Apr 1, 2025 Scritto da 

5a Domenica di Quaresima (C)

(Gv 8,1-11)

Giovanni 8:1 Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi.

Giovanni 8:2 Ma all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava.

Giovanni 8:3 Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo,

Giovanni 8:4 gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.

Giovanni 8:5 Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?».

Giovanni 8:6 Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.

Giovanni 8:7 E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei».

Giovanni 8:8 E chinatosi di nuovo, scriveva per terra.

Giovanni 8:9 Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.

Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo.

Giovanni 8:10 Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».

Giovanni 8:11 Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch'io ti condanno; và e d'ora in poi non peccare più».

 

Significativo è il verbo che Giovanni usa per indicare che Gesù si reca al tempio: “paraginomai”. Il verbo è composto dalla preposizione “para”, che significa “presso, verso” e dal verbo “gignomai”, che significa “diventare”. L'andare di Gesù al tempio dunque è un farsi vicino e un diventare sempre più quel tempio che non solo è la casa del Padre suo, ma anche figura del suo nuovo corpo, in cui si celebrerà un nuovo culto gradito a Dio.

Il contesto in cui si inserisce il racconto è quello del tempio e più precisamente, come sottolinea con estrema precisione il v. 20, il “luogo del tesoro” che era detto anche cortile delle donne, perché segnava il confine al di là del quale le donne non potevano accedere. Quando dunque gli scribi e i farisei conducono la donna colta in flagranza di adulterio da Gesù, questi stava insegnando nell'atrio delle donne o tesoreria. Il racconto dell'adultera dunque si inserisce all'interno dell'attività di insegnamento di Gesù, e in qualche modo ne fa parte.

Gli scribi e i farisei conducono da Gesù una donna. Essa viene posta in mezzo. Non si dice esattamente dove, ma l'idea che ne viene è che essa sia posta in mezzo alle due parti, tra Gesù e le autorità religiose. Ci si trova dunque tra due schieramenti contrapposti in mezzo ai quali viene posto l'oggetto del contendere, non tanto la donna, spogliata di ogni identità e di ogni dignità, ma quello che lei rappresenta: un caso di violazione della Torah. La questione dunque si sposta subito dalla donna alla Legge mosaica, che la condanna alla lapidazione. Un confronto che diviene più evidente al v. 5 dove si oppone Mosè a Gesù: “Mosè ci ha comandato… Tu che ne dici”?

“Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo”. Sotto processo quindi non c'è soltanto la donna, ma con lei anche Gesù, il quale si trova di fronte ad un aut aut: mettersi contro Mosè, sostenendo la sua posizione critica nei confronti del modo di intendere la Torah; o dare ragione a Mosè, rinnegando la sua posizione. Ma Gesù trova una terza via: per due volte, al v. 6 e al v. 8, viene evidenziato che Gesù “si mise a scrivere col dito per terra”. Giovanni, quindi, sembra voler attrarre l'attenzione sul bizzarro comportamento di Gesù. Ci si è chiesti che cosa Gesù stesse scrivendo per terra con il dito e fiumi d'inchiostro sono stati versati nelle più disparate ipotesi, che, a giochi fatti, tali sono rimaste. Ma qui il problema non è il contenuto, cioè ciò che Gesù stava scrivendo, ma lo scrivere stesso di Gesù; è questo gesto che l'evangelista indica al suo lettore e non ciò che Gesù ha scritto: “chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra”. Del resto, non va dimenticato, Gesù stava scrivendo sul pavimento dell'atrio delle donne, che era di pietra. Ciò che scriveva con il dito quindi non poteva rimanere impresso e pertanto non poteva neppure essere letto. 

Per capire il comportamento di Gesù è necessario leggere con attenzione: “chinatosi”; è l'atteggiamento di chi si avvicina dall'alto verso il basso, quasi andando incontro a qualcosa o a qualcuno, che si trova più in basso di sé. A questo punto Gesù “si mise a scrivere col dito per terra”. Ecco ciò che conta: “lo scrivere con il dito” sulla terra, che sappiamo essere però “pietra”. Gesù dunque, chinatosi scriveva con il dito sulla pietra. A rafforzare questo concetto c'è lo stesso verbo scrivere che, diversamente da quello contenuto al v. 8, è qui reso con una forma verbale particolare: “katégraphen”, il cui significato primario non è scrivere, bensì incidere, graffiare, sottolineando più l'azione di uno scalpellino che quella di uno scriba. Ed è esattamente ciò che Es 31,18 dice: “Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, TAVOLE DI PIETRA, SCRITTE DAL DITO DI DIO”. Anche Dio quindi è sceso giù sul monte Sinai e lì con il suo dito ha scritto la sua Legge sulla pietra. Il comportamento di Gesù dunque riproduce esattamente quello di Dio sul Sinai. Gesù quindi sta qui riscrivendo la Legge mosaica con l'autorità stessa di Dio, riproducendone il comportamento, dichiarando in tal modo superata non tanto la Torah, quanto la modalità di approcciarsi ad essa e di intenderla, secondo la logica della lettera, soffocandone lo spirito di cui era portatrice.

Il giudaismo non riusciva a trascendere la fisicità della Legge espressa nella lettera. I suoi avversari infatti “insistevano nell'interrogarlo” (v. 7). Così, Gesù li sfida, ribaltando l'accusa mossa all'adultera su di loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. Alla loro insistenza Gesù, dunque, risponde invitandoli a riflettere sulla loro comune condizione di peccatori, poiché nessuno di fronte a Dio può ritenersi in qualche modo giusto e santo. La Torah dunque va riletta e ricompresa dalla prospettiva di Dio e non dell'uomo; per questo Gesù sta riscrivendo la Torah secondo le logiche e il sentire di Dio e ne ha tutta l'autorità e il potere.

Il v. 9 rileva come tutti se ne andarono, denunciando in tal modo la loro incapacità di giudizio, perché un peccatore non può ergersi a giudice verso un altro peccatore. Il giudaismo con il suo mondo della lettera che accusa e condanna è scomparso, lasciando posto ad una nuova realtà, quella dell'amore del Padre che si è donato all'uomo nel Figlio perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio in Gesù sta dunque riscrivendo la sua Legge secondo le logiche non più della lettera, ma dello spirito che la vivifica. Il giudizio pertanto si dovrà espletare nel perdono e nella misericordia.

Il racconto dell'adultera si chiude con una constatazione: nessun verdetto è stato emesso; nessun giudizio si è compiuto. Il processo che si era instaurato nei confronti di Gesù e della donna si è disciolto, poiché questo è il tempo della misericordia e della salvezza e non del giudizio. La Legge mosaica perde il suo volto duro di giudice che condanna senza appello per confluire nell'economia dell'amore e della grazia. Per questo i rappresentanti e i sostenitori della Legge sono scomparsi ed è rimasto solo Gesù, il nuovo Mosè che sta riscrivendo con il dito di Dio una nuova legge, quella fondata sullo spirito che dona la vita e non la toglie.

Il v. 11 si chiude con l'esortazione a riprendere e a proseguire quel cammino di rigenerazione che è iniziato con l'incontro con Gesù espresso con quel “da ora in poi” che segna una netta cesura tra il prima e il dopo; inizia un cammino nuovo: “da ora in poi non peccare più”. Nel nostro normale intendere, il non peccare significa non commettere dei peccati, cioè non commettere delle violazioni, per cui il peccare è un fare o non fare ciò che la Legge divina ci comanda. Ma l'espressione in questione va ben oltre questa visione riduttiva. Infatti il verbo “amartánō” (peccare) in prima battuta non significa peccare, bensì deviare, sbagliare strada, allontanarsi dalla verità, non raggiungere l'obiettivo, fallire; quindi, in seconda battuta, anche peccare, il cui significato però va compreso all'interno di quei significati da cui deriva. Di conseguenza l'invito di Gesù “a non peccare” non è un invito a non violare più la Legge mosaica, bensì a prendere atto come la donna, dall'incontro avuto con Gesù sia stata generata a nuova vita (“da ora in poi”) e in questa novità di vita deve guardarsi dal deviare e dall'abbandonarla, non tanto perché qualcuno la potrebbe condannare nuovamente, ma perché “da ora” l'abbandonarla contiene già in sé il senso del fallire quell'obiettivo ultimo verso cui si è incamminati: Dio, della cui vita siamo stati resi partecipi fin d'ora in Cristo.

A tal punto più nessuno, né la Legge né Dio, ci condannerà, perché noi stessi ci condanneremmo e Dio non può più fare nulla, perché, parafrasando s. Agostino, quel Dio che ci ha creati senza di noi, non può salvarci senza di noi. In altri termini, ora la salvezza è un dono che è stato posto nelle nostre mani; spetta a noi aderirvi esistenzialmente o meno. E qui non si tratta di osservare qualche comandamento o meno, un modo banale quanto ingannevole di sentirci a posto con Dio, ma di mantenere saldo il nostro orientamento esistenziale verso di Lui, che solo la Parola può alimentare e sorreggere, evitandoci di peccare, cioè di fallire il nostro obiettivo primo ed ultimo: Dio! E questo va ben al di là dell'osservanza o meno di qualche precetto.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?

  • Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo nel mistero trinitario
  • Il discorso profetico di Gesù (Matteo 24-25)
  • Tutte le generazioni mi chiameranno beata
  •  Cattolici e Protestanti a confronto – In difesa della fede
  •  La Chiesa e Israele secondo San Paolo – Romani 9-11

 

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Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.

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St Teresa of Avila wrote: “the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ” (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7) [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6) [Papa Benedetto]
Dear friends, the mission of the Church bears fruit because Christ is truly present among us in a quite special way in the Holy Eucharist. His is a dynamic presence which grasps us in order to make us his, to liken us to him. Christ draws us to himself, he brings us out of ourselves to make us all one with him. In this way he also inserts us into the community of brothers and sisters: communion with the Lord is always also communion with others (Pope Benedict)
Cari amici, la missione della Chiesa porta frutto perché Cristo è realmente presente tra noi, in modo del tutto particolare nella Santa Eucaristia. La sua è una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a Sé. Cristo ci attira a Sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli: la comunione con il Signore è sempre anche comunione con gli altri (Papa Benedetto)
Jesus asks us to abide in his love, to dwell in his love, not in our ideas, not in our own self-worship. Those who dwell in self-worship live in the mirror: always looking at themselves. He asks us to overcome the ambition to control and manage others. Not controlling, serving them (Pope Francis)
Gesù ci chiede di rimanere nel suo amore, abitare nel suo amore, non nelle nostre idee, non nel culto di noi stessi. Chi abita nel culto di sé stesso, abita nello specchio: sempre a guardarsi. Ci chiede di uscire dalla pretesa di controllare e gestire gli altri. Non controllare, servirli (Papa Francesco)
In this passage, the Lord tells us three things about the true shepherd:  he gives his own life for his sheep; he knows them and they know him; he is at the service of unity [Pope Benedict]
In questo brano il Signore ci dice tre cose sul vero pastore: egli dà la propria vita per le pecore; le conosce ed esse lo conoscono; sta a servizio dell'unità [Papa Benedetto]
Jesus, Good Shepherd and door of the sheep, is a leader whose authority is expressed in service, a leader who, in order to command, gives his life and does not ask others to sacrifice theirs. One can trust in a leader like this (Pope Francis)
Gesù, pastore buono e porta delle pecore, è un capo la cui autorità si esprime nel servizio, un capo che per comandare dona la vita e non chiede ad altri di sacrificarla. Di un capo così ci si può fidare (Papa Francesco)
In today’s Gospel passage (cf. Jn 10:27-30) Jesus is presented to us as the true Shepherd of the People of God. He speaks about the relationship that binds him to the sheep of the flock, namely, to his disciples, and he emphasizes the fact that it is a relationship of mutual recognition […] we see that Jesus’ work is explained in several actions: Jesus speaks; Jesus knows; Jesus gives eternal life; Jesus safeguards (Pope Francis)
Nel Vangelo di oggi (cfr Gv 10,27-30) Gesù si presenta come il vero Pastore del popolo di Dio. Egli parla del rapporto che lo lega alle pecore del gregge, cioè ai suoi discepoli, e insiste sul fatto che è un rapporto di conoscenza reciproca […] vediamo che l’opera di Gesù si esplica in alcune azioni: Gesù parla, Gesù conosce, Gesù dà la vita eterna, Gesù custodisce (Papa Francesco)

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