Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
(Mt 21,33-43.45)
Si tratta di una metafora continuata, più che di una parabola; quindi frutto di riflessione post-pasquale - vediamo perché.
Cristo introduce tutti in un cammino avventuroso, scomodante, non privo d’insidie che buttano all’aria la situazione e destabilizzano - ma è la Via perché ciascuno di noi si riconosca.
Non ci riavvicineremmo altrimenti alla Fonte della percezione, dell’immaginazione, della realtà e della creatività - virtù che si rendono necessarie per la rinascita, anche dall’emergenza globale.
Gesù ricorre all’immagine della Vigna per descrivere l’opera di Dio e la risposta degli uomini - anzitutto delle guide spirituali (v.23).
I capi religiosi antichi erano così: ostili all’azione divina; attrezzati nel sembrare, ciononostante violenti e sclerotici.
I direttori cui Gesù si rivolge seguono l’intera metafora passo passo - sembra si trovino sguarniti - e rimangono a bocca aperta solo alla fine.
Come mai li interpella in modo imperativo: «Ascoltate» [che non è un semplice invito]?
Sin dall’inizio parla con tono da padrone. Perché?
Egli è Signore di coloro cui in realtà si rivolge: il Cristo tanto invocato dalla nuova casta dei “farisei” di ritorno nelle sue assemblee, dove già i primi della classe pretendevano gestire la Vigna a modo proprio.
Senza mezzi termini la parabola denuncia l’abuso di autorità perpetrato nelle fraternità di terza generazione, in specie da parte dei loro responsabili.
Anziani di chiesa che già avevano fastidio di occuparsi della gente minuta che si presentava alla soglia delle comunità con la speranza di essere accolta.
Viceversa erano proprio questi «ultimi» i nuovi profeti chiamati da Dio a svegliare la situazione d’immobilismo (dei reduci) - paragonabile alla medesima realtà paludosa di altre religioni d’allora.
In tal guisa, procediamo a una possibile identificazione:
La siepe o muretto che circonda la Vigna è la proposta che Dio ha rivelato per proteggerci da altri modelli di vita [paradigmi non di Fede], insensati e autodistruttivi.
Il frantoio sta a dire: non mancava nulla [il Signore ne ha avuto massima cura], ed anche l’attesa del tempo della gioia, del succo d’amore.
Insomma: condizioni ottime e risultato abbondante; massima produzione d’ebbrezza - ci si attenderebbe. Però...
I vignaioli sono le autorità costituite. Esse hanno ricevuto il compito di collocarci nella posizione migliore e nei presupposti adatti per la nostra crescita e fioritura.
Infatti, nelle condizioni ideali ciascuno può produrre il frutto d’amore che il “padrone del campo” si attende.
I due gruppi d’inviati sono profeti mandati dal Padre prima e dopo l’esilio babilonese - invano - per richiamare all’adesione concreta, alla fedeltà al Patto.
Tutti finiti male, perché il punto di riferimento della gente devota e delle guide irresponsabili permaneva identico: l’appropriarsi.
Ecco i diversi gruppi al potere al tempo di Gesù:
Gli addetti alle attività del Tempio [sacerdoti] gestivano le decime, le tasse specifiche, le offerte.
Il sommo sacerdote era scelto fra i membri delle famiglie dell’aristocrazia che ostentavano più potere e ricchezza.
I Sadducei erano appunto l’élite aristocratica; per sé laici, assai ricchi. Essi volentieri si coinvolgevano nei commerci anche del Tempio, e nel latifondo.
Farisei erano i leaders della religiosità popolare, i quali propugnavano il rispetto totale della Legge, in specie delle norme di purità. E anche quello delle diverse Tradizioni, perfino orale.
La loro autorità etica era fondata sulla esemplarità e sul senso di separazione sacrale [e moralista]. Esemplarità sentita e riconosciuta in ogni villaggio della Palestina.
Gli “Anziani” erano Capi del popolo (autorità locali, di villaggi o cittadine); discendenti dei capi delle antiche tribù.
Scribi [dottori della legge] erano coloro che dopo una vita di studio della Parola di Dio venivano elevati al rango di teologi ufficiali del Sinedrio.
Sebbene divisi in due sette - una favorevole ai Sadducei, l’altra ai Farisei - il loro prestigio riusciva perfino ad oscurare la lettera della Torah. Infatti, in caso di dissidio tra Legge e loro interpretazione, era quest’ultima che veniva stimata superiore.
Gesù invece screditava i dotti, che volentieri falsavano e sofisticavano il senso delle sacre Scritture - sempre a proprio vantaggio.
Sapeva bene che la sua attività di denuncia gli sarebbe costata la vita, perché smascherava tutto il sistema di guadagno, equilibri e posizioni.
Tuttavia non ha mai arretrato di un millimetro.
Dappertutto e anche oggi alcuni potentati discriminano e manipolano le coscienze per tutelare le loro provvigioni e il proprio farsesco mondo di pubbliche e private relazioni.
Malgrado tutto il fuoco d’interdizione perbenista e di maniera, spesso facendo fuori il Gesù Presente che si ripropone nei piccoli, innocenti e trasparenti.
Viceversa gli amministratori supremi della Casa di Dio devono assumere un atteggiamento di servizio alla Vigna; non tracciare piani di vita propri, cui devono adattarsi tutti - Padre compreso.
È per questo motivo che il Figlio pretendeva smontare quella compagine: addirittura soppiantare il Tempio, con la sua Persona viva.
Un’autentica minaccia mortale per il sistema che ormai non sopportava neppure l’ingerenza di Dio stesso.
Ma se era irriverente sostituire la vita del popolo al santuario di pietra, sembrava pure sacrilego considerare transitorio il regime della Torah.
Il Pentateuco era il fulcro dell’identità della “gente eletta”. Tale idea era interpretata con rigido senso di permanenza - sebbene la sua pratica non procurasse felicità, bensì insoddisfazione.
Eppure i veterani abituati a situazioni piramidali - e a dirigere - neppure s’accorgevano di decretare così la loro stessa condanna (v.41).
Beninteso, Cristo non intende ridicolizzare nessuno: Egli vuol portare le persone a interrogarsi, e dire la verità su se stesse.
Nel Vangelo il comportamento dei titolati della devozione ufficiale non cambia, anzi sentendosi smascherati, peggiora.
Solo la remora di perdere la faccia in pubblico può frenarli (vv.45-46).
Ma ora sanno chi sono, tanto da vergognarsi di tramare apertamente.
Le categorie “al centro”, che si ritengono più vicine al Cielo e per questo detentori di potere (che esigono per sé), sono assiduamente quelle che producono uva immangiabile.
Cerchie escluse dalla testimonianza del Regno.
Le forze attempate sanno solo osteggiare. I dirigenti a vita - zucche pretenziose - amano sempre il comando, e (troppo) il loro interesse, non quello della folla minuta.
Purtroppo il passo di Vangelo è un affresco dell’intera storia della salvezza, ove non di rado prevale il disdegno - ed è attuale.
Ci sarà giocoforza un nuovo inizio, e la sostituzione dei coloni inetti (v.43).
È «lieta notizia»: l’Eterno raggiunge il suo scopo malgrado i ripetuti rifiuti di chi dovrebbe rappresentarlo, e invece lo usa. Non avendo alcun frutto d’amore da restituire.
Insomma, è la nostra vicenda. Enigma della redenzione, in grado di assumere in seno perfino violenze e ribellioni.
Per Gesù non esiste un’etnia o una civiltà privilegiati - perché il grande nemico di Dio non è il peccato nel senso dell’imperfezione, bensì la convenienza.
Tornaconto che fa il paio col disinteresse e il disprezzo (interessato): problema che ritorna - chiudendo la storia.
Eppure, quando i giorni di fervore si spengono e la situazione si arena a causa di chi vede l’elezione come privilegio anziché un servizio, ecco incessantemente sopraggiungere nuovi e più fedeli Araldi dello Spirito. Pronti alla successione delle menti e dei cuori, pur fra brutalità ingenerose, e accuse di essere dei sognatori illusi.
Un corso inarrestabile, irrorato dal ruscello di sangue dei profeti (v.46).
Reietti, depennati, espulsi e da stritolare - ma non chiusi dentro schemi mentali superati: in grado di dare campo libero a energie rigeneranti.
Coscienza del mondo, avulsi dal compromesso.
La […] pagina del Vangelo secondo Matteo, [propone] alla nostra assemblea liturgica una suggestiva immagine allegorica della Sacra Scrittura: l’immagine della vigna, di cui abbiamo già sentito parlare nelle domeniche precedenti. La pericope iniziale del racconto evangelico fa riferimento al "cantico della vigna" che troviamo in Isaia. Si tratta di un canto ambientato nel contesto autunnale della vendemmia: un piccolo capolavoro della poesia ebraica, che doveva essere assai familiare agli ascoltatori di Gesù e dal quale, come da altri riferimenti dei profeti (cfr Os 10,1; Ger 2,21; Ez 17,3-0; 19,10-14; Sal 79,9–17), si capiva bene che la vigna indicava Israele. Alla sua vigna, al popolo che si è scelto, Iddio riserva le stesse cure che uno sposo fedele prodiga alla sua sposa (cfr Ez 16,1-14; Ef 5,25-33).
L’immagine della vigna, insieme a quella delle nozze, descrive dunque il progetto divino della salvezza, e si pone come una commovente allegoria dell’alleanza di Dio con il suo popolo. Nel Vangelo, Gesù riprende il cantico di Isaia, ma lo adatta ai suoi ascoltatori e alla nuova ora della storia della salvezza. L’accento non è tanto sulla vigna quanto piuttosto sui vignaioli, ai quali i "servi" del padrone chiedono, a suo nome, il canone di affitto. I servi però vengono maltrattati e persino uccisi. Come non pensare alle vicende del popolo eletto e alla sorte riservata ai profeti inviati da Dio? Alla fine, il proprietario della vigna compie l’ultimo tentativo: manda il proprio figlio, convinto che ascolteranno almeno lui. Accade invece il contrario: i vignaioli lo uccidono proprio perché è il figlio, cioè l’erede, convinti di potersi così impossessare facilmente della vigna. Assistiamo pertanto ad un salto di qualità rispetto all’accusa di violazione della giustizia sociale, quale emerge dal cantico di Isaia. Qui vediamo chiaramente come il disprezzo per l’ordine impartito dal padrone si trasformi in disprezzo verso di lui: non è la semplice disubbidienza ad un precetto divino, è il vero e proprio rigetto di Dio: appare il mistero della Croce.
Quanto denuncia la pagina evangelica interpella il nostro modo di pensare e di agire. Non parla solo dell’"ora" di Cristo, del mistero della Croce in quel momento, ma della presenza della Croce in tutti i tempi. Interpella, in modo speciale, i popoli che hanno ricevuto l’annuncio del Vangelo. Se guardiamo la storia, siamo costretti a registrare non di rado la freddezza e la ribellione di cristiani incoerenti. In conseguenza di ciò, Dio, pur non venendo mai meno alla sua promessa di salvezza, ha dovuto spesso ricorrere al castigo. E’ spontaneo pensare, in questo contesto, al primo annuncio del Vangelo, da cui scaturirono comunità cristiane inizialmente fiorenti, che sono poi scomparse e sono oggi ricordate solo nei libri di storia. Non potrebbe avvenire la stessa cosa in questa nostra epoca? Nazioni un tempo ricche di fede e di vocazioni ora vanno smarrendo la propria identità, sotto l’influenza deleteria e distruttiva di una certa cultura moderna. Vi è chi, avendo deciso che "Dio è morto", dichiara "dio" se stesso, ritenendosi l’unico artefice del proprio destino, il proprietario assoluto del mondo. Sbarazzandosi di Dio e non attendendo da Lui la salvezza, l’uomo crede di poter fare ciò che gli piace e di potersi porre come sola misura di se stesso e del proprio agire. Ma quando l’uomo elimina Dio dal proprio orizzonte, dichiara Dio "morto", è veramente più felice? Diventa veramente più libero? Quando gli uomini si proclamano proprietari assoluti di se stessi e unici padroni del creato, possono veramente costruire una società dove regnino la libertà, la giustizia e la pace? Non avviene piuttosto - come la cronaca quotidiana dimostra ampiamente – che si estendano l’arbitrio del potere, gli interessi egoistici, l’ingiustizia e lo sfruttamento, la violenza in ogni sua espressione? Il punto d’arrivo, alla fine, è che l’uomo si ritrova più solo e la società più divisa e confusa.
Ma nelle parole di Gesù vi è una promessa: la vigna non sarà distrutta. Mentre abbandona al loro destino i vignaioli infedeli, il padrone non si distacca dalla sua vigna e l’affida ad altri suoi servi fedeli. Questo indica che, se in alcune regioni la fede si affievolisce sino ad estinguersi, vi saranno sempre altri popoli pronti ad accoglierla. Proprio per questo Gesù, mentre cita il Salmo 117 [118]: "La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo" (v. 22), assicura che la sua morte non sarà la sconfitta di Dio. Ucciso, Egli non resterà nella tomba, anzi, proprio quella che sembrerà essere una totale disfatta, segnerà l’inizio di una definitiva vittoria. Alla sua dolorosa passione e morte in croce seguirà la gloria della risurrezione. La vigna continuerà allora a produrre uva e sarà data in affitto dal padrone "ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo" (Mt 21,41).
L’immagine della vigna, con le sue implicazioni morali, dottrinali e spirituali, ritornerà nel discorso dell’Ultima Cena, quando, congedandosi dagli Apostoli, il Signore dirà: "Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto" (Gv 15,1-2). A partire dall’evento pasquale la storia della salvezza conoscerà dunque una svolta decisiva, e ne saranno protagonisti quegli "altri contadini" che, innestati come scelti germogli in Cristo, vera vite, porteranno frutti abbondanti di vita eterna (cfr Orazione colletta). Tra questi "contadini" ci siamo anche noi, innestati in Cristo, che volle divenire Egli stesso la "vera vite". Preghiamo che il Signore che ci dà il suo sangue, Se stesso, nell’Eucaristia, ci aiuti a "portare frutto" per la vita eterna e per questo nostro tempo.
Il consolante messaggio che raccogliamo da questi testi biblici è la certezza che il male e la morte non hanno l’ultima parola, ma a vincere alla fine è Cristo. Sempre! La Chiesa non si stanca di proclamare questa Buona Novella, come avviene anche quest’oggi, in questa Basilica dedicata all’Apostolo delle genti, che per primo diffuse il Vangelo in vaste regioni dell’Asia minore e dell’Europa. Rinnoveremo in modo significativo questo annuncio durante la XII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che ha come tema: "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa". Vorrei qui salutare con affetto cordiale tutti voi, venerati Padri sinodali, e quanti prendete parte a questo incontro come esperti, uditori e invitati speciali. Sono lieto inoltre di accogliere i Delegati fraterni delle altre Chiese e Comunità ecclesiali. Al Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi ed ai suoi collaboratori va l’espressione della riconoscenza di tutti noi per l’impegnativo lavoro svolto in questi mesi, insieme con un augurio per le fatiche che li attendono nelle prossime settimane.
Quando Dio parla, sollecita sempre una risposta; la sua azione di salvezza richiede l’umana cooperazione; il suo amore attende corrispondenza. Che non debba mai accadere, cari fratelli e sorelle, quanto narra il testo biblico a proposito della vigna: "Aspettò che producesse uva, produsse, invece, acini acerbi" (cfr Is 5,2). Solo la Parola di Dio può cambiare in profondità il cuore dell’uomo, ed è importante allora che con essa entrino in una intimità sempre crescente i singoli credenti e le comunità. L’Assemblea sinodale volgerà la sua attenzione a questa verità fondamentale per la vita e la missione della Chiesa. Nutrirsi della Parola di Dio è per essa il compito primo e fondamentale. In effetti, se l’annuncio del Vangelo costituisce la sua ragione d’essere e la sua missione, è indispensabile che la Chiesa conosca e viva ciò che annuncia, perché la sua predicazione sia credibile, nonostante le debolezze e le povertà degli uomini che la compongono. Sappiamo, inoltre, che l’annuncio della Parola, alla scuola di Cristo, ha come suo contenuto il Regno di Dio (cfr Mc 1,14-15), ma il Regno di Dio è la stessa persona di Gesù, che con le sue parole e le sue opere offre la salvezza agli uomini di ogni epoca. Interessante è al riguardo la considerazione di san Girolamo: "Colui che non conosce le Scritture, non conosce la potenza di Dio né la sua sapienza. Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo" (Prologo al commento del profeta Isaia: PL 24,17).
In questo Anno Paolino sentiremo risuonare con particolare urgenza il grido dell’Apostolo delle genti: "Guai a me se non predicassi il Vangelo" (1 Cor 9,16); grido che per ogni cristiano diventa invito insistente a porsi al servizio di Cristo. "La messe è molta" (Mt 9,37), ripete anche oggi il Divin Maestro: tanti non Lo hanno ancora incontrato e sono in attesa del primo annuncio del suo Vangelo; altri, pur avendo ricevuto una formazione cristiana, si sono affievoliti nell’entusiasmo e conservano con la Parola di Dio un contatto soltanto superficiale; altri ancora si sono allontanati dalla pratica della fede e necessitano di una nuova evangelizzazione. Non mancano poi persone di retto sentire che si pongono domande essenziali sul senso della vita e della morte, domande alle quali solo Cristo può fornire risposte appaganti. Diviene allora indispensabile per i cristiani di ogni continente essere pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in loro (cfr 1 Pt 3,15), annunciando con gioia la Parola di Dio e vivendo senza compromessi il Vangelo.
[Papa Benedetto, omelia apertura XII Sinodo dei Vescovi 5 ottobre 2008]
1. Quando il cristiano, in sintonia con la voce orante di Israele, canta il Salmo 117 che abbiamo appena sentito risuonare, prova dentro di sé un fremito particolare. Egli trova, infatti, in questo inno di forte impronta liturgica due frasi che echeggeranno all’interno del Nuovo Testamento con una nuova tonalità. La prima è costituita dal v. 22: "La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo". Questa frase è citata da Gesù, che la applica alla sua missione di morte e di gloria, dopo aver narrato la parabola dei vignaioli omicidi (cfr Mt 21, 42). La frase è richiamata anche da Pietro negli Atti degli Apostoli: "Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (At 4, 11-12). Commenta Cirillo di Gerusalemme: "Uno solo diciamo il Signore Gesù Cristo, affinché la filiazione sia unica; uno solo diciamo, perché tu non pensi che ve ne sia un altro… Infatti è chiamato pietra, non inanimata né tagliata da mani umane, ma pietra angolare, perché colui che avrà creduto in essa non rimarrà deluso" (Le Catechesi, Roma 1993, pp. 312-313).
La seconda frase che il Nuovo Testamento desume dal Salmo 117 è proclamata dalla folla nel solenne ingresso messianico di Cristo in Gerusalemme: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore!" (Mt 21, 9; cfr Sal 117, 26). L’acclamazione è incorniciata da un "Osanna" che riprende l’invocazione ebraica hoshiac na’, "deh, salvaci!".
2. Questo splendido inno biblico è collocato all’interno della piccola raccolta di Salmi, dal 112 al 117, detta lo "Hallel pasquale", cioè la lode salmica usata dal culto ebraico per la Pasqua e anche per le principali solennità dell’anno liturgico. Il filo conduttore del Salmo 117 può essere considerato il rito processionale, scandito forse da canti per il solista e per il coro, sullo sfondo della città santa e del suo tempio. Una bella antifona apre e chiude il testo: "Celebrate il Signore perché è buono, eterna è la sua misericordia" (vv. 1.29).
La parola "misericordia" traduce la parola ebraica hesed, che designa la fedeltà generosa di Dio nei confronti del suo popolo alleato e amico. A cantare questa fedeltà sono coinvolte tre categorie di persone: tutto Israele, la "casa di Aronne", cioè i sacerdoti, e "chi teme Dio", una locuzione che indica i fedeli e successivamente anche i proseliti, cioè i membri delle altre nazioni desiderosi di aderire alla legge del Signore (cfr vv. 2-4).
3. La processione sembra snodarsi per le vie di Gerusalemme, perché si parla delle "tende dei giusti" (cfr v. 15). Si leva, comunque, un inno di ringraziamento (cfr vv. 5-18), il cui messaggio è essenziale: anche quando si è nell’angoscia bisogna conservare alta la fiaccola della fiducia, perché la mano potente del Signore conduce il suo fedele alla vittoria sul male e alla salvezza.
Il poeta sacro usa immagini forti e vivaci: gli avversari crudeli sono paragonati ad uno sciame d’api o a un fronte di fiamme che avanza riducendo tutto in cenere (cfr v. 12). Ma la reazione del giusto, sostenuto dal Signore, è veemente; per tre volte si ripete: "Nel nome del Signore li ho sconfitti" e il verbo ebraico evidenzia un intervento distruttivo nei confronti del male (cfr vv. 10.11.12). Alla radice, infatti, c’è la destra potente di Dio, cioè la sua opera efficace, e non certo la mano debole e incerta dell’uomo. Ed è per questo che la gioia per la vittoria sul male si apre ad una professione di fede molto suggestiva: "Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza" (v. 14).
4. La processione sembra essere giunta al tempio, alle "porte della giustizia" (v. 19), cioè alla porta santa di Sion. Qui si intona un secondo canto di ringraziamento, che è aperto da un dialogo tra l’assemblea e i sacerdoti per essere ammessi al culto. "Apritemi le porte della giustizia: entrerò a rendere grazie al Signore", dice il solista a nome dell’assemblea processionale. "È questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti" (v. 20), rispondono altri, probabilmente i sacerdoti.
Una volta entrati si può dar voce all’inno di gratitudine al Signore, che nel tempio si offre come "pietra" stabile e sicura su cui edificare la casa della vita (cfr Mt 7, 24-25). Una benedizione sacerdotale scende sui fedeli, che sono entrati nel tempio per esprimere la loro fede, elevare la loro preghiera e celebrare il culto.
5. L’ultima scena che si apre davanti ai nostri occhi è costituita da un rito gioioso di danze sacre, accompagnate da un festoso agitare di fronde: "Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare" (v. 27). La liturgia è gioia, incontro di festa, espressione dell’intera esistenza che loda il Signore. Il rito delle fronde fa pensare alla solennità ebraica delle Capanne, memoria del pellegrinaggio di Israele nel deserto, solennità nella quale si compiva una processione con rami di palme, mirto e salice.
Questo stesso rito evocato dal Salmo si ripropone al cristiano nell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, celebrato nella liturgia della Domenica delle Palme. Cristo è osannato come "figlio di Davide" (cfr Mt 21, 9) dalla folla che, "venuta per la festa… prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!" (Gv 12, 12-13). In quella celebrazione festosa che, però, prelude all’ora della passione e morte di Gesù, si attua e comprende in senso pieno anche il simbolo della pietra angolare, proposto in apertura, acquisendo un valore glorioso e pasquale.
Il Salmo 117 rincuora i cristiani a riconoscere nell’evento pasquale di Gesù "il giorno fatto dal Signore", in cui "la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo". Col Salmo essi possono quindi cantare pieni di gratitudine: "Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza" (v. 14); "Questo è il giorno fatto dal Signore, rallegriamoci ed esultiamo in esso" (v. 24).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 5 dicembre 2001]
Nel Vangelo di oggi (cfr Mt 21,33-43) Gesù, prevedendo la sua passione e morte, racconta la parabola dei vignaioli omicidi, per ammonire i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo che stanno per prendere una strada sbagliata. Questi, infatti, nutrono intenzioni cattive nei suoi confronti e cercano il modo di eliminarlo.
Il racconto allegorico descrive un padrone che, dopo aver molto curato la sua vigna (cfr v. 33), dovendo partire la affida a dei contadini. Poi, al tempo del raccolto, manda dei servi a ritirare i frutti; ma quei vignaioli accolgono i servi a bastonate e alcuni addirittura li uccidono. Il padrone invia altri servi, più numerosi, che però ricevono lo stesso trattamento (cfr vv. 34-36). Il colmo si raggiunge quando il padrone decide di mandare il suo figlio: i vignaioli non ne hanno alcun rispetto, anzi, pensano che eliminandolo potranno impadronirsi della vigna, e così uccidono anche lui (cfr vv. 37-39).
L’immagine della vigna è chiara: rappresenta il popolo che il Signore si è scelto e ha formato con tanta cura; i servi mandati dal padrone sono i profeti, inviati da Dio, mentre il figlio è figura di Gesù. E come furono rifiutati i profeti, così anche il Cristo è stato respinto e ucciso.
Al termine del racconto, Gesù domanda ai capi del popolo: «Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a questi contadini?» (v. 40). Ed essi, presi dalla logica della narrazione, pronunciano da sé stessi la propria condanna: il padrone – dicono – punirà severamente quei malvagi e affiderà la vigna «ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo» (v. 41).
Con questa parabola molto dura, Gesù mette i suoi interlocutori di fronte alla loro responsabilità, e lo fa con estrema chiarezza. Ma non pensiamo che questo ammonimento valga solo per quelli che rifiutarono Gesù in quel tempo. Vale per ogni tempo, anche per il nostro. Anche oggi Dio aspetta i frutti della sua vigna da coloro che ha inviato a lavorare in essa. Tutti noi.
In ogni epoca, coloro che hanno un’autorità, qualsiasi autorità, anche nella Chiesa, nel popolo di Dio, possono essere tentati di fare i propri interessi, invece di quelli di Dio stesso. E Gesù dice che la vera autorità è quando si fa il servizio, è nel servire, non sfruttare gli altri. La vigna è del Signore, non nostra. L’autorità è un servizio, e come tale va esercitata, per il bene di tutti e per la diffusione del Vangelo. È brutto vedere quando nella Chiesa le persone che hanno autorità cercano i propri interessi.
San Paolo, nella seconda Lettura della liturgia odierna, ci dice come essere buoni operai della vigna del Signore: quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato; ciò che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto quotidiano del nostro impegno (cfr Fil 4,8). Ripeto: quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato; ciò che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto quotidiano del nostro impegno. È l’atteggiamento dell’autorità e anche di ognuno di noi, perché ognuno di noi, nel suo piccolo, ha una certa autorità. Diventeremo così una Chiesa sempre più ricca di frutti di santità, daremo gloria al Padre che ci ama con infinita tenerezza, al Figlio che continua a donarci la salvezza, allo Spirito che ci apre il cuore e ci spinge verso la pienezza del bene.
Ci rivolgiamo ora a Maria Santissima, spiritualmente uniti ai fedeli radunati nel Santuario di Pompei per la Supplica, e nel mese di ottobre rinnoviamo l’impegno di pregare il santo Rosario.
[Papa Francesco, Angelus 4 ottobre 2020]
Soluzione esterna?
(Lc 16,19-31)
Il Vangelo di oggi solleva una questione di apparente ovvietà: non è forse nell’ordine naturale delle cose che nell’umana società ci siano primi e ultimi, dotti e ignoranti, principi e sudditi?
Anche Leone XIII, papa delle Encicliche sociali, riconosceva che «nella società umana è secondo l'ordine stabilito da Dio che vi siano principi e sudditi, padroni e proletari, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, nobili e plebei; obbligo di carità dei ricchi e dei possidenti è quello di sovvenire ai poveri e agli indigenti» [mentalità d'un peccato di omissione: basta che poi facciano la “carità”].
La posizione del Signore è molto molto diversa.
Per Lc il ricco non è il benedetto da Dio, come pur venivano considerati i patriarchi del Primo Testamento.
Il suo vestiario ricercato è solo metafora del vuoto interiore e dell’effimero di cui si bea. Ciò che poi sarà corroso da tarme.
Il suo ingozzarsi è segno d’un abisso intimo da colmare - una sorta di fame nervosa.
«Eli hezer»: Dio aiuta; non si dimentica, anzi sta decisamente dalla parte del malfermo. Pertanto, il suo “godersi la vita” è rinunciare a vivere completamente.
L’evangelista non precisa che Lazzaro era stato una persona buona e responsabile: un povero e basta.
Neppure afferma che l’epulone fosse un delinquente totale: se l’indigente sostava fuori del suo uscio e non altrove significa che qualcosina lì rimediava.
Ma a quel tempo non c’erano posate e ci si puliva le dita con la mollica, poi gettata a terra; di ciò si cibavano i miserabili.
Una vita da cane, peggiore degli insulti. E ignorata.
Male radicale, che non era negli atti singoli, piuttosto nel fondo dell’essere, e nella conseguente sbadatezza globale.
Disattenzione che tende a scegliere il consenso e le gerarchie come sfondo ultimo dell’esistenza.
Dunque il quesito che il passo di Lc ribadisce non è banalmente moralistico: meriti o colpe, giuridiche o religiose.
La domanda si pone sull’umanità stessa: diminuita, ridotta, arida, inabile; incapace di scandire un rovesciamento deliberato.
Inestricabilmente legata agli abissi già scavati.
Il Vangelo vuole stimolarci a riflettere non sul tema dell’elemosina lecita, bensì sull’avvertenza, e Comunione delle risorse: sul senso della ricchezza sfrenata accanto alla povertà.
La miseria involontaria è spesso considerata situazione ormai d’abitudine, ma tale dramma incide sulle persone e su interi popoli.
E come distoglierci dalla seduzione dei beni?
Vincere le attrattive del denaro e la brama di accumulo che genera paralisi sociale e umiliazioni devastanti, è un vero miracolo.
E un miracolo di coscienza non può farlo né un prodigio, né una visione (vv.29-31).
Tantomeno una comune religione, se essa tendesse a sacralizzare e non interferire, a far permanere le posizioni; a farsi complice nel fabbricare poveri e ricchi, guadagnando su entrambi.
Insomma, per edificare il Regno e cambiare il mondo diviso, vale solo il lasciarsi educare dalla Parola di Dio.
Seme intimo e Germe, Terapia-evento, Verbo energico e Richiamo: che introduce nella consapevolezza attiva e sponsale dell’Amore.
Logos che ci colloca nella giusta posizione. Avvertimento unico; non esterno.
Eros fondante che già qui e ora rovescia le situazioni.
[Giovedì 2.a sett. Quaresima, 20 marzo 2025]
Soluzione esterna?
(Lc 16,19-31)
Il rovesciamento delle situazioni nell’aldilà è un tema appartenente a tutta la cultura del medio Oriente antico - area fortemente segnata dalle discriminazioni sociali. Ma il senso del Vangelo è profondo.
La nuova traduzione Cei ha reso correttamente il termine Ade (v.23) con «inferi», non più «inferno» [Cei ‘74] perché il senso della parabola di Gesù è tutto proteso sull’aldiquà!
Il “dietro le nuvole” non c’entra. Quel che interessa il Signore non è tanto la sorte finale, quanto la situazione attuale di coloro che lo ascoltano - a partire dai suoi stessi seguaci: dove stanno andando?
Nelle parabole della Misericordia e del Padre cedevole Lc (15,1-32) annunciava che un uomo perduto sarebbe una sconfitta di Dio stesso.
Il suo Volto rivelatosi inconsueto induce i primi della classe invidiosi a spiare la libertà che i nuovi di Chiesa si permettono.
“Chi vi ha autorizzato a considerarvi pari agli altri e insidiare le nostre precedenze, senza esservi sobbarcati l’intera trafila, l’impegno cocciuto e le fatiche di noi veterani?”.
I pagani hanno gioco facile (Lc 16,1-15): accusano i vecchi di nascondere il loro spirito d’inamovibile avidità sotto i malcelati panni degli “omaggi”, delle opere benemerite, e di necessità gerarchiche.
Facilmente i “migliori” vengono colti con le mani nel sacco, abituati come sono a riverire Dio per servire insieme tutt’altro padrone - ben nascosto.
Infatti dopo aver narrato la parabola dell’amministratore disonesto, Gesù stesso sente sghignazzare alle sue spalle (Lc 16,14) non i peccatori, bensì proprio la gente devota e bigotta.
Sono i furbetti dell’élite attaccati alle cose e amanti del denaro (vv.13-15) - abituati a esercitare quell’antico mestiere [facile, valutato di diritto dei capi religiosi]. Ciò che il Signore aveva definito incompatibile («abominazione»: v.15): riverire l’Altissimo e intascare il suo malloppo.
“Povero illuso!” - direbbero del nostro Maestro i mestieranti, falsi amici di Dio: “Impossibile fare seguaci senza bottino: il Gratis dell’amore è un bel sogno, ma non alza nulla, non ammucchia proseliti e non fa scattare l’istinto predatorio dei primi della classe!”.
Nel brano di Vangelo di oggi, coloro che si ritengono in diritto di precedenza [nella comunità dei figli!] sollevano una questione di apparente ovvietà:
Non è forse nell’ordine naturale delle cose che nell’umana società ci siano primi e ultimi, dotti e ignoranti, sovrani e sudditi?
In fondo, il principio giuridico che regolava tutto il diritto di proprietà privata nel mondo latino è anche il motto di un noto quotidiano ufficiale: Unicuique Suum.
Anche Leone XIII, papa delle Encicliche sociali, riconosceva che «nella società umana è secondo l'ordine stabilito da Dio che vi siano prìncipi e sudditi, padroni e proletari, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, nobili e plebei; obbligo di carità dei ricchi e dei possidenti è quello di sovvenire ai poveri e agli indigenti» [mentalità d'un peccato di semplice omissione: basta che poi facciano la “carità”].
La posizione del Signore è molto molto diversa. Per Lc il ricco non è il benedetto da Dio, come si supponeva fossero i possidenti - e così venivano considerati i patriarchi del Primo Testamento.
Il suo vestiario ricercato è solo metafora del vuoto interiore e dell’effimero di cui si bea - ciò che poi sarà corroso da tarme.
Il suo ingozzarsi è segno d’un abisso intimo da colmare - una sorta di fame nervosa, che percepisce vertigine.
«Eli hezer» [“Lazzaro”]: Dio aiuta, ma non l’epulone - secondo la mentalità pia, bacchettona e retriva.
Egli non dimentica; anzi, sta decisamente dalla parte del malfermo: la Fede crede il contrario delle religioni arcaiche!
Pertanto, il “godersi la vita” disattento dello straricco è rinunciare a vivere completamente: neppure ha nome - cosa terrificante per la mentalità antica.
L’evangelista non precisa che un tempo Lazzaro era forse stato una persona buona e responsabile: un povero e basta.
Neppure afferma che il gran signore fosse un delinquente totale: a parte la “cecità”... se l’indigente preferiva sostare fuori del suo uscio e non altrove, significa che qualcosina lì rimediava.
Ma a quel tempo non c’erano posate e ci si puliva le dita con la mollica del pane, poi gettata a terra; di ciò si cibavano i miserabili.
Una vita da cane, peggiore degli insulti. E ignorata.
Ecco il male radicale: che non era negli atti singoli, piuttosto nel fondo dell’essere, e nella conseguente sbadatezza globale.
Disattenzione che tende a scegliere il consenso e le gerarchie come sfondo ultimo dell’esistenza.
Dunque il quesito che il passo di Lc ribadisce non è banalmente moralistico: meriti o colpe, giuridiche o religiose.
La domanda si pone sull’umanità stessa: diminuita, ridotta, arida, inabile; incapace di scandire un rovesciamento deliberato.
Inestricabilmente legata agli abissi già scavati.
Il Vangelo vuole stimolarci a riflettere non sul tema dell’elemosina lecita, bensì sull’avvertenza, e Comunione delle risorse: sul senso della ricchezza sfrenata accanto alla povertà.
La miseria involontaria è spesso considerata situazione ormai d’abitudine, ma tale dramma incide sulle persone e su interi popoli - dalla nascita alla morte costretti in una realtà squilibrata, o impossibile da sostenere.
In molte aree, le disarmonie di ceto tendono persino ad aggravarsi, forse per una logica interna a un sistema economico e sociale che tende a concentrare il potere e dirigere le risorse.
Anticamente, il «seno di Abramo» (vv.22-23) era la condizione che riconosceva il successo del progetto di Dio, il luogo dell’adempimento delle Promesse d’Israele.
Anche oggi, chi non avverte che alcuni deperiscono in un mondo di miseria, trasforma la vita in un insuccesso; si ritrova inutile e vuoto, non giunge nella Luce della Vita.
Coloro che traccheggiano - senza l’incontro con gli altri - scelgono una forma di esistenza che nulla ha a che spartire con il Popolo di Dio; nulla a che vedere con il Mistero dell’Eterno, e le sue benedizioni.
Come dunque non sprofondare nell’abisso dell’insignificanza?
Non è una sorte dovuta all’ignoranza o a uno spirito di rivalsa, quella che urta con il disegno del Padre sui suoi figli.
Essere aperti alla sensibilità umanizzante e alla grandezza dell’opera di Dio non è una questione legata a un qualche celeste meccanismo vendicativo del “poi”.
Quindi neppure a una sorta d’avviso (pur eloquente) foraneo.
Allora, come distoglierci dalla seduzione dei beni?
Vincere le attrattive del denaro e la brama di accumulo che genera paralisi sociale e umiliazioni devastanti la persona, è un vero miracolo.
E un miracolo di coscienza non può farlo né un prodigio immediato, né una visione (vv.29-31).
Tantomeno una comune religione, se essa tendesse a sacralizzare e non interferire, a far permanere le posizioni; a farsi complice nel fabbricare poveri e ricchi, guadagnando su entrambi.
Ciò cui Gesù rimanda è l’Ascolto. Lo «Shemà Israel» - recitato due volte ogni giorno.
Nella povertà estrema dei mezzi, «Ascolta Israele» è il Richiamo del Padre.
Il Signore partecipa della situazione oppressa di troppi suoi figli - impossibilitati a vestirsi di abiti costosi o banchettare lautamente e frequentemente.
Insomma, per edificare il Regno e cambiare il mondo diviso, vale solo il lasciarsi educare dalla Parola di Dio.
Seme intimo e Germe, Terapia-evento, Verbo energico e Richiamo: che introduce nella consapevolezza attiva e sponsale dell’Amore.
Logos che ci colloca nella giusta posizione. Avvertimento unico; non esterno.
Eros fondante che già qui e ora rovescia le situazioni.
Oggi il Vangelo di Luca presenta la parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31). Il ricco impersona l’uso iniquo delle ricchezze da parte di chi le adopera per un lusso sfrenato ed egoistico, pensando solamente a soddisfare se stesso, senza curarsi affatto del mendicante che sta alla sua porta. Il povero, al contrario, rappresenta la persona di cui soltanto Dio si prende cura: a differenza del ricco, egli ha un nome, Lazzaro, abbreviazione di Eleazaro, che significa appunto "Dio lo aiuta". Chi è dimenticato da tutti, Dio non lo dimentica; chi non vale nulla agli occhi degli uomini, è prezioso a quelli del Signore. Il racconto mostra come l’iniquità terrena venga ribaltata dalla giustizia divina: dopo la morte, Lazzaro è accolto "nel seno di Abramo", cioè nella beatitudine eterna; mentre il ricco finisce "all’inferno tra i tormenti". Si tratta di un nuovo stato di cose inappellabile e definitivo, per cui è durante la vita che bisogna ravvedersi, farlo dopo non serve a nulla.
Questa parabola si presta anche ad una lettura in chiave sociale. Rimane memorabile quella fornita proprio quarant’anni fa dal Papa Paolo VI nell’Enciclica Popolorum progressio. Parlando della lotta contro la fame, egli scrisse: "Si tratta di costruire un mondo in cui ogni uomo … possa vivere una vita pienamente umana … dove il povero Lazzaro possa assidersi alla stessa mensa del ricco" (n. 47). A causare le numerose situazioni di miseria sono – ricorda l’Enciclica – da una parte "le servitù che vengono dagli uomini" e dall’altra "una natura non sufficientemente padroneggiata" (ibid.). Purtroppo certe popolazioni soffrono di entrambi questi fattori sommati. Come non pensare, in questo momento, specialmente ai Paesi dell’Africa subsahariana, colpiti nei giorni scorsi da gravi inondazioni? Ma non possiamo dimenticare tante altre situazioni di emergenza umanitaria in diverse regioni del pianeta, nelle quali i conflitti per il potere politico ed economico vengono ad aggravare realtà di disagio ambientale già pesanti. L’appello cui allora diede voce Paolo VI: "I popoli della fame interpellano in maniera drammatica i popoli dell’opulenza" (Popolorum progressio, 3), conserva oggi tutta la sua urgenza. Non possiamo dire di non conoscere la via da percorrere: abbiamo la Legge e i Profeti, ci dice Gesù nel Vangelo. Chi non vuole ascoltarli, non cambierebbe nemmeno se qualcuno dai morti tornasse ad ammonirlo.
La Vergine Maria ci aiuti ad approfittare del tempo presente per ascoltare e mettere in pratica questa parola di Dio. Ci ottenga di diventare più attenti ai fratelli in necessità, per condividere con loro il tanto o il poco che abbiamo, e contribuire, incominciando da noi stessi, a diffondere la logica e lo stile dell'autentica solidarietà.
[Papa Benedetto, Angelus 30 settembre 2007]
Con tutto il cuore. Sottolineo, qui, l'aggettivo « tutto ». Il totalitarismo, in politica è brutta cosa. In religione, invece, un nostro totalitarismo nel confronto di Dio va benissimo. Sta scritto: « Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte ». Quel « tutto » ripetuto e piegato alla pratica con tanta insistenza è davvero la bandiera del massimalismo cristiano. Ed è giusto: è troppo grande Dio, troppo Egli merita da noi, perché gli si possano gettare, come ad un povero Lazzaro, appena poche briciole del nostro tempo e del nostro cuore. Egli è bene infinito e sarà nostra felicità eterna: i denari, i piaceri, le fortune di questo mondo, al suo confronto, sono appena frammenti di bene e momenti fugaci di felicità. Non sarebbe saggio dare tanto di noi a queste cose e poco di noi a Gesù. Sopra ogni cosa. Adesso si viene ad un confronto diretto tra Dio e l'uomo, tra Dio e il mondo. Non sarebbe giusto dire: « O Dio o l'uomo ». Si devono amare « e Dio e l'uomo »; quest'ultimo, però, mai più di Dio o contro Dio o alla pari di Dio. In altre parole: l'amore di Dio è bensì prevalente, ma non esclusivo. La Bibbia dichiara Giacobbe santo e amato da Dio, lo mostra impegnato in sette anni di lavoro per conquistarsi Rachele come moglie; « e gli parvero pochi giorni, quegli anni, tanto era il suo amore per lei ». Francesco di Sales fa sopra queste parole un commentino: « Giacobbe - scrive - ama Rachele con tutte le sue forze, e con tutte le sue forze ama Dio; ma non per questo ama Rachele come Dio né Dio come Rachele. Ama Dio come suo Dio sopra tutte le cose e più di se stesso; ama Rachele come sua moglie sopra tutte le altre donne e come se stesso. Ama Dio con amore assolutamente e sovranamente sommo, e Rachele con sommo amore maritale; l'un amore non è contrario all'altro perché quello di Rachele non viola i supremi vantaggi dell'amore di Dio ». E per amor vostro amo il prossimo mio. Siamo qui di fronte a due amori che sono « fratelli gemelli »e inseparabili. Alcune persone è facile amarle; altre, è difficile; non ci sono simpatiche, ci hanno offeso e fatto del male; soltanto se amo Dio sul serio, arrivo ad amarle, in quanto figlie di Dio e perché questi me lo domanda. Gesù ha anche fissato come amare il prossimo: non solo cioè con il sentimento, ma coi fatti. Questo è il modo, disse. Vi chiederò: Avevo fame nella persona dei miei fratelli più piccoli, mi avete dato da mangiare? Mi avete visitato, quand'ero infermo?
Il catechismo traduce queste ed altre parole della Bibbia nel doppio elenco delle sette opere di misericordia corporali e sette spirituali. L'elenco non è completo e bisognerebbe aggiornarlo. Fra gli affamati, per esempio, oggi, non si tratta più soltanto di questo o quell'individuo; ci sono popoli interi.
Tutti ricordiamo le grandi parole del papa Paolo VI: « I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell'opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido di angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello ». A questo punto alla carità si aggiunge la giustizia, perché - dice ancora Paolo VI - « la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario ». Di conseguenza « ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile ».
Alla luce di queste forti espressioni si vede quanto - individui e popoli - siamo ancora distanti dall'amare gli altri « come noi stessi », che è comando di Gesù.
Altro comando: perdono le offese ricevute. A questo perdono pare quasi che il Signore dia precedenza sul culto: « Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono ».
Ultime parole della preghiera sono: Signore, ch'io vi ami sempre più. Anche qui c'è obbedienza a un comando di Dio, che ha messo nel nostro cuore la sete del progresso. Dalle palafitte, dalle caverne e dalle prime capanne siamo passati alle case, ai palazzi, ai grattacieli; dai viaggi a piedi, a schiena di mulo o di cammello, alle carrozze, ai treni, agli aerei. E si desidera progredire ancora con mezzi sempre più rapidi, raggiungendo mete sempre più lontane. Ma amare Dio - l'abbiamo visto - è pure un viaggio: Dio lo vuole sempre più intenso e perfetto. Ha detto a tutti i suoi: « Voi siete la luce del mondo, il sale della terra »; « siate perfetti com'è perfetto il vostro Padre celeste ». Ciò significa: amare Dio non poco, ma tanto; non fermarsi al punto in cui si è arrivati, ma col Suo aiuto, progredire nell'amore.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 27 settembre 1978]
Desidero soffermarmi con voi oggi sulla parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro. La vita di queste due persone sembra scorrere su binari paralleli: le loro condizioni di vita sono opposte e del tutto non comunicanti. Il portone di casa del ricco è sempre chiuso al povero, che giace lì fuori, cercando di mangiare qualche avanzo della mensa del ricco. Questi indossa vesti di lusso, mentre Lazzaro è coperto di piaghe; il ricco ogni giorno banchetta lautamente, mentre Lazzaro muore di fame. Solo i cani si prendono cura di lui, e vengono a leccare le sue piaghe. Questa scena ricorda il duro rimprovero del Figlio dell’uomo nel giudizio finale: «Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero […] nudo e non mi avete vestito» (Mt 25,42-43). Lazzaro rappresenta bene il grido silenzioso dei poveri di tutti i tempi e la contraddizione di un mondo in cui immense ricchezze e risorse sono nelle mani di pochi.
Gesù dice che un giorno quell’uomo ricco morì: i poveri e i ricchi muoiono, hanno lo stesso destino, come tutti noi, non ci sono eccezioni a questo. E allora quell’uomo si rivolse ad Abramo supplicandolo con l’appellativo di “padre” (vv. 24.27). Rivendica perciò di essere suo figlio, appartenente al popolo di Dio. Eppure in vita non ha mostrato alcuna considerazione verso Dio, anzi ha fatto di sé stesso il centro di tutto, chiuso nel suo mondo di lusso e di spreco. Escludendo Lazzaro, non ha tenuto in alcun conto né il Signore, né la sua legge. Ignorare il povero è disprezzare Dio! Questo dobbiamo impararlo bene: ignorare il povero è disprezzare Dio. C’è un particolare nella parabola che va notato: il ricco non ha un nome, ma soltanto l’aggettivo: “il ricco”; mentre quello del povero è ripetuto cinque volte, e “Lazzaro” significa “Dio aiuta”. Lazzaro, che giace davanti alla porta, è un richiamo vivente al ricco per ricordarsi di Dio, ma il ricco non accoglie tale richiamo. Sarà condannato pertanto non per le sue ricchezze, ma per essere stato incapace di sentire compassione per Lazzaro e di soccorrerlo.
Nella seconda parte della parabola, ritroviamo Lazzaro e il ricco dopo la loro morte (vv. 22-31). Nell’al di là la situazione si è rovesciata: il povero Lazzaro è portato dagli angeli in cielo presso Abramo, il ricco invece precipita tra i tormenti. Allora il ricco «alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui». Egli sembra vedere Lazzaro per la prima volta, ma le sue parole lo tradiscono: «Padre Abramo – dice – abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». Adesso il ricco riconosce Lazzaro e gli chiede aiuto, mentre in vita faceva finta di non vederlo. - Quante volte tanta gente fa finta di non vedere i poveri! Per loro i poveri non esistono - Prima gli negava pure gli avanzi della sua tavola, e ora vorrebbe che gli portasse da bere! Crede ancora di poter accampare diritti per la sua precedente condizione sociale. Dichiarando impossibile esaudire la sua richiesta, Abramo in persona offre la chiave di tutto il racconto: egli spiega che beni e mali sono stati distribuiti in modo da compensare l’ingiustizia terrena, e la porta che separava in vita il ricco dal povero, si è trasformata in «un grande abisso». Finché Lazzaro stava sotto casa sua, per il ricco c’era la possibilità di salvezza, spalancare la porta, aiutare Lazzaro, ma ora che entrambi sono morti, la situazione è diventata irreparabile. Dio non è mai chiamato direttamente in causa, ma la parabola mette chiaramente in guardia: la misericordia di Dio verso di noi è legata alla nostra misericordia verso il prossimo; quando manca questa, anche quella non trova spazio nel nostro cuore chiuso, non può entrare. Se io non spalanco la porta del mio cuore al povero, quella porta rimane chiusa. Anche per Dio. E questo è terribile.
A questo punto, il ricco pensa ai suoi fratelli, che rischiano di fare la stessa fine, e chiede che Lazzaro possa tornare nel mondo ad ammonirli. Ma Abramo replica: «Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro». Per convertirci, non dobbiamo aspettare eventi prodigiosi, ma aprire il cuore alla Parola di Dio, che ci chiama ad amare Dio e il prossimo. La Parola di Dio può far rivivere un cuore inaridito e guarirlo dalla sua cecità. Il ricco conosceva la Parola di Dio, ma non l’ha lasciata entrare nel cuore, non l’ha ascoltata, perciò è stato incapace di aprire gli occhi e di avere compassione del povero. Nessun messaggero e nessun messaggio potranno sostituire i poveri che incontriamo nel cammino, perché in essi ci viene incontro Gesù stesso: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40), dice Gesù. Così nel rovesciamento delle sorti che la parabola descrive è nascosto il mistero della nostra salvezza, in cui Cristo unisce la povertà alla misericordia. Cari fratelli e sorelle, ascoltando questo Vangelo, tutti noi, insieme ai poveri della terra, possiamo cantare con Maria: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,52-53).
[Papa Francesco, Udienza Generale 18 maggio 2016]
(Mt 1,16.18-21.24)
«Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande» [Patris Corde n.2].
Incarnazione: il Padre si colloca a fianco dei suoi figli e figlie. Non solo non teme di rendersi impuro nel contatto con le cose che riguardano le dinamiche umane: addirittura si riconosce nella loro Condizione.
Per questo motivo, dall’imbarazzo di Giuseppe scaturisce addirittura il culmine dell’intera Storia di Salvezza.
Le fonti attestano che non era affatto un personaggio col giglio in mano, ma forse questo può interessarci sino a un certo punto.
La narrazione di Mt colpisce, perché il discrimine e le possibilità d’irruzione (della vetta stessa) del Disegno di Dio sull’umanità sembrano scaturiti non da una certezza, ma da un Dubbio.
Il punto interrogativo coinvolge. Il disagio semina dentro un nuovo Germe. Strappa e abbatte le pianticelle tutte uguali dell’erba infestante la vita piena - che era Legge cesellata sulle apparenze.
Il “problema” guida a sognare ben altri orizzonti da aprire, e in prima persona. L’esitazione conduce fuori dalle gabbie mentali che mortificano i rapporti, prima ridotti a casistiche.
La perplessità fa valicare l’opinione comune, che attenua e spegne la Novità di Dio.
L’esitazione cerca fenditure esistenziali, perché vuole introdurci in territori di vita - dove anche gli altri possono attingere esperienze differenti, percezioni variegate, e momenti in cui avere in dono intuizioni decisive.
La sua Energia sapiente trova brecce e piccoli varchi; agisce per farci evolvere come figli dell’Eternità - anche suscitando disagi, che inondano l’esistenza di sospensioni creative e nuova passione.
La sua lucida Azione s’introduce attraverso Sogni che scrollano di dosso i progetti consueti, o stati d’animo che mettono in bilico; e le strettoie di un pensiero emarginato che fa ritrovare il motivo per cui siamo nati, scoprire la nostra parte nel mondo.
Ogni oscillazione, ogni dolore, ogni pericolo, ogni trasloco, possono diventare un ‘parto’ verso l’Originalità - senza prima le identificazioni.
L’Unicità non fa smarrire la Fonte che ‘veglia’ in noi. Guai a sottrarsi: perderemmo la nostra destinazione.
Lo Spirito che s’infila nei pertugi delle mentalità standard trova un punto intimo che consente di fiorire diversamente adesso, in grado di far venir fuori l’essenza di chi siamo autenticamente, smettendo di copiare cliché.
Allora non continueremo a chiederci Ma di chi è la colpa? Come tamponare la situazione? A chi conviene appoggiarsi?. Bensì: Qual è la nuova ‘vita’ che devo esplorare? Cosa c’è ancora da scoprire?.
Infatti il morso dei dubbi non fa diventare credenti-spazzatura, come ipotizzato nelle religioni disciplinate, legaliste - nelle filosofie puritane dalla sapienza artificiosa - bensì amici, figli adottivi [ossia scelti] ed eredi.
Grazie alla Relazione di Fede, non siamo più persi nel deserto - perché le tante cose e gli azzardi diventano dialogo di peso specifico: siamo a Casa, nel rispetto del nostro misterioso carattere e Chiamata.
Iniziamo come Giuseppe a essere presenti a noi stessi. E cambiando sguardo, si godrà la Bellezza del Nuovo.
«San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine» [Patris Corde intr.].
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In quale occasione il ‘dubbio’ ti ha aperto orizzonti da sbalordire? Nei momenti belli e colorati della vita sei forse partito da una tua certezza?
[S. Giuseppe, 19 marzo]
Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person. Work, to use a metaphor, “anoints” us with dignity, fills us with dignity, makes us similar to God, who has worked and still works, who always acts (cf. Jn 5:17); it gives one the ability to maintain oneself, one’s family, to contribute to the growth of one’s own nation [Pope Francis]
Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione [Papa Francesco]
God loves the world and will love it to the end. The Heart of the Son of God pierced on the Cross and opened is a profound and definitive witness to God’s love. Saint Bonaventure writes: “It was a divine decree that permitted one of the soldiers to open his sacred wide with a lance… The blood and water which poured out at that moment was the price of our salvation” (John Paul II)
Il mondo è amato da Dio e sarà amato fino alla fine. Il Cuore del Figlio di Dio trafitto sulla croce e aperto, testimonia in modo profondo e definitivo l’amore di Dio. Scriverà San Bonaventura: “Per divina disposizione è stato permesso che un soldato trafiggesse e aprisse quel sacro costato. Ne uscì sangue ed acqua, prezzo della nostra salvezza” (Giovanni Paolo II))
[Nicodemus] felt the fascination of this Rabbi, so different from the others, but could not manage to rid himself of the conditioning of his environment that was hostile to Jesus, and stood irresolute on the threshold of faith (Pope Benedict)
[Nicodemo] avverte il fascino di questo Rabbì così diverso dagli altri, ma non riesce a sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente contrario a Gesù e resta titubante sulla soglia della fede (Papa Benedetto)
Those wounds that, in the beginning were an obstacle for Thomas’s faith, being a sign of Jesus’ apparent failure, those same wounds have become in his encounter with the Risen One, signs of a victorious love. These wounds that Christ has received for love of us help us to understand who God is and to repeat: “My Lord and my God!” (Pope Benedict)
don Giuseppe Nespeca
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