(Mt 13,36-43)
Completezza: Duplicità
Dall’affascinante proposta di Fede alla fatica del ripiegamento (2)
La parabola del Seminatore come storicamente narrata da Gesù (vv.3-8) e quella delle zizzanie (vv.24-30) denotano la totale positività del suo Messaggio.
Il Signore proclamava un mondo nuovo; anzitutto un Cielo differente, tollerante e benevolo.
Principio della nostra vita da salvati non è quanto noi facciamo per Dio, bensì ciò che Lui (Generoso e Paziente) crea per noi.
Proprio come un Genitore condiscendente e longanime, il quale ripropone incessantemente occasioni di vita.
Il Maestro intendeva spostare il criterio della vita pia: dallo sforzo personale al lasciarsi salvare, cedendo il punto di vista.
La Redenzione ha radici nella Sua iniziativa provvidente, nella Sua gratuita liberalità, nella Sua calma serena.
Tutte condizioni che consentono a ciascuno un processo d’interazioni, assimilazioni e rielaborazioni: un tempo largo di crescita.
Ma la riflessione immediatamente successiva - sin da pochi decenni dalla morte del Signore - inizia a risentire del cliché culturale dominante a contorno, e purtroppo intaccarne sia il carattere che la trasparenza.
Il Figlio proclamava solo la longanimità del Padre: Soggetto, Motivo e Motore della nostra capacità di affrontare ogni cammino di fioritura.
Nella riflessione successiva, le parabole originali diventano allegorie, stracolme di simboli dal significato moralistico definito - tutto sommato banali.
In tal guisa, le notiamo venate di considerazioni impersonali sulla qualità del terreno, o addirittura del Seme!
Quest’ultimo - non più identificato con la Sua Parola, bensì in un certo tipo zelante di discepoli [di scarso peso specifico e proposta: quelli che si sentirebbero sempre attorniati da avversari].
Tale infausto passaggio testimonia la difficoltà di comprensione dello sbalorditivo richiamo del Figlio di Dio, sin dalle primitive comunità.
Il Signore intendeva suggerire a tutti un sentiero di Fede, proprio per soppiantare il giogo ansiogeno del modello religioso - il quale viceversa permaneva come archetipo attrattivo dei criteri di discernimento.
Giogo pesante, sebbene usuale, che non partiva dall’Amore; per il fatto stesso che supponeva spilorcerie, inadeguatezze, e vergogne ovunque - anche nella vita spirituale [rattrappita, perennemente in bilico, taccagna, sempre insufficiente].
Conosciamo le situazioni.
Invece, perfino i vv.18-23 contengono una Lieta Novella, più che un giudizio: nel nostro campo sorgono spontaneamente sia buon grano che zizzanie, ma tutto ciò non è una maledizione a prescindere; anzi (v.23c).
Bisogna tuttavia ammettere che la metafora dei vv.37-43 trasforma la parabola originaria (vv.24-30) in allegoria morale.
La metafora che segue la parabola iniziale vuole sottolineare che la presenza del “male” nel mondo non è da attribuire alla mancanza di vitalità del Seme, né all’Opera divina.
Protagonista del brano [dal v.18 e dal v.36] non è più Dio e il suo gesto munifico, che non bada a spese nel gettare il Suo Seme a spaglio, bensì il tipo di terreno - o qui il nuovo «seme buono»: l’apostolo stesso - che diverrebbe il vero “soggetto” del cammino spirituale.
Si entra in tal guisa nel campo minato delle devozioni: sembra che siano la donna e l’uomo, chi in realtà riceve la Parola, a doversi centrare su di sé, e individuare i propri difetti.
In aggiunta - avendone finalmente contezza, coscienza nitida, capacità naturale e persino dimestichezza - adoperarsi a «migliorare» secondo modelli, sotto pena di esclusione dal novero appunto dei “migliori”.
[Tutto ciò guida le persone normali a una spersonalizzazione della qualità stessa della Chiamata, e ad un pazzesco dispendio di energie].
L’idea etica - di fatto - cancella la fiducia. Non valorizza il dinamismo propulsivo dell’esistenza ordinaria. Essa trova sempre davanti a sé imperfezioni e grovigli da dipanare.
Sono queste, e i pensieri, che intralciano la strada. Viceversa, per realizzarsi e completarsi, tali zavorre andrebbero collocate sullo sfondo, gettate alle spalle; sorvolate in avanti.
Il pericolo di tale impostazione è che finirà per accumulare distinzioni su distinzioni, ossessionando la gente di peccato invincibile. E incidere sulle linee portanti della personalità di coloro che prendono sul serio il binario legalista.
Tale etica disincarnata mette in gabbia i più sensibili - i quali purtroppo scambiano via via la coscienza di se stessi con il colpevolismo dei miti [artefatti] di perfezione.
Salvo che per noncuranti e opportunisti, la ‘religione’ presa di petto ha sempre fatto rima con prigione.
Essa infatti ancora oggi rende paradossalmente protagonista del nostro percorso il giudizio di essere ancora «seme cattivo»! Opinione altrui ed esteriore.
In aggiunta, ecco il tormento del sentirsi ancora sotto la cappa d’un perenne «peccato»: trasgressione e senso di colpa che l'opzione fondamentale per Dio intendeva esorcizzare.
Infatti il sentenziare epidermico non conosce le difformi e normalissime energie dell’uomo - tutte plasmabili e potenzialmente preparatorie, da percepire a tutto tondo, assumere, investire.
Ogni pregiudizio anche sacrale in realtà trascura la poliedricità della persona, e si trasforma infine in quel principio mortifero di sé e degli altri, che a proclami non vorrebbe mai essere.
A motivo degli sforzi estrinseci o reconditi, ogni paradigma esterno finisce per smarrire la Via della Novità di Dio, la sua rilevanza, e la reale Vocazione - magari scambiandole per una zavorra.
La metafora (vv.37-43) è appunto frutto dell’interpretazione di prime assemblee ancora sotto l’influsso dell'antico target della “sterilizzazione” e “coerenza” esterna, formale, apparente - eticista più che relazionale.
Al pari di quanto già accennato sopra, perfino i vv.18-23 contengono una Lieta Novella, più che un giudizio: nel nostro campo sorgono spontaneamente sia buon grano che zizzanie, ma tutto ciò non è una maledizione a prescindere; anzi (v.23c).
Bisogna tuttavia ammettere che la metafora dei vv.37-43 trasforma la parabola originaria (vv.24-30) in allegoria morale.
Con elementi simbolici, le differenti espressioni figurate riprendono la narrazione originaria di Gesù, cercando d’interpretarla secondo i codici comuni della tradizionale predicazione rabbinica.
Come per i maestri d’Israele, anche qui l’intento prossimo è quello di scuotere gli ascoltatori, onde sottolineare l’importanza personale, comunitaria e spirituale, delle scelte dirimenti - nell’oggi.
Però in questo passo abbiamo come l’impressione che i redattori si siano fatti prendere dall’idea banale d’una giustizia immediata e risolutiva.
Eppure la precipitazione è sempre invisa alle cose di Dio... [a parte il fatto che spesso è il tempo la medicina che fa seccare spontaneamente i rami inutili, o tanti elementi parassiti].
In Casa (v.36) ossia nella Chiesa, si crea un dibattito anzitutto sulla spiegazione del perché Gesù non imponga una sterilizzazione preventiva del campo di grano.
In tal guisa, aprendo purtroppo a quel ‘purismo’ che il Figlio di Dio aborriva come nefasto.
Ciò, sebbene fosse comprensibile il tentativo dell’evangelista di arginare defezioni - vagliando bene ogni tentativo di adattamento alle cornici culturali, alle situazioni.
Ma cedendo a valutazioni di efficacia e contorno, il punto centrale della narrazione originaria del Figlio dell’uomo - ed Egli stesso - viene come spezzettato in elementi da schema.
Una casistica forse più facile da digerire, però addirittura indipendente dal senso del racconto principale (vv.18-23).
Infine, col rischio d’identificare la Volontà di Dio con quella d’una Chiesa di eletti e impeccabili. Comunità quasi collocata a monte di ogni processo di crescita.
Nell’incertezza, qui si tentano precisazioni particolari - secondo le quali però il brano, frutto di redazione, dibattito e riflessione successiva, rischia di rovesciare il senso della parabola gesuana stessa.
Infatti, nel suo popolo di fratelli e nella società, il Maestro non intendeva cancellare a priori il senso proficuo delle dinamiche ineffabili e misteriose del ‘mescolamento’: realtà di questo mondo a pieno titolo.
Tale l’Annuncio essenziale, universalista, del giovane Rabbi; a dispetto dei cliché puristi antichi, o delle mode senza spina dorsale.
La religiosità legalista era selettiva, élitaria, conformista; attenta al mantenimento delle gerarchie sociali.
In tal guisa, essa costituiva una cappa culturale a maglie fitte, e valutava in modo astratto, preventivo, ciò che dovesse venire considerato bene o male per tutti.
Eppure l’idea di perfezione algida [sterile di vita] non consentiva alle energie preparatorie dell’esistenza concreta di predisporre il futuro e generare la stessa Novità dello Spirito.
Eppure (il passo di Mt ne è testimone) subito dopo la morte del Cristo il convincimento d’incontaminatezza e la mentalità delle distinzioni ricominciavano a insinuarsi e prendere il sopravvento.
Ciò per il fatto che esternamente le piccole comunità dovevano confrontarsi (a testa alta) con le classifiche, il contesto delle religioni, i conformismi moralisti, i paradigmi usuali della cultura diffusa.
In taluni casi, tale configurazione conduceva a una mancanza di umanità.
Storicamente parlando - nella seconda e terza generazione di credenti l’accettazione di Gesù come Signore della propria vita stava forse rischiando di diventare più vincolante e identificativa, che propulsiva del carattere d’unicità personale - attivante la Libertà.
L’Incontro di Cristo col credente cambia tutto nella sua vita, certo - ma non a partire da una gerarchia presupposta di valori, procedure e sentenze già scritte.
In realtà si diventa attenti a percepire l’eccentricità dei fratelli per il fatto che si è sperimentato l’abbraccio benedicente del Padre sui propri “difetti”.
Non per un senso di paternalismo emotivo, ma perché non di rado le risorse che risolvono i veri problemi e attivano la Redenzione di Dio vengono dal turbine di preziose contraddizioni e indigenze che abbiamo dentro.
Proprio esse ci rendono meno unilaterali, più duttili e completi. Eccezionali, vivi; in grado di affidarsi al mondo interno, invece che a quello esterno.
Quindi capaci di svolta.
Invece, l’esclusivismo - dove la morale già consolidata fa la parte del leone, a braccetto con l’apparire - non ha mai lasciato crescere la Fede viva, né il mondo.
Lo vediamo: per far crescere il mondo e farlo rinascere dalla crisi globale, ciascun soggetto [anche istituzionale] è chiamato a reinventarsi fuori d’ogni spartito già disposto e riconosciuto.
E oggi forse proprio a partire da ciò che nella consuetudine di pensiero non era considerato altro che pecca, o fastidiosa dissonanza; incompiutezza, limite… così via.
D’improvviso e in modo palese gli squilibri e le oscillazioni fanno la differenza anche dal punto di vista della qualità.
Diventano occasioni da non perdere: una marcia in più; potenza sorgiva, spinta ad attivare l’inedito, e aprirsi.
Ecco una sostanziale differenza tra religiosità comune e vita di Fede.
Il carattere di Duplicità ci fa più sani e perfetti - e Dio non è prevenuto.
Anzi, agli occhi del Padre sono proprio le incertezze irripetibili (non da protocollo) che rendono speciale, unico, ogni suo figlio.
Insomma, si cresce, ci si arricchisce e si corrisponde alla propria Vocazione personale solo mettendo in gioco, integrando e trasmutando i confini - non rinnegandoli.