Cari fratelli e sorelle,
oggi siamo arrivati al termine del nostro percorso tra i testimoni del cristianesimo nascente che gli scritti neo-testamentari menzionano. E usiamo l’ultima tappa di questo primo percorso per dedicare la nostra attenzione alle molte figure femminili che hanno svolto un effettivo e prezioso ruolo nella diffusione del Vangelo. La loro testimonianza non può essere dimenticata, conformemente a quanto Gesù stesso ebbe a dire della donna che gli unse il capo poco prima della Passione: «In verità vi dico, dovunque sarà predicato questo vangelo nel mondo intero, sarà detto anche ciò che costei ha fatto, in memoria di lei» (Mt 26,13; Mc 14,9). Il Signore vuole che questi testimoni del Vangelo, queste figure che hanno dato un contributo affinchè crescesse la fede in Lui, siano conosciute e la loro memoria sia viva nella Chiesa. Possiamo storicamente distinguere il ruolo delle donne nel Cristianesimo primitivo, durante la vita terrena di Gesù e durante le vicende della prima generazione cristiana.
Gesù certamente, lo sappiamo, scelse tra i suoi discepoli dodici uomini come Padri del nuovo Israele, gli scelse perché «stessero con lui e anche per mandarli a predicare» (Mc 3,14-l5). Questo fatto è evidente, ma, oltre ai Dodici, colonne della Chiesa, padri del nuovo Popolo di Dio, sono scelte nel numero dei discepoli anche molte donne. Solo molto brevemente posso accennare a quelle che si trovano sul cammino di Gesù stesso, cominciando con la profetessa Anna (cfr Lc 2,36-38) fino alla Samaritana (cfr Gv 4,1-39), alla donna siro-fenicia (cfr Mc 7,24-30), all’emorroissa (cfr Mt 9,20-22) e alla peccatrice perdonata (cfr Lc 7,36-50). Non mi riferisco neppure alle protagoniste di alcune efficaci parabole, ad esempio alla massaia che fa il pane (Mt 13,33), alla donna che perde la dracma (Lc 15,8-10), alla vedova che importuna il giudice (Lc 18,1-8). Più significative per il nostro argomento sono quelle donne che hanno svolto un ruolo attivo nel quadro della missione di Gesù. In primo luogo, il pensiero va naturalmente alla Vergine Maria, che con la sua fede e la sua opera materna collaborò in modo unico alla nostra Redenzione, tanto che Elisabetta poté proclamarla «benedetta fra le donne» (Lc 1,42), aggiungendo: «beata colei che ha creduto» (Lc 1,45). Divenuta discepola del Figlio, Maria manifestò a Cana la totale fiducia in Lui (cfr Gv 2,5) e lo seguì fin sotto la Croce, dove ricevette da Lui una missione materna per tutti i suoi discepoli di ogni tempo, rappresentati da Giovanni (cfr Gv 19,25-27).
Ci sono poi varie donne, che a diverso titolo gravitarono attorno alla figura di Gesù con funzioni di responsabilità. Ne sono esempio eloquente le donne che seguivano Gesù per assisterlo con le loro sostanze e di cui Luca ci tramanda alcuni nomi: Maria di Magdala, Giovanna, Susanna e «molte altre» (cfr Lc 8,2-3). Poi i Vangeli ci informano che le donne, a differenza dei Dodici, non abbandonarono Gesù nell’ora della Passione (cfr Mt 27,56.61; Mc 15,40). Tra di esse spicca in particolare la Maddalena, che non solo presenziò alla Passione, ma fu anche la prima testimone e annunciatrice del Risorto (cfr Gv 20,1.11-18). Proprio a Maria di Magdala San Tommaso d'Aquino riserva la singolare qualifica di «apostola degli apostoli» (apostolorum apostola), dedicandole questo bel commento: «Come una donna aveva annunciato al primo uomo parole di morte, così una donna per prima annunziò agli apostoli parole di vita» (Super Ioannem, ed. Cai, § 2519).
Anche nell’ambito della Chiesa primitiva la presenza femminile è tutt'altro che secondaria. Non insistiamo sulle quattro figlie innominate del “diacono” Filippo, residenti a Cesarea Marittima e tutte dotate, come ci dice san Luca, del «dono della profezia», cioè della facoltà di intervenire pubblicamente sotto l'azione dello Spirito Santo (cfr At 21,9). La brevità della notizia non permette deduzioni più precise. Piuttosto dobbiamo a san Paolo una più ampia documentazione sulla dignità e sul ruolo ecclesiale della donna. Egli parte dal principio fondamentale, secondo cui per i battezzati non solo «non c'è più né giudeo né greco, né schiavo, né libero», ma anche «né maschio, né femmina». Il motivo è che «tutti siamo uno solo in Cristo Gesù» (Gal 3,28), cioè tutti accomunati nella stessa dignità di fondo, benché ciascuno con funzioni specifiche (cfr 1 Cor 12,27-30). L’Apostolo ammette come cosa normale che nella comunità cristiana la donna possa «profetare» (1 Cor 11,5), cioè pronunciarsi apertamente sotto l'influsso dello Spirito, purché ciò sia per l’edificazione della comunità e fatto in modo dignitoso. Pertanto la successiva, ben nota, esortazione a che «le donne nelle assemblee tacciano» (1 Cor 14,34) va piuttosto relativizzata. Il conseguente problema, molto discusso, della relazione tra la prima parola – le donne possono profetare nell’assemblea – e l’altra – non possono parlare -, della relazione tra queste due indicazioni, apparentemente contraddittorie, lo lasciamo agli esegeti. Non è da discutere qui. Mercoledì scorso abbiamo già incontrato la figura di Prisca o Priscilla, sposa di Aquila, la quale in due casi viene sorprendentemente menzionata prima del marito (cfr At 18,18; Rm 16,3): l’una e l’altro comunque sono esplicitamente qualificati da Paolo come suoi sun-ergoús «collaboratori» (Rm 16,3).
Alcuni altri rilievi non possono essere trascurati. Occorre prendere atto, ad esempio, che la breve Lettera a Filemone in realtà è indirizzata da Paolo anche a una donna di nome «Affia» (cfr Fm 2). Traduzioni latine e siriache del testo greco aggiungono a questo nome “Affia” l’appellativo di “soror carissima” (ibid.) e si deve dire che nella comunità di Colossi ella doveva occupare un posto di rilievo; in ogni caso, è l'unica donna menzionata da Paolo tra i destinatari di una sua lettera. Altrove l'Apostolo menziona una certa «Febe», qualificata come diákonos della Chiesa di Cencre, la cittadina portuale a est di Corinto (cfr Rm 16,1-2). Benché il titolo in quel tempo non abbia ancora uno specifico valore ministeriale di tipo gerarchico, esso esprime un vero e proprio esercizio di responsabilità da parte di questa donna a favore di quella comunità cristiana. Paolo raccomanda di riceverla cordialmente e di assisterla «in qualunque cosa abbia bisogno», poi aggiunge: «essa infatti ha protetto molti, anche me stesso». Nel medesimo contesto epistolare l’Apostolo con tratti di delicatezza ricorda altri nomi di donne: una certa Maria, poi Trifena, Trifosa e Perside «carissima», oltre a Giulia, delle quali scrive apertamente che «hanno faticato per voi» o «hanno faticato nel Signore» (Rm 16,6.12a.12b.15), sottolineando così il loro forte impegno ecclesiale. Nella Chiesa di Filippi poi dovevano distinguersi due donne di nome «Evodia e Sìntiche» (Fil 4,2): il richiamo che Paolo fa alla concordia vicendevole lascia intendere che le due donne svolgevano una funzione importante all’interno di quella comunità.
In buona sostanza, la storia del cristianesimo avrebbe avuto uno sviluppo ben diverso se non ci fosse stato il generoso apporto di molte donne. Per questo, come ebbe a scrivere il mio venerato e caro Predecessore Giovanni Paolo Il nella Lettera apostolica Mulieris dignitatem, «la Chiesa rende grazie per tutte le donne e per ciascuna... La Chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del “genio” femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del Popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità: ringrazia per tutti i frutti della santità femminile» (n. 31). Come si vede, l’elogio riguarda le donne nel corso della storia della Chiesa ed è espresso a nome dell’intera comunità ecclesiale. Anche noi ci uniamo a questo apprezzamento ringraziando il Signore, perché egli conduce la sua Chiesa, generazione dopo generazione, avvalendosi indistintamente di uomini e donne, che sanno mettere a frutto la loro fede e il loro battesimo per il bene dell’intero Corpo ecclesiale, a maggior gloria di Dio.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 14 febbraio 2007]