Il nostro sguardo va al quadro di Giulio Romano, sopra all’altare maggiore di questa Chiesa: esso presenta la Sacra Famiglia, con Giovanni il Battista ancora piccolo, l’Apostolo Giacomo e l’Evangelista Marco, questi ultimi già adulti.
Il Battista indica vivacemente con la sinistra il Bambino Gesù, rappresentato nella sua debolezza infantile. Alla domanda dei familiari e dei vicini di Elisabetta e di Zaccaria: “Cosa ne sarà di questo bambino?” il quadro sembra darci questa risposta: Giovanni il Battista indica con tutto il suo atteggiamento Gesù al visitatore Giacomo che gli è vicino; si inchina profondamente nella consapevolezza della sua piccolezza: Non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo a colui che viene dopo di me, ma che è prima di me. Questa parola non ha nulla a che vedere con una falsa umiltà. Il Battista è troppo retto, troppo sobrio per questo. Ha certamente riconosciuto l’impotenza umana meglio della maggior parte degli uomini.
Il predicatore della penitenza che interpella gli uomini nel loro intimo, che li scuote nelle loro certezze e li trasforma, li strappa dalla superficialità di un atteggiamento materialistico puramente terreno, appartiene ancora all’Antica Alleanza, è solo colui che indica la via verso il Regno di Dio; e questo Regno di Dio è vicino, si ode la voce di colui che chiama nel deserto. L’umiltà del Battista è autentica. Ma Dio ha esaltato la piccolezza del Battista con la grandezza del compito affidatogli, anzi, lo aveva già esaltato nel grembo di sua madre: prima ancora di nascere, era infatti già “rinato” dallo Spirito di Cristo. La grandezza umana è niente in confronto alla piccolezza che è chiamata a partecipare della grandezza e della santità di Dio.
Per noi sacerdoti, Giovanni è un modello. Non cerca niente per sé, ma tutto per colui che ora addita. Il bambino rappresenta già in certo qual modo la parola trasmessaci nel quarto Vangelo: “Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3, 30). Giovanni doveva condurre gli uomini a Gesù e rendere testimonianza […]
Giovanni e la storia della sua vita sono come una diapositiva sulla quale sono indicati un nome e una verità. Resta oscura finché una fonte luminosa non viene accesa dietro ad essa. Così dice il Vangelo di Giovanni: “Egli non era la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce” (Gv 1, 8). La luce di Dio è determinante nella sua vita e nella sua missione. Per la sua luce noi diventiamo veggenti, per riconoscere la volontà di Dio. Questa è spesso contraria ai nostri desideri e alla nostra propria volontà. Quando si trattò di dare un nome al neonato Giovanni in occasione della sua circoncisione, era determinante la tradizione: avrebbe ricevuto il nome del padre. Ma Elisabetta decise altrimenti. Conosceva la volontà di Dio e diede al bambino il nome di “Giovanni”, che significa “Dio si dimostra misericordioso”.
Perché dovrebbe essere stato così solo allora?
Tutti possiamo sperimentare nella vita la potenza e la bontà di Dio, quando abbiamo fiducia in lui e ci sforziamo seriamente di compiere la sua volontà. Ma questo richiede da noi umiltà e la consapevolezza che l’uomo non possiede la misura di tutte le cose. Non possiamo considerarci come metro di ogni pensiero, di ogni morale e di ogni diritto. Cediamo troppo facilmente alla convinzione che tutto possa essere fatto, il cielo come la terra, anzi l’uomo stesso, sempre secondo la nostra propria immagine e somiglianza.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia s. Maria dell’Anima 24 giugno 1990]