don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

XIII Domenica del Tempo Ordinario B (30 giugno 2024)

1. Gesù è il Signore della vita e non della morte. Nel vangelo di questa XIII Domenica del Tempo Ordinario troviamo il racconto di due miracoli incastonati l’uno nell’altro nel vangelo di Marco, racconto presente anche nel vangelo di Matteo e di Luca. Si tratta della risurrezione della figlia di Giairo e la guarigione dell’emorroissa, donna che da dodici anni perde sangue: 12 gli anni della bambina, come 12 sono quelli della malattia della donna, per entrambe erano state tentate inutilmente tutte le possibilità della medicina. L’evangelista insiste sul fallimento dei medici per mettere in rilievo il potere di guarire che è proprio di Gesù, capace persino di risuscitare i morti. Tutto il vangelo di Marco ci aiuta a conoscere chi è Gesù e, se può dominare la violenza delle tempeste come abbiamo visto domenica scorsa, attraverso questi due prodigi ci assicura che tutto egli può essendo il Signore della vita. La rianimazione della figlia di Giairo fa pensare alla nostra risurrezione come pure al definitivo trionfo del regno di Dio che giungerà il giorno in cui egli dirà a tutta l’umanità, come alla fanciulla morta: “Talitha koum, alzati”. E tutto diventa possibile a chi crede. La salvezza, espressa in questi miracoli, abbraccia l’intera realtà umana e chiede come unica condizione che ci sia una fede liberamente proclamata, una fede possibile per tutti: sia per chi come Giairo, capo di sinagoga, è notabile e potente sia per chi è povero, come la donna condannata a soffrire e per di più considerata impura a causa della malattia. Altro messaggio importante è che, attraverso il racconto di questi miracoli, san Marco ci dice che Gesù è venuto a combattere ogni tipo di emarginazione fisica e spirituale. E ci chiede di fidarci di lui senza dubitare come coloro che lo deridevano perché aveva detto che la bambina non era morta ma dormiva.  L’opera di Dio è misteriosa e potente, e tutto diventa possibile a chi liberamente si abbandona nelle sue mani in ogni situazione anche drammatica. Chiamando poi come testimoni i discepoli a lui più vicini, Pietro Giacomo e Giovanni, che gli saranno accanto anche sul monte Tabor in occasione della Trasfigurazione e nell’orto del Getsemani nell’ora della passione, Gesù intende educarli a una fede salda che non poggia sulla ricerca di miracoli e di segni spettacolari, ma cerca di cogliere in ogni evento dell’esistenza l’intervento divino nell’umana fragilità.

2. Dio infatti non ci abbandona mai perché ci ama e ha creato l’uomo per l’incorruttibilità come leggiamo nella prima lettura. Si tratta d’un brano tratto dall’inizio del libro della Sapienza che fa pensare ai primi capitoli del libro della Genesi: entrambi iniziano con una lunga riflessione sul destino dell’essere umano. Scritti in epoche diverse e con stile differente abbordano però gli stessi problemi, quelli della vita e della morte. Essendo a contatto con popoli pagani, Israele, geloso custode della propria esperienza religiosa, intende salvaguardare la purezza della fede la cui prima caratteristica è proprio l’ottimismo che poggia sulla certezza dell’amore divino. L’affermazione che qui leggiamo: “Dio ha creato tutte le cose perché esistano, le creature del mondo sono poprtatrici di salvezza” può considerarsi una variante  di ciò che leggiamo nella Genesi: “Dio vide tutto ciò che aveva fatto: era cosa molto buona (Gn1,31).  E ancora, leggendo che “Dio ha creato l’uomo… lo ha fatto immagine della propria natura” non possiamo non pensare al libro della Genesi: “Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gn1,26). Ci ha voluto creare a sua immagine per la vita eterna, cioè per vivere eternamente con lui. Ma come giustificare la morte? E’ forse un fallimento di Dio? Assolutamente no! Ed é su questo tema che la parola di Dio oggi c’invita a riflettere. Occorre anzitutto distinguere tra la morte biologica che nella visione biblica e cristiana è come la trasformazione della crisalide in farfalla, cioè il passaggio da questa vita terrena all’eternità; ben altra cosa è la morte spirituale che consiste nel vivere separati da Dio e persino rigettandolo. Ed è proprio di questa morte che qui si tratta mettendo in evidenza che creando l’uomo Dio l’ha voluto per l’eternità, pur lasciandolo libero di scegliere di allontanarsi da lui. Questa morte, nota l’autore, è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo e “ne fanno l’esperienza coloro che le appartengono”. Lasciandosi trainare da satana l’uomo sperimenta la morte spirituale, terribile destino dei malvagi, annota il libro della Sapienza dove, nei primi cinque capitoli, viene presentata l’opposizione fra i giusti che vivono della vita di Dio già sulla terra e gli empi che al contrario scelgono la morte, in altre parole decidono di rifiutare Dio e si condannano al distacco da lui. Giusto è colui che vive dello spirito di Dio, empio è chi non si lascia condurre da lui. Nel secondo libro della Genesi si legge che creando l’uomo Dio ha soffiato nelle sue narici il soffio della sua vita e da quel momemto l’essere umano è diventato “vivente”. Siamo quindi nati per vivere animati dal soffio di Dio, ma se ci allontaniamo, se rifiutiamo Dio, entriamo nel regno della vita che muore. La differenza fra i giusti e gli empi è presente anche nel primo salmo spesso citato nella liturgia: “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi…ma nella legge del Signore trova la sua gioia”. Ecco gente che gode della pace e della prosperità, come alberi piantati lungo corsi d’acqua, vigorosi e ricchi di foglie e poi di frutti. Non così i malvagi, che sono come la pula dispersa dal vento: una incisiva immagine della volatilità della vita senza Dio. Insomma la nostra esistenza ha in sé stessa il seme dell’eternità e solo chi lo rigetta sperimenta la morte spirituale che può diventare definitiva.

3. Il tema allora è duplice: come evitare la morte spirituale e come comportarsi davanti al destino della morte biologica che accomuna tutti gli esseri viventi essendo vero che tutto ciò che nasce è votato a morire.  L’odierna parola di Dio sottolinea due fondamentali attitudini possibili: quella dei pagani, di coloro cioè che professano di non voler credere, e assumono uno stile di comportamento riassunto nell’espressione “carpe diem”. Il significato di questo famoso detto latino è molteplice ma spesso viene interpretato come un invito a vivere profittando di ogni terrena opportunità per godere perché l’esistenza umana è breve: viviamo allora come possiamo e meglio ci piace perché tutto con la nostra morte prende fine e dopo la morte ci attende il nulla. Dinanzi al mistero della morte diversa è l’attitudine dei credenti definiti dalla parola di Dio “giusti”. Essi sanno di dover passare per la morte biologica ma sono stati creati per l’immortalità. Forse sulla terra non tutto va come piacerebbe e talora l’ingiustizia prevale: chi sembra godersi la vita facendo del male, agli occhi degli uomini appare appagato, mentre chi cerca di restare nella fedeltà di Dio passa per molte prove e può imbattersi in molte sofferenze sino a patire ingiustizie e cattiverie. Chi confida in Dio sa però che non tutto finisce con la morte biologica e se anche sulla terra non si riceve il compenso per il bene che si compie, non va mai dimenticato che Dio è infinitamente giusto e a suo tempo ristabilirà la giustizia. La virtù della speranza sostiene il nostro pellegrinaggio terreno e illumina il mistero della morte. Tutti dobbiamo morire e la morte è fase obbligata del nostro itinerario verso l’eternità anche se oggi ci si sforza di nasconderla per paura, e non se ne parla per non urtare la sensibilità delle persone che la ritengono un’inevitabile sventura. Quel che invece è da temere – ed è questo il messaggio della parola di Dio in questa liturgia domenicale – è la morte spirituale, l’eterna privazione di Dio. Ma quanti oggi si fermano a riflettere su questa realtà? Quanti passano i loro giorni sulla terra come se non dovessero mai morire? Quanti pur vivendo sono già morti spiritualmente? La parola di Dio ci aiuta a riconoscere e amare il Signore della vita e della morte,  c’invita ad affidarci senza timore fra le sue braccia di Padre misericordioso e fedele. E se qualche volta, dinanzi alle umane fragilità e ai peccati siamo tentati di scoraggiarci, prestiamo ascolto a quanto scrive san Giovanni: “Qualunque cosa esso (il cuore) ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv3, 20).

+ Giovanni D’Ercole

XII Domenica del Tempo Ordinario B (23.06.2024)

1. Il Signore cominciò a parlare a Giobbe in mezzo all’uragano. Così comincia la prima lettura, tratta dal libro di Giobbe che non pretende di raccontare la storia reale d’un uomo, ma è piuttosto una riflessione sapienziale sui grandi drammi e tragedie dell’uomo e dell’umanità. Il popolo ebreo sapeva che il diluvio universale distrusse tutto e in seguito ebbe a sperimentare la siccità, l’asprezza del deserto e quindi conosceva cosa significa soffrire la fame, la sete e le malattie. Presentare Dio come colui che domina le acque, i venti e la natura diventa un modo simbolico per proclamare la fede d’Israele nell’onnipotenza divina. Addirittura leggiamo qui che Dio parla in mezzo all’uragano, una maniera ancor più incisiva di dire che solamente il Signore è l’essere che domina la tempesta al punto da farla diventare il suo portavoce. La travagliata vicenda di Giobbe c’invita a considerare che nella vita d’ogni persona possono avvenire stravolgimenti d’ogni genere; in un modo o l’altro tutti dobbiamo fare i conti con il problema del male sotto le sue diverse forme: sofferenze fisiche, morali, sociali e spirituali, solitudine, fallimenti di ogni sogno e progetto, ingiustizie e sfruttamento, disperazione e morte. La tentazione della sfiducia spingeva il popolo, come avviene anche a noi, a ritenere Dio colpevole del male perché non basta essere persone perbene e religiose, come Giobbe uomo giusto e fedele a Dio, per esserne risparmiati. L’esperienza mostra che tutti all’improvviso possono conoscere disastri e sventure d’ogni genere, proprio come avvenne a Giobbe: la tragica fine dei suoi figli, la più nera miseria e l’improvvisa perdita di tutto ciò che possedeva, e, come se non bastasse, la malattia che lo ridusse a una ributtante larva umana. E’ nel mezzo di questo travaglio esistenziale che Giobbe interroga Dio sul perché della sofferenza che colpisce una persona buona come lui. E riceve un’articolata risposta dal Signore di cui l’odierno testo biblico ci riferisce soltanto l’inizio: una risposta che prende la forma di un lungo discorso che è bene rileggere integralmente nel libro di Giobbe. Dio, in maniera dolce e tranquilla, ma ferma e decisa rimette l’uomo al suo posto: non sei tu il creatore del mondo, né il dominatore di ogni fenomeno naturale, né sei tu che assicuri il cibo agli animali e la loro riproduzione. Non dimenticare allora che la vita di ogni essere umano è nelle mani di Dio, ma questo suo potere assoluto su tutto non serve a provare ed esaltare la sua onnipotenza, bensì tende a suscitare la fiducia dell’uomo perché nulla sfugge a Dio anche quando ci si ritrova nel pieno della sventura. Insomma chi ha scritto questo libro dell’Antico Testamento vuole incoraggiarci a non disperare quando ci sentiamo impotenti davanti a tragici imprevisti perché anche quando tutto crolla, noi restiamo sempre tra le braccia di un Dio che è Padre. Per quanto violente possono diventare le tempeste, lui non ci lascerà mai soccombere al male. La lezione di Giobbe è un invito a porre la fiducia in Dio sempre e comunque, con pazienza e perseveranza.

2. Riprende il tema della prima lettura la pagina del vangelo che si chiude con questa domanda: “Chi è dunque costui che anche il vento e il mare gli obbediscono?”. L’evangelista Marco mostra il contrasto tra la violenza della tempesta che rischia di sommergere la barca, lo spavento dei discepoli che svegliano preoccupati il Maestro e la pacatezza di Gesù che, destato dal sonno, con un semplice intervento tutto risolve. Comanda infatti al mare e al vento: “Taci, calmati!”  e immediatamente ristabilisce la calma. Se è vero che l’intero vangelo di Marco tende a offrire la risposta alla domanda: “Chi è il Cristo?”, nell’odierno brano troviamo la risposta perché c’invita a riflettere che la ragione per cui Gesù ha potere sulla creazione calmando la furia delle acque e del vento, sta nel fatto  che egli è Dio, lo stesso Dio che, come leggiamo nella prima lettura, ha limitato lo spazio delle acque, ha fatto delle nuvole il suo abito e ha bloccato l’arroganza dei flutti del mare ponendo le forze della natura al servizio del suo popolo. Nello stesso momento in cui i discepoli si pongono la domanda su chi sia quest’uomo che domina la violenza delle acque, si danno anche la risposta: è l’inviato di Dio e, proprio per questo come l’evangelista sottolinea, da terrorizzati a causa della tempesta sono poi pieni di meraviglia per la calma miracolosamente ristabilita. Ciò che tuttavia sorprende di più in questo testo non sono la paura dei discepoli per la furia della tempesta e poi il timore che provano davanti a colui che riconoscono come l’inviato di Dio, ma è piuttosto la domanda che Gesù rivolge loro: “Non avete ancora fede?”. Ci stupisce che Gesù ponga ai discepoli questa domanda. Renderci conto della nostra impotenza davanti a certe prove e difficoltà che ci sorprendono ed avere paura è del tutto normale. La domanda di Gesù c’invita ad andare oltre: quando siamo sopraffatti da qualcosa di assolutamente sconvolgente che pone in crisi la nostra vita come reagiamo? Quale è la nostra attitudine difronte alle tempeste che stravolgono improvvisamente il mondo? Come gli apostoli viene naturale gridare: Maestro siamo persi e tu che fai, tu dormi e non ti preoccupi di noi? L’evangelista Marco vuole metterci in guardia dal rischio di cadere nella tentazione di interpretare il frequente silenzio di Dio davanti a ciò che ci fa soffrire, come un segno della sua indifferenza e del suo abbandono. Al contrario, il vangelo ci vuole mettere in guardia dal rischio dello scoraggiamento e c’invita a non aver paura perché Dio, nonostante tutto, può tutto e ci riporta alla calma. Inoltre ce ne rivela il segreto: ci assicura che tutto è possibile se, come lui, abbiamo fiducia nel Padre celeste, il solo che può renderci capaci di comandare al mare in burrasca e calmare il vento impetuoso. 

Proviamo a riflettere: “non è il nostro sentimento d’impotenza davanti alle difficoltà già il segno di una mancanza di fede”? Non dobbiamo certamente prendere i nostri sogni come realtà e crederci onnipotenti alla maniera di Dio perché la realtà di ogni giorno ci riconduce alla nostra umana limitatezza. Si tratta però di crescere nella fede, cioè mantenere la fiducia che in Gesù tutto ci è possibile, compreso dominare la forza della natura e la violenza del male. Una simile fiducia pacifica il cuore e lo apre a inediti orizzonti di speranza pur quando si resta nel buio dei problemi.

3. Ecco la buona notizia: con l’avvento di Gesù è nato un nuovo mondo e niente resta come prima. Nel giardino dell’Eden Dio ordinò ad Adamo e Eva di lavorare e sottomettere la terra e non era un semplice modo di parlare, bensì il progetto di Dio che si realizzerà pienamente in Gesù. E il Cristo prima dell’ascensione dice agli apostoli: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli”: affida ai suoi discepoli l’intero pianeta (Mt 28,19). Ormai, come afferma san Paolo nell’odierna seconda lettura, l’amore di Cristo ci possiede e nulla più ci può separare da questo amore nel quale siamo stati immersi il giorno del battesimo. Spiega poi san Paolo: “se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove” (2Cor. 5,14-17). Con Cristo è nato il mondo nuovo: non siamo più nel mondo della prima creazione, ma dobbiamo entrare nel mondo della risurrezione di Cristo. Il battesimo ci rende nuova umanità chiamata a vivere in Cristo risorto un’esistenza di solidarietà, di giustizia e di condivisione nel servizio dei fratelli, imitando il Maestro che non è venuto per essere servito ma per servire. Questa novità di vita esige però di restare innestati in Cristo per diventare persone “nuove”, cioè rinnovate, e pronte ad affrontare le battaglie contro la violenza, l’ingiustizia e l’odio, che sfigurano il volto dell’umanità, contando sulla potenza dell’amore divino. Ci aiuti il Signore a realizzare con coerenza questa nostra vocazione cristiana per giungere, come san Paolo, a poter affermare che non siamo più noi che viviamo, ma Cristo vive in noi, e di conseguenza pronte a correre “con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Ebr.: 12, 2). In definitiva, se vogliamo essere coerenti con la nostra fede fino in fondo, la parola impossibile non fa parte del vocabolario dei cristiani, perché tutto è possibile a Dio: non è questa la vera provocazione per la nostra fede?

+Giovanni D’Ercole

XI Domenica del tempo Ordinario B (16 giugno 2024)

1. La prima lettura, tratta dal libro del profeta Ezechiele, potrebbe essere letta come una parabola di speranza per il popolo ebreo. Per capire bene occorre tener presente il contesto storico segnato dall’occupazione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor che aveva deportato in Babilonia il re e una buona parte degli abitanti fra i quali lo stesso profeta Ezechiele e, come se ciò non bastasse, dopo poco tempo fu completamente distrutta Gerusalemme e spogliata di tutti i suoi abitanti resi schiavi a Babilonia. In quel momento Israele era in preda allo scoraggiamento totale perché aveva perso tutto: la terra, segno concreto della benedizione di Dio, il suo re mediatore fra Dio e il popolo, il tempio, luogo della presenza di Dio e percepiva la propria situazione come un albero reciso e destinato alla sterilità, cioè senza certezza né speranza di futuro. La domanda ricorrente era se Dio avesse dunque abbandonato il suo popolo e la fiducia di tutti fu messa a dura prova. 

Avviene però una sorta di miracolo perché nel cuore di una situazione così drammatica quale è la deportazione babilonese, la fede d’Israele si andò purificando per diventare più salda: avvenne uno straordinario sussulto della fede del popolo eletto ed Ezechiele ne fu uno degli artefici. In passato aveva cercato di ammonirlo prevedendo quanto poi si è verificato, ma ora che la catastrofe è caduta sul popolo, la sua missione è far rinascere la fiducia e quindi si fa portavoce di una parola di speranza. Utilizza a questo scopo la parabola del cedro gigantesco che abbiamo incontrato nella prima lettura. Perché proprio il cedro? Il cedro era il simbolo della dinastia dei re e quindi immagine del re in esilio diventato un albero morto da cui però il Signore stacca un ramoscello per trapiantarlo “sopra un alto monte d’Israele” che indica Gerusalemme. Vengono qui preannunciati ben due eventi di vittoria: il ritorno del popolo ebreo in patria e la restaurazione del regno di Gerusalemme che vedrà in seguito accorrere verso Gerusalemme gente da ogni parte del mondo e sarà allora il trionfo del Dio unico. 

Ciò prova che nulla è impossibile a Dio il quale conferma: “Io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso”. E ancora: “Io, il Signore ho parlato e lo farò”. 

Vediamo qui messi in luce due aspetti della fede ebraica: anzitutto Dio è onnipotente e porta a compimento tutto ciò che promette; in secondo luogo, Israele conserva la speranza perché nutre la certezza nell’intervento divino che porta a compimento ogni sua promessa. E in effetti si tratta qui dell’annuncio del Messia futuro, promessa che ha sorretto nel corso dei secoli la speranza d’Israele soprattutto nei momenti drammatici della sua storia e ad alimentare questa fiducia contribuisce la missione dei profeti di cui ci offre un grande esempio Ezechiele.

2. Il testo evangelico, come spesso avviene, richiama la prima lettura. Oggi è san Matteo a raccontarci la parabola del granellino di senape, il più piccolo di tutti i semi, che sepolto nella terra “germoglia e cresce” sino a diventare “più grande di tutte le piante dell’orto”.  Il ramoscello staccato dalla cima del cedro sterile della prima lettura e “il più piccolo dei semi” di cui leggiamo nel vangelo fanno pensare alla vita di ogni cristiano. Grazie al seme di Dio posto in noi il giorno del battesimo siamo diventati potenziali alberi di vita nuova chiamati a produrre e spargere frutti di amore e di bontà. In particolare la parabola evangelica sottolinea due aspetti della vita cristiana: ll seme posto dalla Trinità nel cuore dell’uomo cresce ogni giorno silenziosamente avvolto dalla terra e questo sta ad indicare che solamente Dio può assicurare la totale crescita e la piena realizzazione della nostra esistenza. L’accenno invece alla piccolezza del granellino di senape, addirittura il più piccolo di tutti, viene a sottolineare che anche noi, con la nostra pochezza e fragilità siamo in qualche modo partecipi e collaboratori indispensabili di questa crescita sorprendente. Ed allora è bene lasciarsi guidare dalla Provvidenza divina che ha posto a nostra disposizione due ali per volare verso il cielo: l’intervento di Dio e l’azione dell’uomo. La tradizione cristiana ha tradotto questa sinergia umano-divina in contemplazione e azione, evidenziando l’interconnessione esistente tra il pregare inteso come ascolto di Dio e l’agire come risposta alla volontà divina. Scrive al riguardo sant’Ignazio di Loyola: «Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio» (cfr Pedro de Ribadeneira, Vita di S. Ignazio di Loyola, Milano 1998) e Gilbert Keith Chesterton sintetizza questo progetto umano-divino così: “Pregare come se tutto dipendesse da Dio; agire come se tutto dipendesse da noi”. 

Se talora Dio sembra assente dall’orizzonte della nostra esistenza, crediamo che Egli è sempre all’opera. Anzi laddove le tenebre diventano più dense, risplende ancor più la sua luce. Ne è esempio la vita di san Giovanni della Croce, grande santo riformatore dell’ordine carmelitano, che ebbe un’esistenza non travagliata ma assurdamente difficile. Tuttavia proprio nei momenti più oscuri, come ad esempio il tempo passato in un carcere isolato e abbandonato da tutti, anzi tradito persino dai suoi confratelli, egli ha scritto una delle sue opere di spiritualità più belle, alla quale molti continuano ad ispirarsi nel loro cammino di santificazione. E così si capisce che la vita cristiana è un cammino verso Dio. Se poi uno reca in sé un grande amore, questo amore gli dà quasi ali per sopportare più facilmente tutte le molestie, i contrasti e le ingiustizie di questo mondo, perché porta in sé la grande luce della fede che consiste nel sentirsi amati da Dio e nel lasciarsi amare da lui in Cristo Gesù. Grande tentazione è però la paura madre dello scoraggiamento e l’orgoglio padre della sfiducia.

3. Insomma, la trappola satanica del sospetto che ingannò i progenitori nel giardino dell’Eden, è sempre all’opera e occorre restare in guardia, senza mai perdere la certezza che “è retto il Signore mia roccia: in lui non c’è malvagità” come ci fa pregare oggi il salmo responsoriale tratto dal salmo 91/92. Israele si riconosce colpevole avendo in diverse occasioni accusato il suo Signore. Ricorda bene quando nel deserto del Sinai in giorni di grande sete, il popolo si è ribellato contro Mosè accusando lui e il Signore di averli fatti uscire dall’Egitto per lasciarli poi morire di sete nel deserto. Si tratta del famoso episodio di Massa et Meriba (Es. 17,1-7). Eppure, anche in quell’occasione, malgrado la loro rivolta, Dio si mostrò più grande del risentimento e dei lamenti del popolo fuori di sé dall’ira, e fece sgorgare per tutti l’acqua dalla roccia. A ricordo di quest’evento Israele chiamerà Dio “sua roccia”, un modo per richiamare la fedeltà divina che è più forte d’ogni sospetto del suo popolo. Da questa roccia Israele lungo i secoli continuerà ad attingere l’acqua della sua sopravvivenza: sarà la sorgente della sua fede e della sua fiducia. 

Di fronte all’ingratitudine di Israele Dio proclama la sua fedeltà perché Egli è Misericordia infinita pronto a stringere alleanza con i suoi, Lui che è Dio d’amore e di fedeltà, lento alla collera e pieno di amore.  Dalla parola di Dio oggi riceviamo un invito a ben vigilare sulla nostra esistenza perché torna spesso nel corso della vita la trappola del sospetto: quando si ha sete, quando l’acqua non è buona, quando si è affamati di felicità e tutto sembra andare non come vorremmo ma per il verso sbagliato, si è tentati d’accusare Dio di averci ingannati e abbandonati. Attenzione a non dimenticare la lezione del giardino dell’Eden quando l’astuto satanico serpente è riuscito a far credere all’uomo e alla donna che Dio non è sincero verso di loro ed essi caddero nella trappola del sospetto: si ritrovarono nudi, cioè spogliati di tutto ciò che costituiva la loro ricca eredità divina.  

Come premunirsi contro la tentazione dell’inganno? Come proteggersi dalla trappola del sospetto ce lo indica Il salmo che oggi la liturgia ci fa meditare: è necessario restare ben piantati nel tempio di Dio come un cedro e non stancarsi di ripetere, pur nel buio di certe notti oscure, che “é bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome o Altissimo” perché ricorrere con fiducia a Dio fa del bene a noi stessi. Afferma sant’Agostino: “Tutto ciò che l’uomo fa per Dio profitta all’uomo e non a Dio”. Pregare dunque e cantare per Dio, “annunciare al mattino il suo amore e la sua fedeltà nella notte” ci aiuta a proteggerci dall’inganno di satana, dalla paura e dalla sfiducia. L’esperienza di tanti santi mostra che solo la verità e la fiducia invincibile nel suo amore possono illuminarci in ogni situazione della vita, mentre la sfiducia e il sospetto falsano il nostro sguardo sulla realtà. Sospettare che Dio voglia imbrogliarci o ci abbandoni al nostro destino è la trappola in cui non dobbiamo cadere, perché può diventare una trappola mortale. Seguiamo piuttosto l’invito dell’apostolo Paolo nella seconda lettura: “finché abitiamo nel corpo - camminiamo infatti nella fede e non nella visione – siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore”. (2Cor 5,6-10).  Mentre siamo pellegrini verso il cielo, camminiamo con i piedi ben piantati su questa terra, ma il nostro cuore trovi la sua ragione di speranza e d’impegno nel Cristo che spalanca già per noi la porta dell’eterna felicità.  Buona domenica!

+ Giovanni D’Ercole

Commento Liturgia X Domenica T.O. (9 giugno 2024)

1. Nella vita due sono le scelte fondamentali possibili: vivere secondo Dio oppure scegliere di fare a meno di Dio. E’ l'opzione fondamentale, decisione che ha origine nel centro stesso della persona, dal cuore, visto come nucleo della sua personalità. Decisione fondamentale che condiziona tutte le altre scelte perché è l’orientamento di fondo che concerne l'intera esistenza. Di questo parla il libro della Genesi (cap.2-3), che presenta in linguaggio simbolico Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden loro affidato da Dio con il compito di coltivarlo e custodirlo. Al centro di questo giardino, si trova l’albero della vita e “l’albero della conoscenza del bene e del male” cioè il segreto della conoscenza di ciò che rende l’uomo felice oppure lo priva della felicità. Ed ecco la consegna di Dio: “potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui te ne mangerai, certamente dovrai morire”.  La verità qui espressa è che Dio creando la persona umana, l’ha arricchita di intelligenza e volontà libera, e ha fissato ciò che è bene e vitale per lei. Voler definire da noi stessi in modo radicale quanto è bene o male per noi, vuol dire farsi creatori di sé stessi e in altri termini volersi fare simili a Dio. Nel progetto divino la ragione della felicità umana è Dio stesso aderendo alla sua volontà, perché siamo creati per vivere in armonia con lui. Nel libro “Riconoscere Dio al centro della vita”, testi di meditazione per l'intero anno liturgico, Dietrich Bonhoeffer, teologo e pastore protestante morto per impiccagione il 9 aprile 1945 nel campo di concentramento di Flossenbürg, in Germania, scrive che “comprendere ogni mattina in maniera nuova l’antica fedeltà di Dio, poter cominciare quotidianamente una nuova vita nella compagnia di Dio: ecco il dono che Dio ci fa allo spuntare di ogni giorno”.  

L’originale progetto di Dio fu però insidiato dal serpente tentatore che, con astuzia menzognera, provocò Eva insinuando che Dio aveva proibito di mangiare di ogni albero del giardino. La donna replicò giustamente che secondo la consegna del Creatore possono essere mangiati i frutti d’ogni albero, eccetto di quello della conoscenza del bene e del male. Dice una cosa giusta, ma senza rendersene conto entrando in contatto con il serpente, ammaliata dalla prospettiva di diventare come Dio senza bisogno di Dio e con un semplice gesto magico, si lascia convincere: prese il frutto e ne mangiò condividendolo con Adamo, riconoscendo poi: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato”.  

Al di là del linguaggio simbolico, qui è detta una verità di fondo: l’uomo distaccandosi da Dio rischia di non comprendere più nemmeno sé stesso e gli altri. La conseguenza fu infatti drammatica: gli occhi di entrambi si aprirono e si resero conto di essere nudi e pieni di vergogna l’una dell’altro compromettendo l’armonica trasparenza delle loro relazioni. Satana è riuscito a trarre in inganno l’essere umano e a rovinargli l’armonia originaria della creazione.

2. Da quest’episodio biblico possiamo trarre qualche utile considerazione: la vita umana sarà ormai sottoposta alle tentazioni del maligno, che in tutti i modi tenderà di separare l’uomo dal Creatore. Tuttavia, per quanto perversa possa diventare l’umana natura umana, la Bibbia insegna che il male non è intrinseco all’uomo; è piuttosto a lui esteriore e, solo quando ci si lascia sedurre e ingannare, si aprono per lui percorsi pericolosi e lastricati di tristezza e d’infelicità. Dopo il peccato originale la vita è una lotta per tutti e lungo l’intera storia della salvezza i profeti hanno sempre messo in guardia il popolo eletto dalle seduzioni ingannatrici di satana. Ma Dio non abbandona a sé stessa la creatura umana: laddove c’è il peccato brilla ancor più la misericordia divina. Dio condanna il serpente: “Poiché tu hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici”. Maledice il male e la sua collera nella Bibbia è sempre contro ciò che distrugge l’uomo, poiché il male non viene da Dio e né fa parte essenzialmente della natura umana. L’aspirazione di Adamo e di Eva di essere come Dio era ben giusta ed è anche la nostra, dato che il Creatore ci ha strutturati a sua immagine e somiglianza e il soffio divino è il nostro respiro. Sotto l’inganno satanico, i nostri progenitori hanno però creduto una propria conquista essere come Dio e non un dono gratuito da coltivare in armonia fiduciosa on lui. L’adesione dei progenitori alla tentazione del serpente ci ha resi tutti influenzabili dal male. Ma non tutto è perduto perché Dio rivolgendosi al serpente assicura: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”.  Viene prevista dunque una lotta di cui si conosce già l’esito: sarà alla fine Cristo a vincere e il male non potrà mai avere l’ultima parola.  La teologia cristiana definisce questo testo della Genesi (3,15), con il temine di protovangelo e lo considera una profezia del futuro Messia, chiamato qui "progenie della donna", che avrebbe redento la stessa umanità, strappandola alla condanna meritata a causa del peccato commesso. Dio, che mai abbandona l’umana creatura uscita dalle sue mani, manifesta in questo modo la sua infinita misericordia, tanto quanto egli, nella condanna dell'umanità, aveva manifestato la sua giustizia.

3. “O Padre, che hai mandato il tuo Figlio a liberare l’uomo dal potere di satana, aumenta in noi la fede e la libertà vera”. Così preghiamo all’inizio della messa di questa X Domenica del Tempo Ordinario. Gesù Cristo è venuto nel mondo per redimere l’umanità dalla schiavitù del male. Comprendiamo meglio questo messaggio di speranza analizzando l’odierna pagina del vangelo di Marco. Stranamente il comportamento e i miracoli compiuti da Gesù appaiono per alcuni sorprendenti, persino choccanti e ognuno cerca di fornire una spiegazione: Gesù è pazzo per i suoi parenti, invece per le autorità religiose ha addirittura stretto un patto con il diavolo. Gesù non si mette a discutere con coloro che lo ritengono un pazzo, ma prende sul serio l’accusa di essere posseduto dal demonio. E così ragiona: se l’unione fa la forza, una famiglia o un gruppo diviso al suo interno sarà preda facile per i nemici. Se dunque voi dite che io scaccio i demoni per mezzo del loro capo Beelzebul vuol dire che satana lavora contro sé stesso,  e allora andrà facilmente in rovina. Segue poi una breve parabola che troviamo più diffusa nel vangelo di Luca (11,14-26): ”Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa”.  L’uomo forte in questo caso è satana e, se Gesù diventa padrone della casa avendo espulso i demoni, significa che è più forte di satana: è lui il trionfatore sul male. Nella prima lettura si preannunciava la vittoria e qui Gesù si presenta come colui che la realizza. Poi però segue un avvertimento: “In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna”. Anzitutto, ancora una volta siamo rassicurati che la misericordia di Dio è infinita e la solennità del Sacro Cuore che abbiamo celebrato venerdì scorso ce lo ha ben ricordato.

4. C’è però un peccato imperdonabile che Gesù definisce la bestemmia contro lo Spirito Santo. All’inizio del vangelo Marco racconta che la fama di Gesù si era sparsa in tutta la regione giungendo sino a Gerusalemme: guariva i malati e i posseduti dal demonio venivano liberati. Guarigioni e soprattutto espulsioni dei demoni erano i segni che il regno di Dio era giunto (Cf. Lc.11,20).  Alcuni scribi e dottori della legge erano però talmente lontani da Dio da non riconoscere l’opera del Signore in questi prodigi. Ed è proprio quest’attitudine ad essere presa di mira dal Signore perché è quella di satana, il serpente che insinuò ad Adamo ed Eva che Dio li imbrogliava perché non li amava. Gesù non è molto lontano dal trattare gli scribi come serpenti velenosi, condanna la loro attitudine perché non riconoscono l’opera di Dio. Attribuire a Dio intenzioni cattive e ingannatrici, ecco cosa Gesù chiama “bestemmia contro lo Spirito Santo”. Infatti nel momento stesso in cui Gesù guarisce o espelle un demone, gli scribi lo trattano come un demone egli stesso, invece di riconoscerlo come il vincitore di satana. E’ il rifiuto dell’amore e l’amore può donarsi solo se viene accolto. Gesù definisce questo peccato imperdonabile: non perché sia Dio a rifiutare il suo amore e il suo perdono, ma perché sono i cuori degli scribi ermeticamente chiusi a diventare refrattari cioè indifferenti, insensibili, restii, riluttanti, sordi, all’amore di Dio.  E la conclusione dell’odierno vangelo ci fa capire chi sono i veri amici e familiari di Cristo: “Chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.  Sullo sfondo suonano come un avvertimento queste parole del prologo del IV vangelo: “Venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). 

Una domanda per chiudere: quanti oggi accogliendo Cristo nella loro vita, sono sinceramente disposti a lottare contro il serpente satanico che in tanti modi continua ad ingannare l’umanità? 

+ Giovanni D’Ercole

 

P.S. “Mio caro Malacoda, ho notato con profondo dispiacere che il tuo paziente s’è fatto cristiano. Non nutrire speranza alcuna di sfuggire alle punizioni che si sogliono infliggere in simili casi”. Ecco un passaggio del libro che mi permetto di consigliare: “Le lettere di Berlicche (titolo originale The Screwtape Letters), un racconto epistolario scritto da C.S. Lewis e pubblicato la prima volta nel 1942.

Funzionario di Satana di lunga esperienza e grande efficienza, Berlicche invia al giovane nipote Malacoda, diavolo apprendista, una serie di lettere per istruirlo nell’arte di conquistare (e dannare) il suo “paziente”. Ogni manifestazione della vita, dal pensiero alla preghiera, dall’amore all’amicizia, dal divertimento alla vita sociale, dal piacere al lavoro e alla guerra: tutto viene distorto a scopo diabolico e diventa un espediente per perdere gli uomini. Il libro è molto corto – poco più di un centinaio di pagine – e si presenta come un epistolario di Berlicche, diavolo di lunga data, a dialogo con il giovane nipote Malacoda. Dello scambio, come si intuisce dal titolo, noi abbiamo solo la parte di Berlicche. Lewis per non far perdere l’orientamento al lettore apre ogni lettera di Berlicche facendo fare al diavolo un piccolo riassunto di quanto ricevuto dal nipote Malacoda. Un buon espediente per rendere il filo narrativo più lineare. Prima delle lettere troviamo una premessa in cui l’autore dichiara di non voler narrare le circostanze in cui ha ricevuto l’epistolario e coglie l’occasione per ricordare ai lettori che il Diavolo è bugiardo e li invita a non credere a Berlicche. Infine, afferma che le lettere non sono state messe in ordine cronologico quindi ci potrebbero essere delle incongruenze temporali. Nonostante la brevità del libro, Le lettere di Berlicche non sono facili da digerire. Le pagine sono pregne di elementi di filosofia, morale, etica e religione. Dio – o Il Nemico, come viene chiamato – è il cattivo della storia. Una divinità che non ha realmente a cuore gli uomini ma che, per come ha costruito il proprio “marketing”, ha fatto passare messaggi come Carità e misericordia. L’obiettivo di Berlicche è quello di crescere Malacoda come un abile diavolo in grado di perpetrare l’arte della tentazione e portare le sue vittime sulla cattiva (buona dal loro punto di vista) strada. Lo fa dando consigli e approfondendo i meccanismi non solo della mente umana ma anche di come funziona la tentazione stessa. Tenendo conto delle tematiche complesse, le lettere di Berlicche offrono una riflessione sull’uomo, sul peccato, sulla religione cristiano-cattolica. È un piccolo trattato nascosto sotto una modalità narrativa all’apparenza leggera ma che cela una profondità di contenuto difficile da ritrovare in altre opere di Clive Staples Lewis.

*Clive Staples Lewis nasce a Belfast, in Irlanda, il 29 novembre 1898. La sua carriera inizia dall’insegnamento della Lingua e Letteratura Inglese presso l’Università di Oxford, dove diviene amico intimo dello scrittore J.R.R. Tolkien, autore di Il Signore degli anelli. Con Tolkien e altri (tra cui anche Charles Williams) fonda il circolo informale letterario degli “Inklings”. C.S. Lewis non è solo conosciuto per la serie di Le Cronache di Narnia (composta da 7 libri), ma anche per i suoi libri di riflessione religiosa: Il Cristianesimo così com’è e Sorpreso dalla gioia. Sempre sulla scia del fantasy, C.S. Lewis realizza una trilogia, scritta tra il 1938 e il 1945, composta dai volumi Lontano dal pianeta silenzioso, Perelandra e Quell’orribile forza. Clive Staples Lewis muore a Oxford il 22 novembre 1963.

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The family in the modern world, as much as and perhaps more than any other institution, has been beset by the many profound and rapid changes that have affected society and culture. Many families are living this situation in fidelity to those values that constitute the foundation of the institution of the family. Others have become uncertain and bewildered over their role or even doubtful and almost unaware of the ultimate meaning and truth of conjugal and family life. Finally, there are others who are hindered by various situations of injustice in the realization of their fundamental rights [Familiaris Consortio n.1]
La famiglia nei tempi odierni è stata, come e forse più di altre istituzioni, investita dalle ampie, profonde e rapide trasformazioni della società e della cultura. Molte famiglie vivono questa situazione nella fedeltà a quei valori che costituiscono il fondamento dell'istituto familiare. Altre sono divenute incerte e smarrite di fronte ai loro compiti o, addirittura, dubbiose e quasi ignare del significato ultimo e della verità della vita coniugale e familiare. Altre, infine, sono impedite da svariate situazioni di ingiustizia nella realizzazione dei loro fondamentali diritti [Familiaris Consortio n.1]
"His" in a very literal sense: the One whom only the Son knows as Father, and by whom alone He is mutually known. We are now on the same ground, from which the prologue of the Gospel of John will later arise (Pope John Paul II)
“Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni (Papa Giovanni Paolo II)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)
But what moves me even more strongly to proclaim the urgency of missionary evangelization is the fact that it is the primary service which the Church can render to every individual and to all humanity [Redemptoris Missio n.2]
Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità [Redemptoris Missio n.2]
That 'always seeing the face of the Father' is the highest manifestation of the worship of God. It can be said to constitute that 'heavenly liturgy', performed on behalf of the whole universe [John Paul II]
Quel “vedere sempre la faccia del Padre” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio. Si può dire che essa costituisce quella “liturgia celeste”, compiuta a nome di tutto l’universo [Giovanni Paolo II]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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