Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Alla parabola del fattore infedele, l’evangelista fa seguire una breve serie di detti e di ammonimenti circa il rapporto che dobbiamo avere con il denaro e i beni di questa terra. Sono piccole frasi che invitano ad una scelta che presuppone una decisione radicale, una costante tensione interiore. La vita è in verità sempre una scelta: tra onestà e disonestà, tra fedeltà e infedeltà, tra egoismo e altruismo, tra bene e male. Incisiva e perentoria la conclusione del brano evangelico: “Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro”. In definitiva, dice Gesù, occorre decidersi: “Non potete servire a Dio e a mammona” (Lc 16,13). Mammona è un termine di origine fenicia che evoca sicurezza economica e successo negli affari; potremmo dire che nella ricchezza viene indicato l’idolo a cui si sacrifica tutto pur di raggiungere il proprio successo materiale e così questo successo economico diventa il vero dio di una persona. È necessaria quindi una decisione fondamentale tra Dio e mammona, è necessaria la scelta tra la logica del profitto come criterio ultimo nel nostro agire e la logica della condivisione e della solidarietà. La logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra poveri e ricchi, come pure un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo, per il bene comune di tutti. In fondo si tratta della decisione tra l’egoismo e l’amore, tra la giustizia e la disonestà, in definitiva tra Dio e Satana. Se amare Cristo e i fratelli non va considerato come qualcosa di accessorio e di superficiale, ma piuttosto lo scopo vero ed ultimo di tutta la nostra esistenza, occorre saper operare scelte di fondo, essere disposti a radicali rinunce, se necessario sino al martirio. Oggi, come ieri, la vita del cristiano esige il coraggio di andare contro corrente, di amare come Gesù, che è giunto sino al sacrificio di sé sulla croce.
Potremmo allora dire, parafrasando una considerazione di sant’Agostino, che per mezzo delle ricchezze terrene dobbiamo procurarci quelle vere ed eterne: se infatti si trova gente pronta ad ogni tipo di disonestà pur di assicurarsi un benessere materiale sempre aleatorio, quanto più noi cristiani dovremmo preoccuparci di provvedere alla nostra eterna felicità con i beni di questa terra (cfr Discorsi 359,10). Ora, l’unica maniera di far fruttificare per l’eternità le nostre doti e capacità personali come pure le ricchezze che possediamo è di condividerle con i fratelli, mostrandoci in tal modo buoni amministratori di quanto Iddio ci affida. Dice Gesù: “Chi è fedele nel poco, è fedele nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto” (Lc 16,10-11).
[Papa Benedetto, omelia a Velletri 23 settembre 2007]
5. Tutti i giusti della terra, anche quelli che ignorano Cristo e la sua Chiesa e che, sotto l'influsso della grazia, cercano Dio con cuore sincero (cfr Lumen gentium, 16), sono, dunque, chiamati a edificare il Regno di Dio, collaborando col Signore che ne è l’artefice primo e decisivo. Per questo dobbiamo affidarci alle sue mani, alla sua Parola, alla sua guida, come bambini inesperti che trovano solo nel Padre la sicurezza: ‘Chi non accoglie il Regno di Dio come un bambino - ha detto Gesù - non vi entrerà’ (Lc 18,17).
Con questo animo dobbiamo far nostra l’invocazione: ‘Venga il tuo Regno!’. Un’invocazione che nella storia dell’umanità è salita tante volte al cielo come un grande respiro di speranza: ‘Vegna vêr noi la pace del tuo regno’, esclama Dante nella sua parafrasi del Padre Nostro (Purgatorio XI,7). Un’invocazione che orienta lo sguardo al ritorno di Cristo e alimenta il desiderio della venuta finale del Regno di Dio. Questo desiderio però non distoglie la Chiesa dalla sua missione in questo mondo, anzi la impegna maggiormente (cfr CCC, 2818), nell’attesa di poter varcare la soglia del Regno, del quale la Chiesa è il germe e l'inizio (cfr Lumen gentium, 5), quando esso giungerà nel mondo in pienezza. Allora, ci assicura Pietro nella Seconda Lettera, "vi sarà ampiamente aperto l’ingresso nel Regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo" (2 Pt 1,11).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 6 dicembre 2000]
È questo, ha sottolineato Francesco, il modo in cui «si fanno i veri cambiamenti nella Chiesa, con persone che sanno lottare nel piccolo e nel grande». A tale riguardo, il Papa è entrato nel merito di quella «tensione» che a volte si avverte «tra il piccolo e il grande», per la quale c’è chi dice: «“No, queste cose piccole io non le faccio, io sono nato per cose grandi”. Sbagli», e, al contrario, chi afferma: «“Ah, io non riesco a fare cose grandi, faccio il piccolo”. Sei un pusillanime». Il piccolo e il grande, invece, «vanno insieme» e «un cristiano deve avere questo carisma, del piccolo e del grande». Come si legge, ha ricordato, «sulla tomba di un grande santo» dove si è scritto: «Non spaventarsi di fare cose grandi e allo stesso tempo tenere conto delle cose piccole».
[Papa Francesco, s. Marta 10 maggio 2019, in L’Osservatore Romano]
Astuzia cristiana: senso del dovere e del “padrone” giusto
(Lc 16,1-8)
In «La morte di Peregrino» [De morte Peregrini, 13] l’irriverente Luciano di Samosata, polemista del II sec. - così si esprime nei confronti dei cristiani:
«Il loro primo Legislatore li persuade che sono tutti fratelli tra loro e, come si convertono, rinnegando gli dei greci, adorano quel sapiente Crocifisso, e vivono secondo le sue leggi. Per la qualcosa disprezzano tutti i beni egualmente e li credono comuni e non se ne curano quando li hanno. Perciò se tra loro sorgesse un accorto impostore che sapesse ben maneggiarli, immediatamente diventerebbe ricco, canzonando questa gente credulona e sciocca».
A maggior ragione dei privati, la società ecclesiale gestisce beni per se stessi comuni, sacri, non esclusivi.
Ma un responsabile, leader di comunità [cf. v.14], viene accusato di approfittare della sua posizione di amministratore dei beni di Dio e della chiesa.
La Torah, le normative specifiche e tutto il costume ufficiale dell’Oriente antico vietavano di chiedere interessi sulle forniture (o prestiti) di derrate alimentari.
Malgrado ciò, di fatto e sottobanco i possidenti facevano leva sul ricatto. Trattenendo compensi indebiti e lauti, sulle transazioni.
Allora il “pizzicato” mette in campo la valutazione giusta: ricalcola e allinea la contabilità - rinunciando all’illecito introito che aveva accarezzato di godersi in prima persona.
Sebbene abituato ad andare a testa alta in società, il tizio sceglie finalmente di non proseguire cocciutamente nell’imbroglio delle quote in aggiunta, che non gli spettavano.
Coglie l’occasione che si presenta sulla sua strada. Questo il punto che Lc sottolinea. E decide prontamente di non continuare a corrompere se stesso e gli altri: opzione valida.
Viene dunque lodato (v.8) perché si accorge di un’altra possibilità. E lo fa con equa ‘scaltrezza’, stavolta non aleatoria.
La Via spirituale ha un crocevia crudo: chiedersi se ricominciare nello stile d’accumulo-e-trattenere, o puntare sulla qualità dei rapporti.
Opera eccellente della Fede nell’esperienza ecclesiale - e soglia della gioia - è trasformare le risorse in Vita e Relazione.
Insomma, non basta uno spiritualismo di carattere sentimentale. Bisogna sanare i bilanci ed evitare le cordate [cf. v.14].
Giustizia e destinazione universale dei beni non sono semplici aggiunte, di cui si possa sfumare il senso.
Ristabilita la verità, ecco un bel metodo per «purificare» anche la ricchezza iniqua: usarla per i destinatari.
Malgrado gli errori che si possono commettere - sempre possiamo dare una svolta decisiva.
Insomma, la pienezza del Regno di Dio si realizza attraverso l’Incontro, e i beni hanno senso come possibilità di sviluppo umano (vv.9-13).
Pertanto le guide spirituali devono essere i primi testimoni di detta funzione sociale, umanizzante e divina.
Essi sono chiamati a disporre delle risorse comuni in modo non allegro né spensierato, bensì con spiccato senso di responsabilità - senza ombra alcuna.
[Venerdì 31.a sett. T.O. 7 novembre 2025]
Astuzia cristiana: senso del dovere e del “padrone” giusto
(Lc 16,1-8)
Ci chiediamo: c’è un altro stile di vita, oltre il vezzo di farsi valere in qualsiasi circostanza? Cosa genera tanti attriti senza posa né criterio, anche in tempi di sottomissione? Qual è la soluzione per edificare una casa comune? E il primo passo concreto per il futuro?
Lc parla molto chiaro, cesellando una catechesi probabilmente tratta da un’esperienza viva che ha segnato l’ambiente dei credenti.
In «La morte di Peregrino» [De morte Peregrini, 13] l’irriverente Luciano di Samosata, polemista del II sec. - così si esprime nei confronti dei cristiani:
«Il loro primo Legislatore li persuade che sono tutti fratelli tra loro e, come si convertono, rinnegando gli dei greci, adorano quel sapiente Crocifisso, e vivono secondo le sue leggi. Per la qualcosa disprezzano tutti i beni egualmente e li credono comuni e non se ne curano quando li hanno. Perciò se tra loro sorgesse un accorto impostore che sapesse ben maneggiarli, immediatamente diventerebbe ricco, canzonando questa gente credulona e sciocca».
Ipotizziamo la situazione, probabilmente da riferire a un veterano della cerchia giudeo cristiana [considerata nei Vangeli quella dei “farisei” di ritorno nelle assemblee dei primi tempi] (cf. Lc 16,14).
Un responsabile, leader di comunità [cf. v.14], viene accusato di profittare della posizione di amministratore dei beni di Dio e della chiesa.
La Torah, le normative specifiche e tutto il costume ufficiale dell’Oriente antico vietavano di chiedere interessi sulle forniture (o prestiti) di derrate alimentari.
Ma di fatto e sottobanco i possidenti facevano leva sul ricatto. Trattenendo compensi indebiti e lauti, sulle transazioni.
La percentuale di scremature dipendeva dalla capacità di scrutare i bisogni e alzare il tasso d’interesse - persino sul frumento, l’olio e il cibo base.
Anche il coordinatore di chiesa si era lasciato sedurre dal malcostume corrente, per un facile guadagno (sulla fame della gente).
Avendo fatto a lungo orecchie da mercante, lo scandalo emerge (fra dirigenti e gruppi che si fregiano del nome Cristiano!).
L’uomo di spicco viene messo alle strette per un rendiconto trasparente.
Allora il “pizzicato” sceglie di ricalcolare e allineare la contabilità - rinunciando all’illecito introito che aveva accarezzato di godersi in prima persona.
Tutto avrebbe dovuto essere messo a disposizione dei fedeli e del bene comune, senza intrallazzi (privi di controllo - soliti).
Sebbene abituato ad andare a testa alta in società, il tizio sceglie finalmente di non proseguire cocciutamente nell’inguaribile imbroglio delle quote in aggiunta che non gli spettavano.
I tesori (di Dio) sono da condividere, senza ricarico privato - quindi evita di arrampicarsi sugli specchi, piroettare, cercare l’appoggio di complici o di cordate [cf. v.14] e gruppi di ammanicati.
Coglie l’occasione che si presenta sulla sua strada. Questo il punto che Lc sottolinea. E decide prontamente di non continuare a corrompere se stesso e gli altri: opzione valida.
Le cose sono evidenti e non accampa quel genere di spiegazioni - come purtroppo capita - che cronicizzano e degenerano la situazione.
Viene dunque lodato (v.8) perché invece di tornare ad alimentare se stesso e il suo codazzo… si accorge di un’altra possibilità.
C’è un Altrove da percepire, qui; con previdente tensione interiore ed equa “scaltrezza”, stavolta non aleatoria.
La Via spirituale ha un crocevia crudo: chiedersi se ricominciare nello stile d’accumulo-e-trattenere, o puntare sulla qualità dei rapporti.
Non più intimidazioni del tipo: «Tu non sai chi sono io»; «Voi non sapete chi e quanti siamo noi» - e tentativi appiccicati al tornaconto.
Non più imbrogli da celare e sotterfugi distruttivi, per un’allegra gestione amministrativa: meglio sfigurare personalmente che essere complici attivi e omertosi di un altro “dio” (quello che dà ordini opposti ai consigli del Padre).
Opera eccellente della Fede nell’esperienza ecclesiale - e soglia della gioia - è trasformare le risorse in Vita e Relazione.
Ecco la nostra Guida per il domani e la felicità, sempre.
Giustizia e destinazione universale dei beni non sono semplici aggiunte all’andare devoto, di cui si possa sfumare il senso - anche laddove le pertinenze comunitarie fossero appannaggio di chi ha mani e piedi dappertutto: cricche dalle buone maniere e pessime abitudini.
Esiste un’altra proficuità e funzionalità degli antichi profitti disinvolti: non quelli dell’economia liberale e della proprietà privata, ma dell’Amicizia libera, che non trattiene - capacità di ricreare equilibri dove non sono; coltivare uguaglianza e trasparenza, felicità e vita diffusa.
Non basta uno spiritualismo di carattere sentimentale. Bisogna sanare i bilanci.
Ristabilita la verità e senza guardare in faccia a nessun primattore, né a “compagni di merende” o gruppi di pressione, ecco un bel metodo per «purificare» anche la ricchezza iniqua: usarla per i destinatari.
È l’unica valutazione giusta, che annienta il malcostume e le stranissime competizioni fra poveracci senza dote e a testa in giù, che paiono destinati solo a friggere.
Siamo chiamati a usare le “nostre” energie e risorse per dilatare l’esistere di tutti, invece di continuare a beccarsi e papparci per far vedere chi comanda.
Questo è - malgrado gli errori che si possono commettere - dare la svolta decisiva, per una vita bella.
Insomma, la pienezza del Regno di Dio si realizza attraverso l’incontro, e i beni hanno senso come possibilità di sviluppo umano (cf. vv.9-13).
Nell’enciclica Fratelli Tutti leggiamo al n.120:
«la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata. Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale, è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione [...] Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica».
Tale diritto-base è senza frontiere, e altrettanto vale per il funzionamento della società ecclesiale - non cooptata, né occulta.
A maggior ragione dei privati, essa deve rendere conto senza trucchi: gestisce infatti beni per se stessi comuni, variegati, sacri e non esclusivi.
I responsabili di Chiesa sono i primi chiamati a vincere l’unilateralità del ruolo e delle risorse, tantomeno da gestire come fossero di proprietà selettiva o di club riservati.
Pertanto le guide spirituali devono essere i primi testimoni di detta funzione sociale, umanizzante e divina.
Essi sono chiamati a disporre delle risorse da “spezzare” in modo non allegro e spensierato, bensì con spiccato senso di responsabilità - senza ombra alcuna.
«Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l'approvò; e Agnese, superba d'averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell'orto, per non esser veduto da' ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n'andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all'in giù, nella mano d'un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l'alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura» [I Promessi Sposi, cap.3].
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Nella tua comunità l’amministrazione dei beni è pubblica, regolare e trasparente o cronico appannaggio d’individui e gruppi senza controllo?
Nelle passate domeniche, san Luca, l’evangelista che più degli altri si preoccupa di mostrare l’amore che Gesù ha per i poveri, ci ha offerto diversi spunti di riflessione circa i pericoli di un attaccamento eccessivo al denaro, ai beni materiali e a tutto ciò che ci impedisce di vivere in pienezza la nostra vocazione ad amare Dio e i fratelli. Anche quest’oggi, attraverso una parabola che provoca in noi una certa meraviglia perché si parla di un amministratore disonesto che viene lodato (cfr Lc 16,1-13), a ben vedere il Signore ci riserva un serio e quanto mai salutare insegnamento. Come sempre il Signore trae spunto da fatti di cronaca quotidiana: narra di un amministratore che sta sul punto di essere licenziato per disonesta gestione degli affari del suo padrone e, per assicurarsi il futuro, cerca con furbizia di accordarsi con i debitori. E’ certamente un disonesto, ma astuto: il Vangelo non ce lo presenta come modello da seguire nella sua disonestà, ma come esempio da imitare per la sua previdente scaltrezza. La breve parabola si conclude infatti con queste parole: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto perché aveva agito con scaltrezza” (Lc 16,8) […]
Potremmo allora dire, parafrasando una considerazione di sant’Agostino, che per mezzo delle ricchezze terrene dobbiamo procurarci quelle vere ed eterne: se infatti si trova gente pronta ad ogni tipo di disonestà pur di assicurarsi un benessere materiale sempre aleatorio, quanto più noi cristiani dovremmo preoccuparci di provvedere alla nostra eterna felicità con i beni di questa terra (cfr Discorsi 359,10). Ora, l’unica maniera di far fruttificare per l’eternità le nostre doti e capacità personali come pure le ricchezze che possediamo è di condividerle con i fratelli, mostrandoci in tal modo buoni amministratori di quanto Iddio ci affida.
[Papa Benedetto, omelia a Velletri 23 settembre 2007]
2. Vengono da lontano, si potrebbero quasi definire endemici, i problemi e le sfide che si presentano all’attività pastorale del Nordest brasiliano, ponendo ai pastori della Chiesa l’inquietante interrogativo: come evangelizzare così immense e povere popolazioni e condividere le angustie nate dalla loro povertà che riveste, nella vita reale, aspetti concretissimi, nei quali dovremmo riconoscere le sembianze sofferenti di Cristo? Come edificare la Chiesa, con la caratteristica che la distingue di “segnale e salvaguardia della dimensione trascendente della persona umana” e promotrice della sua dignità integrale, con queste “pietre vive”, quando la loro povertà non è, molte volte, solamente una tappa casuale di situazioni ineluttabili di fattori naturali, ma anche prodotto di determinate strutture economiche, sociali e politiche?
3. Non si può non ricordare con gratitudine in questa circostanza, per lo meno globalmente le pleiadi di missionari e pastori abnegati, virtuosi e devoti che vi hanno preceduto e che debbono essere considerati come i fondatori della Chiesa di Dio (cf. Ef 2, 20) nelle vostre attuali diocesi, o, per usare l’espressione patristica, “hanno lì generato” Chiese e non senza sofferenza. A loro tempo, essi si saranno sicuramente chiesti quale fosse il piano di Dio sulla vocazione di ciascun uomo nella costruzione della società, per renderla sempre più umana, giusta e fraterna, e come si potesse attuare la priorità delle priorità nell’evangelizzazione: cercare innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia.
5. I popoli e i gruppi umani, in generale, per poter progredire, gradualmente ed efficacemente e non solo soddisfare le immediate necessità vitali, hanno bisogno di solidarietà, per giungere all’indispensabile e permanente trasformazione delle strutture della vita economica. Ma non si presenta facile procedere lungo lo scosceso sentiero di questa trasformazione, se non interviene una vera conversione delle menti, della volontà e dei cuori, che faccia scomparire la confusione della libertà con l’istinto dell’interesse individuale e collettivo, o ancora con l’istinto di lotta e di predominio, qualunque siano i colori ideologici di cui essi si rivestono (cf. Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 16).
[Papa Giovanni Paolo II, Discorso ai Vescovi Brasiliani 16 settembre 1985]
Oggi Gesù ci porta a riflettere su due stili di vita contrapposti: quello mondano e quello del Vangelo. Lo spirito del mondo non è lo spirito di Gesù. E lo fa mediante il racconto della parabola dell’amministratore infedele e corrotto, che viene lodato da Gesù nonostante la sua disonestà (cfr Lc 16,1-13). Bisogna precisare subito che questo amministratore non viene presentato come modello da seguire, ma come esempio di scaltrezza. Quest’uomo è accusato di cattiva gestione degli affari del suo padrone e, prima di essere allontanato, cerca astutamente di accattivarsi la benevolenza dei debitori, condonando loro parte del debito per assicurarsi così un futuro. Commentando questo comportamento, Gesù osserva: «I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce» (v. 8).
A tale astuzia mondana noi siamo chiamati a rispondere con l’astuzia cristiana, che è un dono dello Spirito Santo. Si tratta di allontanarsi dallo spirito e dai valori del mondo, che tanto piacciono al demonio, per vivere secondo il Vangelo. E la mondanità, come si manifesta? La mondanità si manifesta con atteggiamenti di corruzione, di inganno, di sopraffazione, e costituisce la strada più sbagliata, la strada del peccato, perché una ti porta all’altra! È come una catena, anche se - è vero - è la strada più comoda da percorrere, generalmente. Invece lo spirito del Vangelo richiede uno stile di vita serio - serio ma gioioso, pieno di gioia! -, serio e impegnativo, improntato all’onestà, alla correttezza, al rispetto degli altri e della loro dignità, al senso del dovere. E questa è l’astuzia cristiana!
Il percorso della vita necessariamente comporta una scelta tra due strade: tra onestà e disonestà, tra fedeltà e infedeltà, tra egoismo e altruismo, tra bene e male. Non si può oscillare tra l’una e l’altra, perché si muovono su logiche diverse e contrastanti. Il profeta Elia diceva al popolo di Israele che andava su queste due strade: “Voi zoppicate con i due piedi!” (cfr 1 Re 18,21). È bella l’immagine. È importante decidere quale direzione prendere e poi, una volta scelta quella giusta, camminare con slancio e determinazione, affidandosi alla grazia del Signore e al sostegno del suo Spirito. Forte e categorica è la conclusione del brano evangelico: «Nessun servo può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro» (Lc 16,13).
Con questo insegnamento, Gesù oggi ci esorta a fare una scelta chiara tra Lui e lo spirito del mondo, tra la logica della corruzione, della sopraffazione e dell’avidità e quella della rettitudine, della mitezza e della condivisione. Qualcuno si comporta con la corruzione come con le droghe: pensa di poterla usare e smettere quando vuole. Si comincia da poco: una mancia di qua, una tangente di là… E tra questa e quella lentamente si perde la propria libertà. Anche la corruzione produce assuefazione, e genera povertà, sfruttamento, sofferenza. E quante vittime ci sono oggi nel mondo! Quante vittime di questa diffusa corruzione. Quando invece cerchiamo di seguire la logica evangelica dell’integrità, della limpidezza nelle intenzioni e nei comportamenti, della fraternità, noi diventiamo artigiani di giustizia e apriamo orizzonti di speranza per l’umanità. Nella gratuità e nella donazione di noi stessi ai fratelli, serviamo il padrone giusto: Dio.
La Vergine Maria ci aiuti a scegliere in ogni occasione e ad ogni costo la strada giusta, trovando anche il coraggio di andare controcorrente, pur di seguire Gesù e il suo Vangelo.
[Papa Francesco, Angelus 18 settembre 2016]
Un Dio in ricerca dei perduti e disuguali, per dilatarci la vita
(Lc 15,1-10)
Gesù sgretola tutte le prevedibilità. Nel Figlio, Dio viene rivelato non più come proprietà esclusiva, bensì Potenza d’Amore che perdona emarginati e smarriti: salva e crea, liberando.
E mediante la sua Chiesa dispiega un Volto che recupera, abbatte le barriere e chiama i miseri.
Gesù vuole destare la coscienza dei “giusti”: c’è una controparte di noi che suppone di sé, molto pericolosa, perché porta all’esclusione e all’abbandono.
Invece l’Amore inesauribile cerca. E trova l’imperfetto e irrequieto.
La palude di energia stagnante che si genera accentuando i confini non consente di crescere: blocca nelle solite posizioni e lascia che ciascuno si arrangi o si perda.
Tutto ciò faceva cadere le virtù creative nella disperazione. Invece il Padre è alla ricerca dell’insufficiente… Peccatore ma vero, quindi più disposto all’amore trasparente: questo il principio di Redenzione.
Non è l’atteggiamento schizzinoso che unisce a Lui. Il Signore non ha interessi esterni.
Egli si rallegra con tutti, ed è il bisogno che lo attira a noi. Quindi non temiamo di farci trovare e lasciarci riportare (v.5)... in Casa sua, che è casa nostra.
Se c’è uno smarrimento, vi sarà un ritrovamento, e questo non è una perdita per nessuno - salvo per gli invidiosi dell’altrui libertà (v.2).
Dio infatti non si compiace di emarginazioni, né intende spegnere il lucignolo fumigante.
Il Figlio non viene per puntare il dito sui momenti no, ma per recuperare, facendo leva sul coinvolgimento intimo. Forza invincibile di fedeltà.
Questo lo stile di una Chiesa dal Cuore Sacro, amabile, elevato e benedetto.
(Ciò che attira a partecipare ed esprimersi è sentirsi capiti, non condannati). Diceva Carlo Carretto: «È sentendosi amato, non criticato, che l’uomo inizia il suo cammino di trasformazione».
Come sottolinea l’enciclica Fratelli Tutti: Gesù - nostro Motore e Motivo - «aveva un cuore aperto, che faceva propri i drammi degli altri» (n.84).
E aggiunge ad esempio della Tradizione: «Le persone possono sviluppare alcuni atteggiamenti che presentano come valori morali: fortezza, sobrietà, laboriosità e altre virtù. Ma per orientare adeguatamente gli atti [...] bisogna considerare anche in quale misura essi realizzino un dinamismo di apertura e di unione [...] Altrimenti avremo solo apparenza».
«San Bonaventura spiegava che le altre virtù, senza la carità, a rigore non adempiono i comandamenti come Dio li intende» (n.91).
Insomma, le ricchezze umane e spirituali rischiano di venire depositate in luogo appartato - se così, esse invecchiano e sviliscono.
Nelle assemblee dei figli sono invece condivise: si accrescono e comunicano; moltiplicandosi rinverdiscono, con beneficio universale.
[Giovedì 31.a sett. T.O. 6 novembre 2025]
Un Dio in ricerca dei perduti e disuguali, per dilatarci la vita
(Lc 15,1-10)
Perché Gesù parla di Gioia in riferimento all’unica pecorella?
Dice il Tao Tê Ching (x): «Preserva l’Uno dimorando nelle due anime: sei capace di non farle separare?».
Anche nel cammino spirituale, Gesù si guarda bene dal proporre un universalismo dettato o pianificato, come se il suo fosse un modello ideale, «allo scopo di omogeneizzare» (Fratelli Tutti n.100).
Il tipo di Comunione che il Signore ci propone non mira a «un’uniformità unidimensionale che cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità».
Perché «il futuro non è “monocromatico” ma se ne abbiamo il coraggio è possibile guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare. Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali!» (da un Discorso ai giovani in Tokyo, novembre 2019).
Sebbene la pietà e la speranza dei rappresentanti della religiosità ufficiale fosse fondata su una struttura di sicurezze umane, etniche, culturali e una visione del Mistero consolidati da una grande tradizione, Gesù sgretola tutte le prevedibilità.
Nel Figlio, Dio viene rivelato non più come proprietà esclusiva, bensì Potenza d’Amore che perdona gli emarginati e smarriti: salva e crea, liberando. E mediante i discepoli dispiega il suo Volto che recupera, abbatte le barriere consuete, chiama moltitudini misere.
Sembra un’utopia impossibile da realizzare nel concreto (oggi della crisi sanitaria e globale) ma è il senso del passaggio di consegne alla Chiesa, chiamata a farsi incessante pungolo d’Infinito e fermento d’un mondo alternativo, per lo sviluppo umano integrale:
«Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» (FT n.8).
Attraverso una domanda assurda (formulata in modo retorico) Gesù vuole destare la coscienza dei “giusti”: c’è una controparte di noi che suppone di sé, molto pericolosa, perché porta all’esclusione, all’abbandono.
Invece l’Amore inesauribile cerca. E trova l’imperfetto e irrequieto.
La palude di energia stagnante che si genera accentuando i confini non fa crescere nessuno: blocca nelle solite posizioni e lascia che ciascuno si arrangi o si perda. Per disinteresse interessato - che impoverisce tutti.
Tutto ciò faceva cadere le virtù creative nella disperazione.
E faceva precipitare chi era fuori del giro degli eletti - anteposti che non avevano nulla di superiore. Infatti Lc li tratteggia del tutto incapaci di trasalire di gioia umana per il progresso altrui.
Calcolatori, recitanti e conformi - i dirigenti (fondamentalisti o sofisticati) non sanno della realtà, e usano la religione come un’arma.
Invece Dio è agli antipodi degli sterilizzati finti - o del pensiero disincarnato - e alla ricerca di colui che vaga malfermo, facilmente si disorienta, smarrisce la strada.
Peccatore eppure vero, quindi più disposto all’Amore genuino. Per questo motivo il Padre è alla ricerca dell’insufficiente.
La persona così limpida e spontanea - anche se debole - cela la sua parte migliore e ricchezza vocazionale proprio dietro i lati apparentemente detestabili. Forse ch’egli stesso non apprezza.
Questo il principio di Redenzione che sbalordisce e rende interessante i nostri percorsi spesso distratti, condotti a fiuto, come “a tentativo ed errore” - nella Fede generando però autostima, credito, pienezza e gioia.
L’impegno del purificatore e l’impeto del riformatore sono “mestieri” che in apparenza si contrappongono, ma facili facili… e tipici di chi pensa che le cose da contestare e cambiare siano sempre fuori di sé.
Ad esempio nei meccanismi, nelle regole generali, nell’assetto giuridico, nelle visioni del mondo, negli aspetti formali (o istrionici) invece che nell’artigianato del bene particolare concreto; così via.
Sembrano scuse per non guardarsi dentro e mettersi in gioco, per non incontrare i propri stati profondi in tutti i versanti e non solo nelle linee guida. E recuperare o rallegrare individui concretamente smarriti, tristi, in tutti i lati oscuri e difficili.
Ma Dio è agli antipodi degli sterilizzati di maniera o degli idealisti finti, e alla ricerca dell’insufficiente: colui che vaga e smarrisce la strada. Peccatore eppure vero, quindi più disposto all’Amore genuino.
La persona trasparente e spontanea - anche se debole - cela la sua parte migliore e ricchezza vocazionale proprio dietro gli aspetti apparentemente detestabili (forse ch’egli stesso non apprezza).
Chiediamo allora soluzione alle nuove energie interpersonali misteriose, imprevedibili, che entrano in gioco; da dentro le cose.
Senza interferire con idee di passato o di futuro che non vediamo, ovvero opponendosi ad esse. Piuttosto possedendone l’anima, il suo farmaco spontaneo.
Questo il principio della Salvezza che sbalordisce e rende interessante i nostri percorsi [spesso distratti, condotti a fiuto, come “a tentativo ed errore”] - generando infine autostima, credito e gioia.
L’idea che l’Altissimo sia un notaio o principe di un foro, e che operi netta distinzione fra giusti e trasgressori, è caricatura.
Del resto, una vita da salvati non è produzione propria, né possesso esclusivo o proprietà privata - che si capovolge in doppiezza.
Non è l’atteggiamento schizzinoso, né quello cerebrale, che unisce a Lui. Il Padre non blandisce amicizie supponenti, né ha interessi esterni.
Egli si rallegra con tutti, ed è il bisogno che lo attira a noi. Quindi non temiamo di farci trovare e lasciarci riportare (v.5)... in Casa sua, che è casa nostra.
Se c’è uno smarrimento, vi sarà un ritrovamento, e questo non è una perdita per nessuno - salvo per gli invidiosi nemici della libertà (v.2).
L’Eterno infatti non si compiace di emarginazioni, né intende spegnere il lucignolo fumigante.
Gesù non viene per puntare il dito sui momenti no, ma per recuperare, facendo leva sul coinvolgimento intimo. Forza invincibile di fedeltà.
Questo lo stile d’una Chiesa dal Cuore Sacro, amabile, elevato e benedetto.
[Ciò che attira a partecipare ed esprimersi è sentirsi capiti, restituiti a dignità piena - non condannati].
Diceva Carlo Carretto: «È sentendosi amato, non criticato, che l’uomo inizia il suo cammino di trasformazione».
Come sottolinea ancora l’enciclica Fratelli Tutti:
Gesù - nostro Motore e Motivo - «aveva un cuore aperto, che faceva propri i drammi degli altri» (n.84).
E aggiunge ad esempio della nostra grande Tradizione:
«Le persone possono sviluppare alcuni atteggiamenti che presentano come valori morali: fortezza, sobrietà, laboriosità e altre virtù. Ma per orientare adeguatamente gli atti [...] bisogna considerare anche in quale misura essi realizzino un dinamismo di apertura e di unione [...] Altrimenti avremo solo apparenza».
«San Bonaventura spiegava che le altre virtù, senza la carità, a rigore non adempiono i comandamenti come Dio li intende» (n.91).
Nelle sètte o nei gruppi d’ispirazione unilaterale, per emarginazione saccente le ricchezze umane e spirituali vengono depositate in luogo appartato, così invecchiano e sviliscono.
Nelle assemblee dei figli sono invece condivise: si accrescono e comunicano; moltiplicandosi rinverdiscono, con beneficio universale.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa ti attira della Chiesa? Nei confronti coi primi della classe, ti senti giudicato o adeguato?
Provi l’Amore che salva, anche se permani incerto?
Cuore che non si arrende
Celebrando il Giubileo dei Sacerdoti nella Solennità del Sacro Cuore di Gesù, siamo chiamati a puntare al cuore, ovvero all’interiorità, alle radici più robuste della vita, al nucleo degli affetti, in una parola, al centro della persona. E oggi volgiamo lo sguardo a due cuori: il Cuore del Buon Pastore e il nostro cuore di pastori.
Il Cuore del Buon Pastore non è soltanto il Cuore che ha misericordia di noi, ma è la misericordia stessa. Lì risplende l’amore del Padre; lì mi sento sicuro di essere accolto e compreso come sono; lì, con tutti i miei limiti e i miei peccati, gusto la certezza di essere scelto e amato. Guardando a quel Cuore rinnovo il primo amore: la memoria di quando il Signore mi ha toccato nell’animo e mi ha chiamato a seguirlo, la gioia di aver gettato le reti della vita sulla sua Parola (cfr Lc 5,5).
Il Cuore del Buon Pastore ci dice che il suo amore non ha confini, non si stanca e non si arrende mai. Lì vediamo il suo continuo donarsi, senza limiti; lì troviamo la sorgente dell’amore fedele e mite, che lascia liberi e rende liberi; lì riscopriamo ogni volta che Gesù ci ama «fino alla fine» (Gv 13,1) - non si ferma prima, fino alla fine -, senza mai imporsi.
Il Cuore del Buon Pastore è proteso verso di noi, “polarizzato” specialmente verso chi è più distante; lì punta ostinatamente l’ago della sua bussola, lì rivela una debolezza d’amore particolare, perché tutti desidera raggiungere e nessuno perdere.
Davanti al Cuore di Gesù nasce l’interrogativo fondamentale della nostra vita sacerdotale: dove è orientato il mio cuore? Domanda che noi sacerdoti dobbiamo farci tante volte, ogni giorno, ogni settimana: dove è orientato il mio cuore? Il ministero è spesso pieno di molteplici iniziative, che lo espongono su tanti fronti: dalla catechesi alla liturgia, alla carità, agli impegni pastorali e anche amministrativi. In mezzo a tante attività permane la domanda: dove è fisso il mio cuore? Mi viene alla memoria quella preghiera tanto bella della Liturgia: “Ubi vera sunt gaudia…”. Dove punta, qual è il tesoro che cerca? Perché – dice Gesù – «dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21). Ci sono debolezze in tutti noi, anche peccati. Ma andiamo al profondo, alla radice: dov’è la radice delle nostre debolezze, dei nostri peccati, cioè dov’è proprio quel “tesoro” che ci allontana dal Signore?
I tesori insostituibili del Cuore di Gesù sono due: il Padre e noi. Le sue giornate trascorrevano tra la preghiera al Padre e l’incontro con la gente. Non la distanza, l’incontro. Anche il cuore del pastore di Cristo conosce solo due direzioni: il Signore e la gente. Il cuore del sacerdote è un cuore trafitto dall’amore del Signore; per questo egli non guarda più a sé stesso – non dovrebbe guardare a sé stesso – ma è rivolto a Dio e ai fratelli. Non è più “un cuore ballerino”, che si lascia attrarre dalla suggestione del momento o che va di qua e di là in cerca di consensi e piccole soddisfazioni. E’ invece un cuore saldo nel Signore, avvinto dallo Spirito Santo, aperto e disponibile ai fratelli. E lì risolve i suoi peccati.
Per aiutare il nostro cuore ad ardere della carità di Gesù Buon Pastore, possiamo allenarci a fare nostre tre azioni, che le Letture di oggi ci suggeriscono: cercare, includere e gioire.
Cercare. Il profeta Ezechiele ci ha ricordato che Dio stesso cerca le sue pecore (34,11.16). Egli, dice il Vangelo, «va in cerca di quella perduta» (Lc 15,4), senza farsi spaventare dai rischi; senza remore si avventura fuori dei luoghi del pascolo e fuori degli orari di lavoro. E non si fa pagare gli straordinari. Non rimanda la ricerca, non pensa “oggi ho già fatto il mio dovere, e casomai me ne occuperò domani”, ma si mette subito all’opera; il suo cuore è inquieto finché non ritrova quell’unica pecora smarrita. Trovatala, dimentica la fatica e se la carica sulle spalle tutto contento. A volte deve uscire a cercarla, a parlare, persuadere; altre volte deve rimanere davanti al tabernacolo, lottando con il Signore per quella pecora.
Ecco il cuore che cerca: è un cuore che non privatizza i tempi e gli spazi. Guai ai pastori che privatizzano il loro ministero! Non è geloso della sua legittima tranquillità - legittima, dico, neppure di quella -, e mai pretende di non essere disturbato. Il pastore secondo il cuore di Dio non difende le proprie comodità, non è preoccupato di tutelare il proprio buon nome, ma sarà calunniato, come Gesù. Senza temere le critiche, è disposto a rischiare, pur di imitare il suo Signore. «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno…» (Mt 5,11).
Il pastore secondo Gesù ha il cuore libero per lasciare le sue cose, non vive rendicontando quello che ha e le ore di servizio: non è un ragioniere dello spirito, ma un buon Samaritano in cerca di chi ha bisogno. È un pastore, non un ispettore del gregge, e si dedica alla missione non al cinquanta o al sessanta per cento, ma con tutto sé stesso. Andando in cerca trova, e trova perché rischia. Se il pastore non rischia, non trova. Non si ferma dopo le delusioni e nelle fatiche non si arrende; è infatti ostinato nel bene, unto della divina ostinazione che nessuno si smarrisca. Per questo non solo tiene aperte le porte, ma esce in cerca di chi per la porta non vuole più entrare. E come ogni buon cristiano, e come esempio per ogni cristiano, è sempre in uscita da sé. L’epicentro del suo cuore si trova fuori di lui: è un decentrato da sé stesso, centrato soltanto in Gesù. Non è attirato dal suo io, ma dal Tu di Dio e dal noi degli uomini.
Seconda parola: includere. Cristo ama e conosce le sue pecore, per loro dà la vita e nessuna gli è estranea (cfr Gv 10,11-14). Il suo gregge è la sua famiglia e la sua vita. Non è un capo temuto dalle pecore, ma il Pastore che cammina con loro e le chiama per nome (cfr Gv 10,3-4). E desidera radunare le pecore che ancora non dimorano con Lui (cfr Gv 10,16).
Così anche il sacerdote di Cristo: egli è unto per il popolo, non per scegliere i propri progetti, ma per essere vicino alla gente concreta che Dio, per mezzo della Chiesa, gli ha affidato. Nessuno è escluso dal suo cuore, dalla sua preghiera e dal suo sorriso. Con sguardo amorevole e cuore di padre accoglie, include e, quando deve correggere, è sempre per avvicinare; nessuno disprezza, ma per tutti è pronto a sporcarsi le mani. Il Buon Pastore non conosce i guanti. Ministro della comunione che celebra e che vive, non si aspetta i saluti e i complimenti degli altri, ma per primo offre la mano, rigettando i pettegolezzi, i giudizi e i veleni. Con pazienza ascolta i problemi e accompagna i passi delle persone, elargendo il perdono divino con generosa compassione. Non sgrida chi lascia o smarrisce la strada, ma è sempre pronto a reinserire e a comporre le liti. E’ un uomo che sa includere.
Gioire. Dio è «pieno di gioia» (Lc 15,5): la sua gioia nasce dal perdono, dalla vita che risorge, dal figlio che respira di nuovo l’aria di casa. La gioia di Gesù Buon Pastore non è una gioia per sé, ma è una gioia per gli altri e con gli altri, la gioia vera dell’amore. Questa è anche la gioia del sacerdote. Egli viene trasformato dalla misericordia che gratuitamente dona. Nella preghiera scopre la consolazione di Dio e sperimenta che nulla è più forte del suo amore. Per questo è sereno interiormente, ed è felice di essere un canale di misericordia, di avvicinare l’uomo al Cuore di Dio. La tristezza per lui non è normale, ma solo passeggera; la durezza gli è estranea, perché è pastore secondo il Cuore mite di Dio.
Cari sacerdoti, nella Celebrazione eucaristica ritroviamo ogni giorno questa nostra identità di pastori. Ogni volta possiamo fare veramente nostre le sue parole: «Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi». È il senso della nostra vita, sono le parole con cui, in un certo modo, possiamo rinnovare quotidianamente le promesse della nostra Ordinazione. Vi ringrazio per il vostro “sì”, e per tanti “sì” nascosti di tutti i giorni, che solo il Signore conosce. Vi ringrazio per il vostro “sì” a donare la vita uniti a Gesù: sta qui la sorgente pura della nostra gioia.
[Papa Francesco, omelia 3 giugno 2016]
Each time we celebrate the dedication of a church, an essential truth is recalled: the physical temple made of brick and mortar is a sign of the living Church serving in history (Pope Francis)
Ogni volta che celebriamo la dedicazione di una chiesa, ci viene richiamata una verità essenziale: il tempio materiale fatto di mattoni è segno della Chiesa viva e operante nella storia (Papa Francesco)
As St. Ambrose put it: You are not making a gift of what is yours to the poor man, but you are giving him back what is his (Pope Paul VI, Populorum Progressio n.23)
Non è del tuo avere, afferma sant’Ambrogio, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene (Papa Paolo VI, Populorum Progressio n.23)
Here is the entire Gospel! Here! The whole Gospel, all of Christianity, is here! But make sure that it is not sentiment, it is not being a “do-gooder”! (Pope Francis)
Qui c’è tutto il Vangelo! Qui! Qui c’è tutto il Vangelo, c’è tutto il Cristianesimo! Ma guardate che non è sentimento, non è “buonismo”! (Papa Francesco)
Christianity cannot be, cannot be exempt from the cross; the Christian life cannot even suppose itself without the strong and great weight of duty [Pope Paul VI]
Il Cristianesimo non può essere, non può essere esonerato dalla croce; la vita cristiana non può nemmeno supporsi senza il peso forte e grande del dovere [Papa Paolo VI]
The horizon of friendship to which Jesus introduces us is the whole of humanity [Pope Benedict]
L’orizzonte dell’amicizia in cui Gesù ci introduce è l’umanità intera [Papa Benedetto]
However, the equality brought by justice is limited to the realm of objective and extrinsic goods, while love and mercy bring it about that people meet one another in that value which is man himself, with the dignity that is proper to him (Dives in Misericordia n.14)
L'eguaglianza introdotta mediante la giustizia si limita però all’ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la misericordia fanno si che gli uomini s'incontrino tra loro in quel valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria (Dives in Misericordia n.14)
The Church invites believers to regard the mystery of death not as the "last word" of human destiny but rather as a passage to eternal life (Pope John Paul II)
La Chiesa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna (Papa Giovanni Paolo II)
The saints: they are our precursors, they are our brothers, they are our friends, they are our examples, they are our lawyers. Let us honour them, let us invoke them and try to imitate them a little (Pope Paul VI)
I santi: sono i precursori nostri, sono i fratelli, sono gli amici, sono gli esempi, sono gli avvocati nostri. Onoriamoli, invochiamoli e cerchiamo di imitarli un po’ (Papa Paolo VI)
Man rightly fears falling victim to an oppression that will deprive him of his interior freedom, of the possibility of expressing the truth of which he is convinced, of the faith that he professes, of the ability to obey the voice of conscience that tells him the right path to follow [Dives in Misericordia, n.11]
L'uomo ha giustamente paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire [Dives in Misericordia, n.11]
don Giuseppe Nespeca
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