(Gv 12,20-33)
«Se il granello di frumento caduto a terra non muore, esso rimane solo; ma se muore, porta molto frutto» [Gv 12,24].
Ci chiediamo: in che modo è possibile in qualsiasi situazione far germogliare cose preziose? Qual è il modo migliore per occuparsi di sé? Come diventare fecondi, senza restringere il proprio spazio vitale?
Cosa attinge una propria linfa persino dai traumi, dai disagi, dagli insuccessi, o da ciò che non ci lascia tranquilli? E il piacere di vivere? Possiamo sperimentare almeno brevi momenti di eternità?
Cristo è davvero in grado di fornire alla nostra esistenza un colpo d’ala, far esplodere vita - gestire gli impegni in modo diverso, e trasalire di felicità?
Oppure ci scava definitivamente la fossa, col suo Nascondimento (che sembra un’opzione di morte)?
Siamo già ampiamente introdotti, ma forse non ci sentiamo abbastanza consapevoli: vorremmo approfondire, e magari da semplici ammiratori diventare Apostoli - coinvolti nel segreto brioso e crescente di Gesù.
Nell’avanzamento del cammino spirituale, scopriamo che non basta essere lontani dagli idoli e celebrare la fede: desideriamo fare passi successivi (vv.20-22), sperimentare immensi regali.
Vogliamo pienezza, espansione, gioia; non rimanere soffocati nelle mansioni senza incanto, nei meccanismi senza passo lirico.
E addentrarci nella Fede che sia già amore non compulsivo - così accedere alla salvezza integrale.
Desideriamo essere nella completezza - e quello del chicco di frumento che marcisce facendosi tramite dell’integrità perfetta non è un invito ad accumulare fatiche, né al dolorismo (intimista o catartico) bensì al rigoglio totale.
Insomma c’è crisi fra l’attaccamento al sé consolidato e approvato, e la sequela senza quelle ansie dentro. Discepolato che porta a letizia compiuta: vedersi sviluppare, espandere, fiorire - manifestando in forma nuova tutta la propria onda vitale.
Gv presenta il primo contatto dei già credenti con gli stranieri mettendo in campo dei «greci», arrivati a Gerusalemme per salire al Tempio in occasione della grande festa di Pasqua.
Forse desideravano «vedere Gesù» come la star del momento - ma in Lui incontrano una proposta di dono agli antipodi della concezione ellenista. Il contrasto che fa da sfondo all’episodio è acuto.
In Grecia era stato coniato il termine «aristoi» per indicare le persone di successo, che si stagliavano sugli altri: i migliori. Erano i ragguardevoli, coloro che ottenevano prestigio, fama, visibilità, onori consistenti.
Il Maestro toglie il velo delle illusioni [anche poi ecclesiastiche] insipienti. Ritiene questo ideale di vita infecondo.
E spiega in cosa consiste la Gloria che ha peso specifico: «cadere a terra» - affinché sia quest’ultima e le sue energie nascoste a rigenerare il nostro e altrui destino.
Insomma, in ogni persona ci sono forze sopite che attendono - anche se non le si volesse ammettere.
Esse pretendono una via propria; non modelli. In tal guisa, esse vengono liberate soltanto quando non ci si precipita ad aggiustare le cose come “dovrebbero essere”.
Sentiamo talora l’inconscio che vuole una evoluzione; ma i volti inespressi non emergono... le virtù primordiali restano soffocate.
Forse anche nel tempo della crisi globale pretendiamo di continuare così, a galleggiare sulle procedure, disinteressandoci della Vita come sorgente - non camuffata, a tutto tondo e senza lustrini.
Chi pensa ancora in modo conforme rimane nel recinto… diventato la tomba dell’anima.
Costui si ripiega sulla gloria fatua, resta sempre a distanza di sicurezza da altre possibilità, e perde il se stesso che dà origine al futuro.
Dice infatti il Tao Tê Ching (xxviii): «Chi sa d’esser glorioso e si mantiene nell’ignominia, è la valle del mondo; essendo la valle del mondo, la virtù sempre si ferma in lui, ed egli ritorna ad esser grezzo. Quando quel ch’è grezzo vien tagliato, allora se ne fanno strumenti; quando l’uomo santo ne usa, allora ne fa i primi tra i ministri».
Il modo migliore di «vedere» il Signore [v.21b - ossia capire e sperimentare il suo Volto generatore di vita] sembra quello di accostarsi a un processo naturale.
E l’immagine evangelica è presa dal mondo agricolo.
Affinché in un campo possano germogliare spighe, è necessario che i chicchi scompaiano nella terra, scivolando nell’oblio.
Solo da una trasmutazione (senza resistenze) può sbocciare il prodigio: un processo di nuova genesi e sviluppo, e quella nascita che porge il cento per uno [genesi ben dilatata, per es. a paragone delle piccine speranze di ruolo sociale].
La posta in palio è sconcertante: sembra paradossale, ma la vita non sviluppa a partire da un qualche proposito artificioso, bensì dalla natura stessa del seme, che dentro ha tutta una vitalità particolare.
Per realizzare ciò che ci caratterizza, il successo o la capacità di farsi “direttori” di sé non c’entra.
Anzi, forse è meglio imparare ad attendere, e agire con lentezza, ospitando la linfa che viene - invece che diventare frettolosamente persone “con” posizione sociale ragguardevole.
Neppure possiamo cavarcela allestendo un’osservanza religiosa sostitutiva che non ci corrisponde e non vogliamo, la quale spesso [cercando di mettere le cose a posto, all’istante, all’esterno] si tramuta in serbatoio d’intimi disagi e nevrosi.
Attivati dal Mistero paradossale, che chiama per Nome, passo passo e sapientemente, siamo invitati a rispettare i processi reali e gli sviluppi complessivi.
La crescita missionale in pienezza di personalità e di essere è tutta naturale - e solo così contrasta le opposizioni, anzi le coglie come opportunità che accendono il cammino, e opportunamente lo deviano.
Il nostro sviluppo è crescita globale.
Esso contrasta ogni falsa voce interiore o potenza esteriore: inclinazioni eterodirette - volte all’apparire. [Rincorse per farsi riconoscere al primo colpo… tutte opinioni a buon mercato; lontane dalle radici dell’essenza e delle metamorfosi].
Sulla base della propria esperienza, Gesù vuol dire:
Compagna di vita del Profeta che corrisponde alla propria “assurda” Chiamata non è l’affermazione d’emblée (statica, di sé) che non dà spazio al sogno inespresso.
Piuttosto, ecco la solitudine, lo stare all’angolo, il non essere cercato - e sentirsi trattare come inadeguato, disonorevole o fallito (proprio dagli esperti e da gente di rango).
Non è previsto che si possa sbrigare questo tipo di pratica schietta con se stessi, con Dio e gli uomini imboccando scorciatoie di zucchero filato: bisogna incontrare i nostri e altrui “piani bassi”.
La via dei rapporti fatui - di facciata, spesso subiti e di sovrappeso - non ci corrisponderà mai.
Proprio così: andremo dritti all’obbiettivo solo entrando in una nuova normalità: per voltare pagina, restando concentrati sulla nostra autentica trama caratteriale, ove si annida l’Appello imprevedibile di Dio che fa spazio all’istinto di libertà.
Le situazioni amare si riveleranno transitorie.
E se nel frattempo non ci saremo lasciati andare a motivo di qualche mancato riconoscimento o appartenenza, la storia ci troverà da un’altra parte.
Ma facciamo continuamente attenzione alle proposte spirituali poco evangeliche - appunto, carenti di ri-Nascite.
La dimensione sapiente del «Chicco che muore» non riguarda il volontarismo e l’autocontrollo, che ci faranno sconcertare dentro, sminuendo la sacra Unicità dell’anima e della Vocazione.
La disciplina di maniera che assume a ‘modello’ il già stabilito [e “come dovremmo essere”] trametterà solo lacerazioni; ci farà ammalare!
L’eccesso di controllo infatti, in ogni circostanza concreta attenuerà la nostra eccezionale inclinazione dell’essere variegato, dissanguerà il Mistero personale, e la crescente fioritura di Vita nuova.
Invece, il Signore ci vuole Pronti a ricreare noi stessi e far rigenerare il mondo - anche nel tempo della crisi globale.
Insomma, le attese “adeguate” sono armi a doppio taglio, assurdi alibi; ideali annebbiati - prodotti dall’artifizio. Senz’alcun Mistero che respiri dentro.
Chi invece consegna la reputazione, apparentemente sembra che marcisca, eppure (come Gesù) troverà immensità di raccolto.
Il Segno del Pane aiuta a non farci illusioni: il ministero dei discepoli non è per chiudersi, neppure per narrare l’ammirazione esterna e rimanere nella tana - bensì per farlo «vedere».
Anche nel tempo dei rivolgimenti complessivi.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In cosa riconosci i tramiti della vita, o a cosa accordi un altissimo onore?