Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
VI Domenica di Pasqua (anno C) [25 Maggio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Camminiamo a passi rapidi verso l’Ascensione del Signore e la Pentecoste. Le parole di Gesù ci preparano ad accogliere lo Spirito Santo, il Paraclito, Parakletos, termine greco intraducibile in una sola parola. 5 volte appare nel N.T. sempre solo in Giovanni e i significati possibili sono: Difensore/Avvocato; Consolatore; Intercessore /Mediatore, Maestro interiore/Spirito di verità.
*Prima Lettura Dagli Atti degli Apostoli (15, 1-2.22-29)
Le prime comunità cristiane hanno dovuto affrontare fin dall’inizio una grave crisi che per molto tempo ha avvelenato la loro esistenza. Mi spiego: ad Antiochia di Siria, c’erano cristiani di origine ebraica e cristiani di origine pagana e la loro convivenza era diventata sempre più difficile perché troppo diversi erano i loro stili di vita. I cristiani di origine ebraica erano circoncisi e consideravano pagani coloro che non lo sono e nella stessa vita quotidiana tutto li contrapponeva a causa di tutte le pratiche ebraiche alle quali i cristiani di origine pagana non avevano alcuna voglia di sottostare: numerose regole di purificazione, di abluzioni e soprattutto regole molto rigide riguardo all’alimentazione. Alcuni cristiani di origine ebraica vennero apposta da Gerusalemme per inasprire la disputa, spiegando che al battesimo cristiano erano ammessi solo i giudei e quindi invitavano i pagani prima a diventare giudei (circoncisione compresa) e poi cristiani. Tre le questioni fondamentali: 1.Per vivere l’unità è necessario avere le stesse idee, gli stessi riti, le stesse pratiche? 2. La seconda questione era che i cristiani di ogni origine desideravano essere fedeli a Gesù Cristo, ma concretamente, in cosa consiste questa fedeltà? Se Gesù era ebreo e circonciso questo significa che per diventare cristiani bisogna prima diventare tutti ebrei come lui? Inoltre, è a Israele che Dio ha affidato la missione di essere suo testimone in mezzo all’umanità e quindi bisogna far parte di Israele per entrare nella comunità cristiana? La conclusione era che si doveva essere ebrei prima di diventare cristiani e concretamente si accettava di battezzare i pagani a condizione che prima si ffacessero circoncidere. 3. Terza questione, ancora più grave: la salvezza è data da Dio senza condizioni oppure no? Se non accettando la circoncisione secondo la tradizione di Mosè non si può essere salvati, è come affermare che Dio stesso non può salvare i non-ebrei e siamo noi a decidere al suo posto chi può o non può essere salvato. Venne convocato il primo concilio di Gerusalemme dove tre erano le posizioni in merito: Paolo voleva l’apertura totale, Pietro era piuttosto esitante e fu Giacomo, vescovo di Gerusalemme, a trovare l’intesa con una doppia decisione: 1. i cristiani di origine ebraica non devono imporre la circoncisione e le pratiche ebraiche ai cristiani di origine pagana; 2. d’altro lato, i cristiani di origine pagana, per rispetto verso i loro fratelli di origine ebraica, si asterranno da ciò che potrebbe disturbare la vita comune, in particolare durante i pasti. L’argomento che prevale su tutto fu il superamento dela logica dell’elezione d’Israele essendo entrati in una nuova tappa della storia: il profeta Gioele aveva ben detto: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato” (Gl 3,5) e Gesù stesso: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato” (Mc 16,16). Chiunque significa tutti, non solo gli ebrei e, ancor più in concreto, essere fedeli a Gesù Cristo non vuol dire necessariamente riprodurre un modello fisso poiché la fedeltà non è semplice ripetizione. La storia mostra che, attraverso le vicissitudini dell’umanità, la Chiesa conserva sempre la capacità di adattamento per restare fedele a Cristo. Infine, è interessante notare che si impongono alla comunità cristiana solo le regole che permettono di mantenere la comunione fraterna e questo viene indicato fin da subito come il modo migliore per essere veramente fedeli a Cristo che disse: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).
*Salmo responsoriale (66 (67) 2-3,5,7-8)
Il salmo ci conduce dentro il Tempio di Gerusalemme mentre è in atto una grande celebrazione e al termine i sacerdoti benedicono l’assemblea in modo solenne e i fedeli rispondono: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino tutti i popoli!” Il salmo si presenta come un’alternanza tra le frasi dei sacerdoti, rivolte a volte all’assemblea e a volte a Dio, e le risposte dell’assemblea, che assomigliano a dei ritornelli. La prima frase: “Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto” riprende esattamente il famoso testo del libro dei Numeri che è la prima lettura del 1º gennaio di ogni anno,: “Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli e riferisci loro: Così benedirete gli Israeliti: Direte loro: ‘Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace’. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò» (Nm 6,24-26). Un testo ideale per desideri e auguri perché la benedizione è augurio di felicità. In effetti, le benedizioni sono sempre formulate al congiuntivo: “che Dio vi benedica, che Dio vi custodisca” eppure Dio non sa fare altro che benedirci, amarci, colmarci in ogni istante. Quando dunque il sacerdote dice “che Dio vi benedica”, non è perché Dio potrebbe non benedirci, ma per suscitare il nostro desiderio di entrare nella benedizione che, da parte sua, Dio continuamente ci offre. La stessa cosa quando il sacerdote dice “Il Signore sia con voi”: Dio è sempre con noi e il congiuntivo “sia” esprime la nostra libertà perché non sempre siamo con lui; oppure “Che Dio vi perdoni”: Dio ci perdona sempre ma sta noi accogliere il perdono ed entrare nella riconciliazione che ci propone. Permanenti sono da parte di Dio i desideri di felicità nei nostri confronti come afferma Geremia: «Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). Dio è Amore e tutti i suoi pensieri su di noi non sono altro che desideri di felicità. In questo salmo la risposta dei fedeli è il ritornello: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino tutti i popoli!! Splendida lezione di universalismo: il popolo eletto riflette la benedizione che accoglie per sé stesso sull’intera umanità, mentre l’ultimo versetto è una sintesi di questi due aspetti: “Ci benedica Dio (noi, suo popolo eletto) E lo temano tutti i confini della terra”. Israele non dimentica la sua vocazione/missione al servizio dell’intera umanità e sa che dalla sua fedeltà alla benedizione ricevuta gratuitamente dipende la scoperta dell’amore e della benedizione di Dio da parte di tutta l’umanità.
*Seconda Lettura dall’Apocalisse di san Giovanni (21, 10-14.22-23)
Nel brano di domenica scorsa, Giovanni diceva di aver visto la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da presso Dio, pronta per le nozze, come una sposa adorna per il suo sposo. Questa volta la descrive a lungo affascinato dalla sua luce così forte da oscurare il chiarore della luna e perfino quello del sole: somiglia a un gioiello prezioso, una pietra preziosa che scintilla nella luce. E spiega subito la ragione di tale luminosità straordinaria, ripetendo per due volte: “risplendente della gloria di Dio”, “la gloria di Dio la illumina”. Queste due affermazioni, l’una all’inizio e l’altra alla fine del testo, con il procedimento letterario chiamato «inclusione» che serve a mettere in evidenza le frasi comprese tra l’inizio e la fine, indicano ciò che colpisce Giovanni, cioè la gloria di Dio che illumina la città santa che scende da presso di Lui. Un angelo lo ha trasportato su un grande e alto monte e lo tiene per mano mentre gli mostra la città da lontano. Nella mano sinistra l’angelo tiene una canna d’oro che userà per misurare le dimensioni della città. La città è quadrata: il numero quattro e il quadrato sono un simbolo di ciò che è umano e qui indicano che la città è costruita da mano d’uomo, illuminata dalla gloria e dal fulgore della presenza di Dio. Poiché il numero tre evoca Dio, non stupisce che la descrizione della città usi abbondantemente un multiplo di tre e quattro: dodici, che è un modo per dire che l’azione di Dio si manifesta in quest’opera umana. All’epoca di san Giovanni non si concepiva una città senza mura: e questa ne ha, anzi una muraglia grande e alta come la montagna e sappiamo che nella Bibbia, la montagna è il luogo dell’incontro con Dio. Nelle mura sono aperte dodici porte che, secondo il seguito del testo, non si chiudono mai perché tutti possano entrare e nessuno deve trovare una porta chiusa. Le dodici porte, distribuite sui quattro lati del quadrato, tre a Est, tre a Nord, tre a Sud, tre a Ovest, sono sorvegliate da dodici angeli e su ciascuna è scritto il nome di una delle dodici tribù d’Israele. Il popolo d’Israele è stato infatti scelto da Dio per essere la porta attraverso cui tutta l’umanità entrerà nella Gerusalemme definitiva.La muraglia poggia su fondamenta sulle quali sono scritti i nomi dei dodici apostoli dell’Agnello: come in architettura, c’è continuità tra le fondamenta e i muri, così qui c’è continuità tra le dodici tribù d’Israele e i dodici apostoli e questo è un modo per dire che la Chiesa fondata da Cristo realizza pienamente il disegno di Dio che si sviluppa lungo tutta la storia. Entrato, Giovanni rimane sorpreso perché cerca il Tempio, essendo il segno vivente che Dio non abbandonava il suo popolo, ma nella città “non vidi alcun tempio” eppure non resta deluso, perché ormai “il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello. sono il suo tempio”. E continua: “La città non ha bisogno della luce del sole né della luna perché la gloria di Dio la illumina, e la sua lampada è l’Agnello”. Tenendo presente che nel libro della Genesi fin dal primo giorno alla creazione, appare la luce: Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu”, l’affermazione dell’Apocalisse assume tutto il suo peso: la creazione antica è passata: niente più sole, niente più luna perché ormai siamo nella nuova creazione e la presenza di Dio irradia il mondo attraverso Cristo. Gerusalemme conserva il suo nome e indica che è una città costruita da mano d’uomo, un modo per dire che i nostri sforzi per collaborare al progetto di Dio fanno parte della nuova creazione e l’opera umana non sarà distrutta, bensì da Dio trasformata. I cristiani allora destinatari dell’Apocalisse, erano oggetto di disprezzo e spesso perseguitati, avevano bisogno di queste parole di vittoria per sostenere la loro fedeltà e anche a noi fa bene sentire che la Gerusalemme celeste comincia con i nostri umili sforzi di ogni giorno.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (14, 23-29)
Riviviamo gli ultimi momenti di Gesù immediatamente prima della Passione: l’ora è grave e si intuisce l’angoscia degli apostoli dalle parole di rassicurazione che più volte Gesù loro rivolge. All’inizio di questo capitolo aveva detto «Non sia turbato il vostro cuore» (v. 1). Il suo lungo discorso fu interrotto da varie domande degli apostoli che rivelavano la loro angoscia e incomprensione. Gesù però resta sereno: lungo tutta la Passione Giovanni lo descrive sovranamente libero; anzi è lui a rassicurare i discepoli mentre annuncia in anticipo ciò che sarebbe accaduto perché quando avverrà, avrebbero creduto. Non solo sa cosa accadrà, ma lo accetta e non cerca di sottrarsi. Annuncia la sua partenzae presentandola come condizione e inizio di una nuova presenza: Me ne vado, ma torno da voi. Questa sua partenza sarà interpretata solo dopo la risurrezione come la Pasqua di Gesù. Giovanni dice al capitolo 13: “Prima della festa di Pasqua, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre”: l’evangelista usa volutamente il verbo passare, perché Pasqua significa passaggio e con questo, vuole mettere in parallelo la Passione di Gesù con la liberazione dall’Egitto, rivissuta ad ogni festa ebraica di Pasqua. Se si tratta di liberazione, questa partenza non deve gettare gli apostoli nella tristezza: “Se voi mi amaste, vi rallegrereste, perché vado al Padre” (v.28). Frase sorprendente per i discepoli che vedono il Maestro ormai inseguito dalle autorità religiose, cioè da chi, in nome di Dio, era ritenuto depositario della verità su ciò che riguarda Dio e sono proprio loro i maggiori oppositori di Gesù. I profeti hanno lottato contro ogni ostacolo per mantenere la fede nell’unico Dio che è insieme Dio vicino all’uomo e Dio totalmente Altro, il Santo. Gesù predica un Dio vicino all’uomo, specialmente ai più piccoli, ma dichiara Dio se stesso il che agli occhi degli ebrei, è blasfemia, un’offesa al Dio uno, al Santo. Nel testo di questa domenica, Gesù insiste sul legame che lo unisce al Padre che nomina cinque volte arrivando a parlare al plurale: “Se qualcuno mi ama… noi verremo da lui, e prenderemo dimora presso di lui”. Non è la prima volta che lo afferma: poco prima, a Filippo che gli chiedeva «Mostraci il Padre», ha risposto con tranquillità: «Chi mi ha visto ha visto il Padre» (Gv 14,9), mentre qui ribadisce: “La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato”. Gesù è l’Inviato del Padre, la parola del Padre e d’ora in poi lo Spirito Santo ci farà comprendere questa parola e la custodirà nella memoria dei discepoli. La chiave di questo testo è probabilmente proprio la parola “parola”: ricorre più volte e, a da ciò che precede, si capisce che questa “parola” da custodire è il “comandamento dell’amore”: amatevi gli uni gli altri, ossia mettetevi al servizio gli uni degli altri e, per essere chiaro, Gesù stesso ha dato un esempio concreto lavando i piedi ai discepoli. Essere fedeli alla sua parola significa dunque semplicemente mettersi al servizio degli altri. E il testo di oggi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola”, può tradursi così: Se qualcuno mi ama, si porrà al servizio del prossimo e chi non mi ama rifiuta di mettersi al servizio degli altri, per cui se qualcuno non si mette al servizio degli altri, non è fedele alla parola di Cristo. In questa luce si comprende meglio il ruolo dello Spirito Santo: è lui che ci insegna ad amare, ricordandoci il comandamento dell’amore. Gesù lo chiama Paraclito, Difensore perché ci protegge e difende da noi stessi dato che il peggiore dei mali è dimenticare che l’essenziale del vangelo consiste nell’amarsi e mettersi al servizio gli uni degli altri. Nell’odierna prima lettura abbiamo visto il Difensore all’opera nella prima comunità in occasione del primo concilio di Gerusalemme dove gravi erano le difficoltà di convivenza tra cristiani di origine ebraica e quelli di origine pagana e lo Spirito d’amore ispirò i discepoli alla volontà di mantenere a ogni costo l’unità.
+Giovanni D’Ercole
V Domenica di Pasqua [18 Maggio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Già in questa prima settimana papa Leone XIV ci sta dando in maniera pacata e profonda delle indicazioni di marcia da ben interiorizzare. Invito a non perdere nessuno dei suoi discorsi tutti sempre letti e mai pronunciati a braccio. Perché? Interessante cercare una risposta. Oggi poi ci sarà l’omelia dell’inizio del suo ministero petrino e quindi in un certo senso programmatica del pontificato di cui mostrerà lo stile.
*Prima Lettura dagli Atti degli Apostoli (14,21b-27)
Da Antiochia di Siria, Paolo e Barnaba erano partiti in nave verso la costa sud di quella che oggi chiamiamo Turchia, passando per Cipro; avevano fatto tappa ad Antiochia di Pisidia, Iconio (oggi Konya), Listra e Derbe e ovunque, come abbiamo visto domenica scorsa, Paolo e Barnaba si rivolgevano dapprima ai giudei, ricevendo un’accoglienza piuttosto “contrastante”. Entusiasmo da parte di alcuni che si convertivano e rifiuto violento da parte di altri che si opponevano decisamente fino a scacciarli e fu ad Antiochia di Pisidia che decisero di rivolgere la parola non solo ai giudei, ma anche a coloro che venivano chiamati “timorati di Dio”, cioè praticanti della religione ebraica pur non ancora integrati mediante la circoncisione, e dunque, a rigor di termini, ancora pagani. Per questo Paolo dice che Dio per mezzo di loro aveva “aperto ai pagani la porta della fede” (v.27). Nel tragitto di ritorno di questo primo viaggio missionario Paolo e Barnaba ripercorrono lo stesso itinerario in senso inverso e visitano nuovamente le comunità da loro recentemente fondato che già subivano persecuzioni perché Luca precisa che Paolo e Barnaba li esortavano a restare saldi nella fede, dicendo che dobbiamo passare attraverso molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio (v.22). Gesù aveva già usato espressioni simili: “bisogna che il Figlio dell’Uomo soffra molto e sia respinto da questa generazione” (Lc 17,25)… oppure, rivolgendosi ai discepoli di Emmaus: “Non doveva il Cristo patire queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26).Dio non ci impone prove o sofferenze in modo preventivo ma, a causa della durezza del cuore umano, i veri profeti incontrano persecuzione finché il mondo non si converte all’amore, alla giustizia, alla condivisione. Paolo e Barnaba si preoccupano dunque di rafforzare la fede e il coraggio dei nuovi convertiti vegliando anche sulla buona organizzazione delle comunità. Anzitutto designano dei responsabili, gli “anziani”, termine greco “presbyteros” (da cui deriva il nostro termine “prete”) e, dopo aver pregato e digiunato, li affidarono al Signore. Luca insiste sull’importanza della preghiera e del digiuno perché non si cura solo l’organizzazione, ma sono altrettanto importanti la preghiera e il digiuno. In effetti un evangelizzatore che non prega più, presto non evangelizzerà più. Luca annota che affidarono i responsabili delle nuove comunità al Signore perché agissero con coraggio e responsabilità come Paolo e Barnaba si erano affidati alla grazia di Dio e proseguivano il loro viaggio raccontando ai membri della comunità di Antiochia di Siria tutto ciò che Dio aveva fatto con loro. Luca parla sia dell’opera che gli apostoli avevano compiuto sia di ciò che Dio aveva fatto con loro e questo ci fa capire che la missione affidata da Dio ai credenti è un’opera di Dio affidata all’uomo e opera dell’uomo sostenuta, accompagnata, continuamente ispirata da Dio.
*Salmo responsoriale (144 (145), 8-13)
Del salmo 144 (145), scelto per questa quinta domenica di Pasqua, ci sono qui soltanto sei versetti, mentre in totale sono ventuno tanti quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico. Si tratta di un salmo alfabetico, un acrostico e ogni versetto comincia con una delle lettere dell’alfabeto ebraico, in ordine alfabetico. E’ dunque un salmo di lode per l’Alleanza: un modo per dire che tutta la nostra vita, dalla A alla Z (in ebraico da aleph a tav), è immersa nell’Alleanza e tenerezza di Dio. Ma perché questo salmo 144 (145) proprio oggi e perché solo questi sei versetti? Anzitutto, questo salmo fa parte della preghiera ebraica di ogni mattino e l’alba di un nuovo giorno evoca per l’ebreo credente l’alba del giorno definitivo, del mondo futuro e della creazione rinnovata. Per noi cristiani, in questo tempo pasquale il salmo ricorda che il Giorno del regno definitivo di Dio è già cominciato, davanti ai nostri occhi, con la risurrezione di Cristo. Inoltre, nella spiritualità ebraica, il Talmud (cioè l’insegnamento dei rabbini dei primi secoli dopo Cristo) afferma che colui che recita questo salmo tre volte al giorno “può essere certo di essere un figlio del mondo futuro”. Per noi cristiani il mondo futuro di cui parla la fede ebraica è proprio la creazione rinnovata da Gesù Cristo e i sei versetti scelti per oggi costituiscono un condensato della rivelazione e il salmo si armonizza perfettamente con i toni del tempo pasquale, in particolare, con le altre letture di questa domenica. Il primo versetto“Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” è il miglior riassunto di tutta la rivelazione biblica: infatti è il nome che Dio ha dato di sé stesso a Mosè (Es 34,6).Il secondo versetto: “Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature” è una scoperta enorme per l’umanità che dobbiamo proprio al popolo eletto; un tema già presente nell’Antico Testamento: Dio ama tutta l’umanità e il suo progetto d’amore, come dice san Paolo, riguarda l’intera umanità. Avvertiamo una risonanza particolare di questo negli Atti degli Apostoli e in modo speciale nella prima lettura di questa domenica di Pasqua che insiste sul fatto che l’annuncio dell’amore di Dio non è riservato agli ebrei, ma è per tutte le nazioni. Inoltre questo salmo, soprattutto nei versetti letti oggi, insiste sulla regalità di Dio: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno, il tuo regno è un regno eterno, il tuo dominio si estende per tutte le generazioni”. Quattro volte torna la parola “regno” (una volta “dominio”) e le parole “opere” e “imprese” che nella Bibbia fanno sempre riferimento alla liberazione dall’Egitto: Dio ha liberato il suo popolo allora e lo libera oggi e questo fino all’ultima liberazione che è la vittoria sulla morte. Un salmo dunque particolarmente adatto al tempo pasquale perché il Risorto sperimenta nella sua carne la regalità di Dio. Quando Israele componeva questo salmo, l’insistenza sulla regalità di Dio, o sul suo dominio, era un modo per affermare che mai si affideranno agli idoli perché l’unico loro Re e Signore è Dio, il Dio dell’amore. Quando i cristiani pregano questo salmo, sanno bene che in Cristo, re servo, umile nella Passione e trionfatore sulla morte, vedono la presenza del re dell’universo: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” disse Gesù agli apostoli (Gv.14, 9).
NOTA. Leggendo l’intero salmo si nota una profonda somiglianza con il Padre Nostro: ci si rivolge a Dio come Padre – “Padre nostro… dacci… perdonaci… liberaci dal male…” – un Padre che è il Dio di misericordia e pietà come si esprime il salmo. Ci si rivolge a lui anche come Re: “venga il tuo Regno”. In realtà tutte le frasi che Gesù ha raccolto nel Padre Nostro facevano già parte delle preghiere abituali del popolo ebraico
Secondo che si conti come una o due lettere il segno Sin/Shin (lo stesso simbolo si pronuncia talvolta Sin, talvolta Shin), si conteranno 21 o 22 lettere nell’alfabeto ebraico. I grammatici distinguono le due lettere Sin e Shin e l’alfabeto conta 22 lettere, ma il salmista utilizza solo la lettera Shin e dunque il salmo conta 21 versetti.
*Seconda Lettura dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni (21, 1-5a)
“Ecco, io faccio nuove tutte le cose”: cielo nuovo, terra nuova, Gerusalemme nuova; questo è il nostro futuro, il nostro “a-venire”, cioè ciò che viene. Finite le lacrime, la morte, i lamenti, le grida, la tristezza… tutto questo appartiene al passato: il primo cielo e la prima terra sono scomparsi. In altre parole, il passato è passato, compiuto. Giovanni ci ha avvertiti: il suo libro è un libro di visioni, che svela il futuro per dare il coraggio di affrontare il presente. Il primo cielo e la prima terra rimandano al racconto biblico della creazione e per comprendere questo passo dell’Apocalisse occorre rifarsi al libro della Genesi che nel primo capitolo presenta “la prima creazione” di cui l’Apocalisse afferma che era totalmente buona: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gn 1,31). Nonostante questo però ogni giorno vediamo lacrime, grida, tristezza, morte come ripete l’Apocalisse e la causa sta nel racconto del frutto proibito (Gn.3) spiegando cosa ha corrotto la bontà della creazione. Radice di tutte le sofferenze è la frattura creatasi tra Dio e l’umanità con il sospetto originario che distrugge l’Alleanza e spinge l’uomo a percorrere vie che lo portano solo al fallimento. Il popolo eletto ha ascoltato, tramite i profeti, il richiamo alla via dell’Alleanza che è l’unica via verso la vera felicità. Occorre che Dio abiti davvero in mezzo a noi perché siamo il suo popolo, e Lui sia il nostro Dio. Ristabilire l’Alleanza come un dialogo d’amore è la sete di Israele lungo tutta la sua storia e molti profeti annunciano ciò che l’autore dell’Apocalisse ora vede compiuto. Isaia scrive: “Ecco, io creo cieli nuovi e terra nuova… non ci si ricorderà più del passato, non tornerà più in mente… Non si udranno più in essa voci di pianto né grida di angoscia… Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio che non completi i suoi giorni» (Is 65,17-20). Ma perché simbolicamente il rinnovamento di tutte le cose è rappresentato dalla scomparsa del mare anche se Israele non è un popolo di marinai? La ragione è che la creazione dell’universo, nella Bibbia, è letta a partire dalla nascita del popolo eletto e questa nascita, cioè l’uscita dalla schiavitù d’Egitto, è stata una vittoria sul mare: Dio ha fatto apparire la terra asciutta per permettere il passaggio del suo popolo; il popolo salvato ha attraversato il mare a piedi e le forze del male, della schiavitù e dell’oppressione sono state inghiottite. Più tardi, nel Nuovo Testamento, il Figlio di Dio fatto uomo ha manifestato la sua vittoria sul male e sulle sue forze camminando sulle acque. Ora la vittoria è totale, suggerisce l’Apocalisse: il mare è scomparso e con esso ogni forma di male: sofferenza, lacrima, grido, morte. L’umanità e l’intero universo attendono il compimento del progetto che Dio aveva quando creò il mondo: stabilire con l’umanità un’Alleanza senza ombre, un eterno dialogo d’amore come appare nel tema delle nozze tra Dio e l’umanità sempre presente nella Bibbia. Si pensi ai profeti Osea o Isaia e al Cantico dei Cantici e nel Nuovo Testamento, al racconto delle nozze di Cana, per citarne uno solo. Qui, nel nostro brano dell’Apocalisse, tale promessa emerge da due immagini: quella della Gerusalemme nuova, “pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (v.2) e dall’espressione “Dio con loro” (v.3) dove “con” esprime l’Alleanza d’amore, alleanza sponsale. “Udii allora una voce potente, che veniva dal trono, che diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio-con-loro” (v.3. ). Inoltre il centro della nuova creazione porta il nome della città santa – “ecco che la Gerusalemme nuova “discende da Dio” - la città che, da secoli, simboleggia l’attesa del popolo eletto e il nome stesso di Gerusalemme significa “Città della giustizia e della pace” “discendente Dio” e per questo detta “nuova”. La nuova Gerusalemme non è solo opera umana perché il regno di Dio, che attendiamo e a cui cerchiamo di collaborare, è allo stesso tempo in continuità e in rottura con questa terra. Siamo pertanto invitati a collaborare con Dio e il nostro impegno contribuisce al rinnovamento della creazione grazie all’intervento di Dio che trasfigurerà i nostri sforzi.Percepiamo questo pure nella lettera di san Paolo ai Romani: “Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione infatti è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio… poiché anche la creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rm 8,19-22).
*Dal Vangelo secondo Giovanni (13, 31- 35)
Le prime frasi di questo testo sono come una sorta di variazioni sul tema della “gloria”:
“Quando Giuda fu uscito, Gesù disse: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà e lo glorificherà subito”: tutto questo può sembrarci un po’ complicato, ma in realtà è un modo molto ebraico di parlare: esprime la reciprocità del rapporto tra il Padre e il Figlio, o meglio la loro unione profonda: “Chi ha visto me ha visto il Padre”, scrive Giovanni (14,8) e ancora: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (10,30). “Il Figlio dell’uomo è glorificato, o che Dio è glorificato in lui”, vuol dire che il Figlio è il riflesso del Padre e notiamo ancora una volta quanto sia necessario uno sforzo per comprendere il linguaggio di Gesù e dei suoi contemporanei. Proprio nel momento in cui Giuda esce nella notte del tradimento, Gesù porta a compimento la sua vocazione di essere il riflesso del Padre. Ma Giovanni non l’ha capito subito perché insieme agli apostoli hanno assistito impotenti alla sua passione e morte; hanno vissuto questa successione di eventi come un momento di orrore e solo dopo Giovanni comprenderà che quello era in realtà l’istante della gloria di Gesù: perché proprio lì il Figlio rivelava fino a che punto arriva l’amore del Padre. E dato che il Figlio tradito, abbandonato, perseguitato da tutti, continua lui solo contro tutti, a essere solo amore, benevolenza, perdono, rivela al mondo fino a dove arriva l’amore del Padre, un amore infinito. E allora – e questa è la seconda parte del nostro testo – coloro che contemplano questo mistero dell’amore folle di Dio diventano capaci a loro volta di amare come lui. Gesù infatti collega chiaramente le due cose: dice che ora rivelerà al mondo fino a che punto arriva l’amore del Padre e precisa: “ora vi do un comandamento nuovo, che vi amiate come io vi ho amati”, ma aggiunge anche che solo ora sarete capaci perché attingerete al mio stesso amore. In realtà, la novità non è il comandamento di amare; Gesù non inventa il comandamento dell’amore che esiste già nell’insegnamento dei rabbini del suo tempo. Ciò che è nuovo è l’amare come lui, ma non solo “alla sua maniera”, cioè fino a dare la propria vita rifiutando ogni potere, dominio e violenza. La vera novità è amare “davvero come lui”, cioè essendo completamente guidati dal suo Spirito. Solo così possiamo capire in modo del tutto nuovo la famosa frase: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”. Non si tratta solo di un comandamento, ma piuttosto di una constatazione: siamo davvero suoi discepoli perché è il suo stesso Spirito a guidare i nostri comportamenti. Dio sa bene quanto l’amore quotidiano sia difficile, e se riusciamo nelle nostre comunità ad amarci, il mondo sarà costretto ad ammettere questa evidenza: che lo Spirito di Cristo agisce in noi. Siamo dunque innanzitutto invitati a un atto di fede: credere che il suo Spirito d’amore abita in noi, che le sue risorse d’amore abitano in noi: che possediamo capacità d’amare insospettabili, perché sono le sue, e allora diventa possibile amare “come” lui, perché lasciamo il suo Spirito agire in noi. Sappiamo però per esperienza che non è affatto facile amare chi ci sta accanto, anzi con alcuni è persino impossibile parlare di amore e di perdono. Gesù certamente non ignora tutto ciò quando comanda l’amore reciproco ai suoi discepoli; ma non bisogna confondere amore e sensibilità. Gesù ha mostrato con i gesti di quale amore dobbiamo amarci quando durante l’ultima cena ha lavato i piedi degli apostoli e ha concluso dicendo: “Vi ho dato l’esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”. Ecco dunque cosa significa amare “come” lui ci ha amati! Se ci pensiamo bene, è possibile grazie al suo Spirito mettersi al servizio gli uni degli altri, anche di quelli per cui non proviamo alcuna simpatia. Ma la fedeltà a questo comandamento è per noi vitale perché è su questo che le nostre comunità sono giudicate. Per Gesù la cosa più importante non è la qualità dei nostri discorsi, della nostra teologia e delle nostre conoscenze, né la bellezza delle nostre celebrazioni, bensì la qualità dell’amore che ci offriamo gli uni agli altri. Gesù in quell’ultima drammatica sera gridò :”Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato (cioè rivelato come Dio), e Dio è stato glorificato in lui”. L’umanità è introdotta nella gloria, nella presenza, nella vita di Dio, attraverso l’evento della passione-morte-risurrezione di Cristo. E ormai introdotti nella “gloria” di Dio (cioè il sacrificio di Cristo), i suoi discepoli possono vivere interamente sotto il segno dell’amore, poiché Dio è amore e la sua presenza risplende anche attraverso di loro. Basta solo crederci e lasciare agire lo Spirito in noi.
+Giovanni D’Ercole
Riflessioni sul senso religioso.
Anche questa riflessione nasce da un dialogo con un signore della mia età circa.
Questo signore conosciuto e stimato nel suo paese incontrando una sua vecchia conoscenza, viene redarguito da quest’ultima perché non frequentava le funzioni religiose; secondo lei avrebbe dovuto farlo per il suo bene. Il signore ha risposto che non sentiva questo bisogno e che non gli sembrava che il suo comportamento potesse offendere il senso religioso generalmente inteso.
Discussioni del genere ce ne sono spesso fra gli esseri umani, non è una novità. La riporto perché mi ha fatto riflettere sul senso religioso nella vita dell’uomo. L’argomento tocca diverse discipline ed è complesso.
Studi di Fiorenzo Facchini dicono che vari comportamenti dell’uomo preistorico vengono letti in senso religioso. I nostri antenati davano sepoltura ai loro morti e dipingevano raffigurazioni sulle pareti.
Queste caverne avevano qualcosa di sacro. Manifestazioni religiose dell’antichità erano i canti e le danze.
In tutte le religioni troviamo un bisogno di rassicurazione sulla nostra vita e anche il bisogno di trovare delle risposte magiche ai nostri problemi.
Bettelheim sostiene che a livello individuale e soprattutto nell’infanzia la religione può dare quelle basi di stabilità e sicurezza con cui il bambino potrà evolversi verso l’autonomia.
La società in cui viviamo ci impone di correre, di essere al passo con i tempi; vuole darci i suoi valori.
Oggi esiste la moda dell’effimero, della competitività - e allora è psicologicamente rassicurante credere in una “madre-ambiente” che ci vuole bene, o essere dentro un disegno che dà significato alla nostra vita.
A differenza di Freud che non aveva una visione positiva, o del filosofo Carlo Marx il quale sosteneva che la religione è l’oppio dei popoli, Jung nell’undicesimo volume “Psicologia e religione” dice testualmente:
“Poiché’ la religione è incontestabilmente una delle prime e universali espressioni dell’anima umana […] non è soltanto un fenomeno sociologico o storico, ma un’importante questione personale” (vol.XI, p.15).
Nella mia lunga pratica professionale ho incontrato spesso persone che hanno dovuto fare i conti con questa tematica.
Compito del terapeuta non è condizionare l’altro, ma chiarire le dinamiche sottostanti.
Ho incontrato persone che si definivano non credenti ma che a livello inconscio dovevano fare i conti con i loro sogni. Oppure individui che appartenevano a religioni diverse talmente rigide che inibivano il loro il senso vitale.
In tutti questi casi cresceva la conoscenza dell’animo umano, sia che esso si dichiarasse religioso o meno. Non stiamo discutendo della posizione filosofica di ciascuno.
Si notavano delle differenze tra la persona che si definiva religiosa da una che non lo era.
Tengo a precisare che tali differenze non costituiscono dei giudizi di valore, ma solo caratteristiche comportamentali.
lI religioso crede che esiste una realtà che è sacra e che va oltre questo mondo - e che la sua esistenza viene potenziata in base al suo credo.
Colui che si definiva non credente rifiutava la trascendenza, era uno il quale si fa da sé e crede che solamente lui si costruisce il proprio destino.
Una preoccupazione costante è quella di negare qualsiasi riferimento o battuta di spirito venisse riferita ad argomenti religiosi.
Addirittura ho incontrato qualcuno più preoccupato di quale fosse il mio credo più che dei suoi problemi personali. Ho sempre risposto che il mio ambito d’azione era la psiche in tutte le sue manifestazioni. Al di là di ogni manifestazione sacra o meno, il rispetto della persona è già un atteggiamento sacro.
“Desacralizzarsi“ del tutto non è neanche facile, poiché è difficile rinnegare del tutto la storia - sia per chi crede nella creazione e per chi crede nell’evoluzione.
Chissà se l’evoluzione include una creazione?
Dott. Francesco Giovannozzi Psicologo-psicoterapeuta
These divisions are seen in the relationships between individuals and groups, and also at the level of larger groups: nations against nations and blocs of opposing countries in a headlong quest for domination [Reconciliatio et Paenitentia n.2]
Queste divisioni si manifestano nei rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle più vaste collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi contrapposti, in un'affannosa ricerca di egemonia [Reconciliatio et Paenitentia n.2]
But the words of Jesus may seem strange. It is strange that Jesus exalts those whom the world generally regards as weak. He says to them, “Blessed are you who seem to be losers, because you are the true winners: the kingdom of heaven is yours!” Spoken by him who is “gentle and humble in heart”, these words present a challenge (Pope John Paul II)
È strano che Gesù esalti coloro che il mondo considera in generale dei deboli. Dice loro: “Beati voi che sembrate perdenti, perché siete i veri vincitori: vostro è il Regno dei Cieli!”. Dette da lui che è “mite e umile di cuore”, queste parole lanciano una sfida (Papa Giovanni Paolo II)
The first constitutive element of the group of Twelve is therefore an absolute attachment to Christ: they are people called to "be with him", that is, to follow him leaving everything. The second element is the missionary one, expressed on the model of the very mission of Jesus (Pope John Paul II)
Il primo elemento costitutivo del gruppo dei Dodici è dunque un attaccamento assoluto a Cristo: si tratta di persone chiamate a “essere con lui”, cioè a seguirlo lasciando tutto. Il secondo elemento è quello missionario, espresso sul modello della missione stessa di Gesù (Papa Giovanni Paolo II)
Isn’t the family just what the world needs? Doesn’t it need the love of father and mother, the love between parents and children, between husband and wife? Don’t we need love for life, the joy of life? (Pope Benedict)
Non ha forse il mondo bisogno proprio della famiglia? Non ha forse bisogno dell’amore paterno e materno, dell’amore tra genitori e figli, tra uomo e donna? Non abbiamo noi bisogno dell’amore della vita, bisogno della gioia di vivere? (Papa Benedetto)
Thus in communion with Christ, in a faith that creates charity, the entire Law is fulfilled. We become just by entering into communion with Christ who is Love (Pope Benedict)
Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore (Papa Benedetto)
From a human point of view, he thinks that there should be distance between the sinner and the Holy One. In truth, his very condition as a sinner requires that the Lord not distance Himself from him, in the same way that a doctor cannot distance himself from those who are sick (Pope Francis))
Da un punto di vista umano, pensa che ci debba essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato (Papa Francesco)
The life of the Church in the Third Millennium will certainly not be lacking in new and surprising manifestations of "the feminine genius" (Pope John Paul II)
Il futuro della Chiesa nel terzo millennio non mancherà certo di registrare nuove e mirabili manifestazioni del « genio femminile » (Papa Giovanni Paolo II)
And it is not enough that you belong to the Son of God, but you must be in him, as the members are in their head. All that is in you must be incorporated into him and from him receive life and guidance (Jean Eudes)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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