Quando, di qualcuno, si dice che è una persona dalla doppia vita, non è per farle un complimento. Anzi. Sono quelle persone che irritano, fanno indignare, o che spesso anche causano disgusto con comportamenti che contraddicono le cose che, invece, sostengono a parole. Che si tratti di un politico o di un vicino di casa fa poca differenza: scoprire, per così dire, una “doppia vita”, è un qualcosa che fa sempre male. E non parliamo della disillusione che può generare, soprattutto nei giovani.
Ma se il predicare bene e il razzolare male è sempre una cosa irritante, quando a farlo è un prete la cosa è ancora più intollerabile. Perché c'è in ballo qualche cosa di più. Papa Francesco l'ha detto molto chiaramente, e come sempre con uno stile molto diretto ed efficace, qualche giorno fa. Quando, nella omelia della Messa mattutina a Santa Marta, ha sottolineato come «è brutto vedere pastori di doppia vita», anzi è una vera e propria «ferita nella Chiesa». Per il Papa sono «pastori ammalati, che hanno perso l'autorità e vanno avanti in questa doppia vita»; e, ha aggiunto, «ci sono tanti modi di portare avanti la doppia vita: ma è doppia ... E Gesù è molto forte con loro. Non solo dice alla gente di non ascoltarli ma di non fare quello che fanno, ma a loro cosa dice? “Voi siete sepolcri imbiancati”: bellissimi nella dottrina, da fuori. Ma dentro, putredine. Questa è la fine del pastore che non ha vicinanza con Dio nella preghiera e con la gente nella compassione».
Perché è questo appunto che fa la differenza. Francesco lo ribadisce con fermezza: «Quello che a un pastore dà autorità o risveglia l'autorità che è data dal Padre, è la vicinanza: vicinanza a Dio nella preghiera e la vicinanza alla gente. Il pastore staccato dalla gente non arriva alla gente con il messaggio. Vicinanza, questa doppia vicinanza. Questa è l'unzione del pastore che si commuove davanti al dono di Dio nella preghiera, e si può commuovere davanti ai peccati, al problema, alle malattie della gente: lascia commuovere il pastore. Gli scribi... avevano perso la “capacità” di commuoversi proprio perché “non erano vicini né alla gente né a Dio”". E senza questa vicinanza, o quando per qualsivoglia motivo la si perde, «il pastore finisce nell'incoerenza di vita».
Sembra di rileggere le parole che Giovanni Paolo II, nella lettera del giovedì santo indirizzata ai sacerdoti di tutto il mondo nel 1986, dedicò al Santo curato d'Ars tornando a indicarlo, nel secondo centenario della nascita, come esempio per tutti i preti. «Non si tratta certo di dimenticare – ha scritto a sua volta Benedetto XVI, sempre a proposito di San Giovanni Maria Vianney, nella lettera di indizione dell'Anno sacerdotale del 2009 – che l'efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall'incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro. Il Curato d'Ars iniziò subito quest'umile e paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del ministero a lui affidato, decidendo di “abitare” perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale: “Appena arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima dell'aurora e non ne usciva che dopo l'Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si aveva bisogno di lui”, si legge nella prima biografia». Coerenza, dunque. Non doppiezza. Perché di tutto il popolo di Dio ha bisogno, tranne che di sepolcri imbiancati.
[Papa Francesco, s. Marta; Salvatore Mazza in Avvenire 13 gennaio 2018]