza - appartengono ai violenti, dice il Signore - con la fatica e la sofferenza, con una vita secondo il Vangelo, con la rinunzia e la croce, con lo spirito delle beatitudini. Ma, prima di tutto, ciascuno li conquista mediante un totale capovolgimento interiore che il Vangelo designa col nome di “metánoia”, una conversione radicale, un cambiamento profondo della mente e del cuore».
[Evangelii Nuntiandi, n.10].
L’uomo di Fede ha tempra, passione e risolutezza - incisivi soprattutto per quanto attiene l’edificazione del suo destino (per Grazia).
Eppure non sarà mai un urlatore scostante, né un prevaricatore bellicoso.
Per questo alla personalità distinta del grande e celebre Santo del deserto e del Giordano - incensurato conquistatore di folle - il Figlio di Dio può anteporre non un suo veterano, ma un qualsiasi inesperto, nuovo, claudicante, peccatore, reso libero perché rigenerato.
Questa la nuova era, dove più nessuno è additato e sotto assedio. Il Regno differente è quello di attese non istituzionali (talora da sbadiglio).
Gli stati creativi di qualsiasi infante - fuori dal giro, ma sensibile - sono accolti e risvegliati, invece che tirati da una parte e messi a tacere.
L’autentico motore della storia è in una dedita ma aperta e tranquilla potenza spontanea, naturale, innata.
Sia nei rovesci (anche epocali) che nella ricerca dello sviluppo umano integrale, o nell’incessante ricerca della pace, tale attitudine battesimale sa riprendere da zero.
«Se si tratta di ricominciare, sarà sempre a partire dagli ultimi» [cf. enciclica Fratelli Tutti n.235] non dai già realizzati.
L’energia dimessa è infatti la tipica risorsa persino del meno capace e più irrilevante dei discepoli autentici.
Unica virtù, e impareggiabile spirito che non decurta spazio all’esistenza.
Anzi, scioglie i veri nodi e non impoverisce le cose.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa, per te significa tutto?
E valore aggiunto?
E se il più piccolo del Regno fosse Gesù stesso?
Che tu sia misero e incapace di trionfare, lo consideri un nulla... o ti blocca?
La comunità accoglie i tuoi desideri o li tira da una parte?
Perché Elia
Al tempo, nell’area palestinese le difficoltà economiche e la dominazione romana costringevano le persone a ripiegare su un modello di vita individuale.
I problemi di sussistenza e assetto sociale avevano avuto come conseguenza uno sgretolamento della vita di relazione (e legami) sia di clan che nelle stesse famiglie.
Nuclei accorpanti, che avevano sempre assicurato assistenza, sostegno e difesa concreta ai membri più deboli e in difficoltà.
Tutti si attendevano che la venuta di Elia e del Messia potesse avere un esito positivo nella ricostruzione della vita fraterna, allora intaccata.
Come si diceva: «ricondurre il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri» [Mal 3,22-24 annunciava proprio l’invio di Elia] per ricostruire la convivenza disintegrata.
Ovviamente il recupero del senso d'identità interno del popolo era malvisto dal sistema di dominazione. Figuriamoci la cifra gesuana della Chiamata per Nome, che avrebbe spalancato la vita pia popolare a mille possibilità.
Giovanni aveva predicato con forza un ripensamento dell’idea di libertà conquistata (passaggio del Giordano), il riassetto delle idee religiose consolidate (conversione e perdono dei peccati nella vita reale, fuori del Tempio) e giustizia sociale.
Avendo un progetto evoluto di riforma nella solidarietà (Lc 3,7-14), in pratica era il Battezzatore stesso che aveva già svolto la missione dell’Elia atteso [Mt 17,10-12; Mc 9,11-13].
Per questo motivo era stato tolto di mezzo: poteva riassemblare tutto un popolo di estromessi - emarginati sia dal giro del potere che della religiosità verticista, accomodante, servile, e collaborazionista.
Una devozione a compartimenti stagni, che non consentiva assolutamente né il “ricordo” di se stessi, né dell’antico assetto sociale comunitario, incline alla condivisione.
Insomma, il sistema di cose, interessi, gerarchie, forzava a radicarsi in quella configurazione insoddisfacente. Ma ecco Gesù, che non si piega.
Chi ha il coraggio d’intraprendere un cammino di spiritualità biblica e di Esodo impara ad apprendere che ciascuno ha un modo differente di scendere in campo e stare nel mondo.
Allora, esiste un saggio equilibrio tra rispetto di sé, del contesto, e altrui?
Gesù viene presentato da Mt alle sue comunità come Colui che ha voluto continuare l’opera di edificazione del Regno, sia sotto il profilo della qualità vocazionale che per quanto concerne la ricostruzione della coesistenza.
Con una differenza fondamentale: rispetto al portato delle concezioni etnico-religiose, il Maestro non propone a tutti una sorta di ideologia di corpo, che finisce per spersonalizzare i Doni eccentrici dei deboli - quelli imprevedibili per una mentalità consolidata, ma che tracciano futuro.
In clima di clan rinsaldato, non di rado sono proprio i senza peso e coloro che conoscono solo abissi (e non vertici) a venire come spinti all’assenso di una conformazione rassicurante d’idee - invece che dinamica - e fucina di accoglienza più larga.
Quanti non conoscono vette ma solo povertà, proprio nei momenti di crisi sono i primi invitati dalle circostanze avverse ad oscurare il proprio sguardo sull’avvenire.
I miseri restano gl’impossibilitati a guardare in un’altra direzione e spostarsi, tracciando un diverso destino - proprio a causa di tare esterne a loro: culturali, di tradizione, di reddito, o “spirituali”.
Tutte caselle riconoscibili, forse talora non allarmanti, ma lontane dalla nostra natura.
E subito: con la condanna a portata di giudizio comune [per mancata omologazione].
Sentenza che vuole tarpare le ali, annientare l’atmosfera nascosta e segreta che appartiene davvero all'unicità personale, e condurci tutti - anche in modo esasperato.
Il Signore propone una vita assembleare di carattere, ma non ostinata né targata - non disattenta... come nella misura in cui viene costretta ad andare nella medesima rotta antica di sempre. O nella stessa direzione dei capitribù.
Cristo vuole una collaborazione più rigogliosa, che faccia utilizzare bene le risorse (interne e non) e le differenze.
Assetto per l’inedito: nel modo che ad es. le cadute o le inesorabili tensioni non vengano camuffate - anzi, diventino opportunità, sconosciute e impensabili ma assai feconde di vita.
Qui anche le crisi diventano importanti, anzi fondamentali per far evolvere la qualità dello stare accanto - nella ricchezza del «poliedro» che come scrive Papa Francesco «riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» [Evangelii Gaudium n.236].
Senza rigenerarsi, solo ripetendo e ricalcando modalità collettive - da modello sfera (ibidem) - o altrui, ossia da nomenclatura, non personalmente rielaborate o valicate, non si cresce; non ci si dirige verso la propria irripetibile missione.
Non si colma il senso lacerante di vuoto.
Tentando di manipolare caratteri e personalità per guidarle al “come devono essere”, non si sta bene con se stessi e neppure fianco a fianco. Non si trasmette ai tanti diversi la percezione di stima e adeguatezza, né il senso di benevolenza - tantomeno gioia di vivere.
Le traiettorie curve o a tentativo ed errore si confanno alla Prospettiva del Padre, e alla nostra crescita irripetibile.
Differenza tra religiosità e Fede.
Per il suo Nome
(Regno di Dio, Regno messianico, Popolo divino convocato nella Chiesa)
1. Leggiamo nella Costituzione Lumen gentium del Concilio Vaticano II che “i credenti in Cristo (Dio) li ha voluti chiamare nella Santa Chiesa, la quale . . . preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza . . . è stata manifestata dalla effusione dello Spirito (Santo)” (Lumen Gentium, 2). A questa preparazione della Chiesa nell’antica Alleanza abbiamo dedicato la catechesi precedente, nella quale abbiamo visto che, nella progressiva coscienza che Israele prendeva del disegno di Dio attraverso le rivelazioni dei profeti e i fatti stessi della sua storia, si faceva sempre più chiaro il concetto di un futuro regno di Dio, ben più alto ed universale di ogni previsione circa le sorti della dinastia davidica. Oggi passiamo alla considerazione di un altro fatto storico, denso di significato teologico: Gesù Cristo dà inizio alla sua missione messianica con l’annuncio: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1, 15). Quelle parole segnano l’ingresso “nella pienezza del tempo”, come dirà San Paolo (cf. Gal 4, 4), e preparano il passaggio alla Nuova Alleanza, fondata sul mistero dell’incarnazione redentrice del Figlio e destinata ad essere Alleanza eterna. Nella vita e nella missione di Gesù Cristo il regno di Dio non solo “è vicino” (Lc 10, 9), ma è già presente nel mondo, già agisce nella storia dell’uomo. Lo dice Gesù stesso: “Il regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc 17, 21).
2. La differenza di livello e di qualità tra il tempo della preparazione e quello del compimento - tra l’antica e la nuova Alleanza - è fatta conoscere da Gesù stesso quando, parlando del suo precursore Giovanni Battista, così si esprime: “In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” (Mt 11, 11). Giovanni, dalle rive del Giordano (e dal suo carcere), certamente ha contribuito più di chiunque altro, anche più degli antichi profeti (cf. Lc 7, 26-27), alla immediata preparazione delle vie del Messia. Tuttavia egli rimane in un certo senso ancora sulla soglia del nuovo regno, entrato nel mondo con la venuta di Cristo e in via di manifestazione col suo ministero messianico. Soltanto per mezzo di Cristo gli uomini diventano i veri “figli del regno”: cioè del nuovo regno ben superiore a quello di cui i giudei contemporanei si ritenevano gli eredi naturali (cf. Mt 8, 12).
3. Il nuovo regno ha un carattere eminentemente spirituale (…)
4. Questa trascendenza del regno di Dio è data dal fatto che esso ha origine non da un’iniziativa soltanto umana, ma dal piano, dal disegno e dalla volontà di Dio stesso. Gesù Cristo, che lo rende presente e lo attua nel mondo, non è soltanto uno dei profeti mandati da Dio, ma il Figlio consostanziale al padre, che si è fatto uomo con l’Incarnazione. Il regno di Dio è dunque il regno del Padre e del suo Figlio. Il regno di Dio è il regno di Cristo; è il regno dei cieli che si sono aperti sulla terra per concedere agli uomini di entrare in questo nuovo mondo di spiritualità e di eternità (…)
Insieme con il Padre e con il Figlio, anche lo Spirito Santo opera per l’attuazione del Regno già in questo mondo. Gesù stesso lo rivela: il Figlio dell’uomo “scaccia i demoni per virtù dello Spirito di Dio”, e per questo “è certo giunto fra voi il regno di Dio” (Mt 12, 28) (…)
7. Il regno messianico, attuato da Cristo nel mondo, si rivela e precisa definitivamente il suo significato nel contesto della passione e morte in croce. Già all’entrata in Gerusalemme avviene un fatto, disposto da Cristo, che Matteo presenta come realizzazione di una predizione profetica, quella di Zaccaria sul “re che cavalca un asino, un puledro figlio di asina” (Zc 9, 9; Mt 21, 5). Nella mente del profeta, nell’intento di Gesù e nella interpretazione dell’evangelista, l’asinello significava mitezza e umiltà. Gesù era il re mite e umile che entrava nella città davidica, dove col suo sacrificio avrebbe realizzato le profezie sulla vera regalità messianica.
Questa regalità diventa ben chiara durante l’interrogatorio subìto da Gesù al tribunale di Pilato (…) quella davanti al governatore romano
8. È una dichiarazione che conclude tutta l’antica profezia che scorre lungo la storia d’Israele e diventa fatto e rivelazione in Cristo. Le parole di Gesù ci fanno afferrare i bagliori di luce che solcano l’oscurità del mistero condensato nel trinomio: Regno di Dio, Regno messianico, Popolo di Dio convocato nella Chiesa. Su questa scia di luce profetica e messianica, possiamo meglio capire e ripetere, con più chiara comprensione delle parole, la preghiera insegnataci da Gesù (Mt 6, 10): “Venga il tuo Regno”. È il regno del Padre, entrato nel mondo con Cristo; è il regno messianico che per opera dello Spirito Santo si sviluppa nell’uomo e nel mondo per risalire nel seno del Padre, nella gloria dei cieli.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 4 settembre 1991]