don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Martedì, 01 Aprile 2025 04:46

Libertà Responsabilità

«Abbà, Padre!»" (Rm 8,15). Che cosa significa ciò? San Paolo vi presuppone il sistema sociale del mondo antico, nel quale esistevano gli schiavi, ai quali non apparteneva nulla e che perciò non potevano essere interessati ad un retto svolgimento delle cose. Corrispettivamente c'erano i figli i quali erano anche gli eredi e che per questo si preoccupavano della conservazione e della buona amministrazione della loro proprietà o della conservazione dello Stato. Poiché erano liberi, avevano anche una responsabilità. Prescindendo dal sottofondo sociologico di quel tempo, vale sempre il principio: libertà e responsabilità vanno insieme. La vera libertà si dimostra nella responsabilità, in un modo di agire che assume su di sé la corresponsabilità per il mondo, per se stessi e per gli altri. Libero è il figlio, cui appartiene la cosa e che perciò non permette che sia distrutta. Tutte le responsabilità mondane, delle quali abbiamo parlato, sono però responsabilità parziali, per un ambito determinato, uno Stato determinato, ecc. Lo Spirito Santo invece ci rende figli e figlie di Dio. Egli ci coinvolge nella stessa responsabilità di Dio per il suo mondo, per l'umanità intera. Ci insegna a guardare il mondo, l'altro e noi stessi con gli occhi di Dio. Noi facciamo il bene non come schiavi che non sono liberi di fare diversamente, ma lo facciamo perché portiamo personalmente la responsabilità per il mondo; perché amiamo la verità e il bene, perché amiamo Dio stesso e quindi anche le sue creature. È questa la libertà vera, alla quale lo Spirito Santo vuole condurci. I Movimenti ecclesiali vogliono e devono essere scuole di libertà, di questa libertà vera. Lì vogliamo imparare questa vera libertà, non quella da schiavi che mira a tagliare per se stessa una fetta della torta di tutti, anche se poi questa manca all'altro. Noi desideriamo la libertà vera e grande, quella degli eredi, la libertà dei figli di Dio. In questo mondo, così pieno di libertà fittizie che distruggono l'ambiente e l'uomo, vogliamo, con la forza dello Spirito Santo, imparare insieme la libertà vera; costruire scuole di libertà; dimostrare agli altri con la vita che siamo liberi e quanto è bello essere veramente liberi nella vera libertà dei figli di Dio.

[Papa Benedetto, Veglia 3 giugno 2006]

1. Cristo è il salvatore, è venuto infatti nel mondo per liberare, a prezzo del suo sacrificio pasquale, l’uomo dalla schiavitù del peccato. Lo abbiamo visto nella catechesi precedente. Se il concetto di “liberazione” fa riferimento da un lato al male, liberati dal quale troviamo “la salvezza”, dall’altro lato fa riferimento al bene, per il cui conseguimento siamo stati liberati da Cristo, redentore dell’uomo e del mondo con l’uomo e nell’uomo. “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8, 32). Queste parole di Gesù precisano in modo molto conciso il bene, per il quale l’uomo è stato liberato ad opera del Vangelo nell’ambito della redenzione di Cristo. È la libertà nella verità. Essa costituisce il bene essenziale della salvezza, operata da Cristo. Attraverso questo bene il regno di Dio realmente “è vicino” all’uomo e alla sua storia terrena.

2. La liberazione salvifica che Cristo opera nei riguardi dell’uomo contiene in sé, in un certo senso, le due dimensioni: liberazione “dal” (male) e liberazione “per il” (bene), che sono intimamente unite, si condizionano e si integrano reciprocamente.

Tornando ancora al male dal quale Cristo libera l’uomo - cioè al male del peccato - bisogna aggiungere che mediante i “segni” straordinari della sua potenza salvifica (cioè: i miracoli), da lui operati guarendo i malati dalle varie infermità, egli indicava sempre, almeno indirettamente, questa essenziale liberazione, che è la liberazione dal peccato, la sua remissione. Ciò appare chiaramente nella guarigione del paralitico, al quale Gesù, prima disse: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”, e solo dopo: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua” (Mc 2, 5. 11). Compiendo questo miracolo Gesù si rivolse a coloro che lo circondavano (specialmente a coloro che lo tacciavano di bestemmia, poiché solamente Dio può rimettere i peccati): “Perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati” (Mc 2, 10).

3. Negli Atti degli Apostoli leggiamo che Gesù “passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (At 10, 38). Infatti appare dai Vangeli che Gesù sanava i malati da molte infermità (come per esempio quella donna curva che “non poteva drizzarsi in nessun modo” [cf. Lc 13, 10-16]). Quando gli accadeva di “scacciare gli spiriti cattivi”, se lo accusavano di far questo con l’aiuto del maligno, egli rispondeva dimostrando il non senso di una tale insinuazione e diceva: “Ma se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio” (Mt 12, 28; cf. Lc 11, 20). Col liberare gli uomini dal male del peccato, Gesù smaschera colui che è il “padre del peccato”. Proprio da lui, dallo spirito maligno, ha inizio “la schiavitù del peccato” nella quale si trovano gli uomini. “In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (Gv 8, 34-36).

4. Di fronte all’opposizione dei suoi ascoltatori, Gesù aggiungeva: “. . . Da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna” (Gv 8, 42-44). È difficile trovare un testo in cui il male del peccato sia mostrato in modo così forte nella sua radice di falsità diabolica.

5. Sentiamo ancora una volta le parole di Gesù: “Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (Gv 8, 36). “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli: conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8, 31-32). Gesù Cristo venne per liberare l’uomo dal male del peccato. Questo male fondamentale ha il suo inizio nel “padre della menzogna” (come si vede già nel libro della Genesi) (cf. Gen 3, 4). Per questo la liberazione dal male del peccato, operata sino alle sue stesse radici, deve essere la liberazione verso la verità e per mezzo della verità. Gesù Cristo rivela questa verità. Egli stesso è “la verità” (Gv 14, 6). Questa verità porta con sé la vera libertà. È la libertà dal peccato e dalla menzogna. Coloro che erano “schiavi del peccato” perché si trovavano sotto l’influsso del “padre della menzogna”, vengono liberati mediante la partecipazione alla verità, che è il Cristo - e nella libertà del Figlio di Dio essi stessi raggiungono “la libertà dei figli di Dio” (cf. Rm 8, 21). San Paolo può assicurare; “La legge dello Spirito che dà la vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8, 2).

6. Nella stessa lettera ai Romani l’Apostolo presenta in modo eloquente la decadenza umana, che il peccato porta con sé. Guardando il male morale dei suoi tempi, scrive che gli uomini, avendo dimenticato Dio, “hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa” (Rm 1, 21). “Hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del Creatore” (Rm 1, 25). “E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno” (Rm 1, 28).

7. In altri passi della sua lettera l’Apostolo passa dalla descrizione esterna all’analisi dell’interno umano, dove si combattono tra loro il bene e il male. “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me” (Rm 7, 15-17). “Nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato . . .”. “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” (Rm 7, 23-25). Da questa analisi paolina risulta che il peccato costituisce una profonda alienazione; in un certo senso “rende estraneo” l’uomo a se stesso nel suo intimo “io”. La liberazione viene con la “grazia e la verità” (cf. Gv 1, 17) portata da Cristo.

8. Si vede chiaro in che cosa consiste la liberazione operata da Cristo: verso quale libertà egli ci ha resi liberi. La liberazione operata da Cristo si distingue da quella attesa dai suoi contemporanei in Israele. Infatti ancora prima di andare definitivamente al Padre, Cristo veniva interrogato da coloro che erano i suoi più intimi: “Signore è questo il tempo in cui ricostruirai il regno di Israele?” (At 1, 6). E dunque ancora allora - dopo l’esperienza degli eventi pasquali - essi continuavano a pensare alla liberazione in senso politico: sotto questo aspetto veniva atteso il Messia, discendente di Davide.

9. Ma la liberazione operata da Cristo a prezzo della sua passione e morte in croce, ha un significato essenzialmente diverso: è la liberazione da ciò che nel più profondo dell’uomo ostacola il suo rapporto con Dio. A quel livello il peccato significa schiavitù; e Cristo ha vinto il peccato per innestare nuovamente nell’uomo la grazia della divina figliolanza, la grazia liberatrice. “E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!»” (Rm 8, 15).

Tale liberazione spirituale, cioè “la libertà nello Spirito Santo”, è dunque il frutto della missione salvifica di Cristo: “Dove c’è lo Spirito del Signore ivi è la libertà” (2 Cor 3, 17). In questo senso siamo “stati chiamati alla libertà” (Gal 5, 13) in Cristo e per mezzo di Cristo. “La fede che opera per mezzo della carità” (Gal 5, 6) è l’espressione di questa libertà.

10. Si tratta della liberazione dell’uomo interiore, della “libertà del cuore”. La liberazione in senso sociale e politico non è la vera opera messianica di Cristo. D’altra parte bisogna constatare che senza la liberazione da lui operata, senza la liberazione dell’uomo dal peccato, e quindi da ogni specie di egoismo, non si può compiere neppure alcuna reale liberazione in senso socio-politico. Nessun cambiamento puramente esteriore delle strutture porta a una vera liberazione della società, sino a quando l’uomo è sottomesso al peccato e alla menzogna, fino a quando dominano le passioni, e con esse lo sfruttamento e le varie forme di oppressione.

11. Anche quella che si potrebbe chiamare liberazione in senso psicologico non si può compiere pienamente, se non con le forze liberatrici che provengono da Cristo. Essa fa parte della sua opera di redenzione. Solamente il Cristo è “la nostra pace” (Ef 2, 14). La sua grazia e il suo amore liberano l’uomo dalla paura esistenziale davanti alla mancanza di senso della vita e da quel tormento della coscienza che è il retaggio dell’uomo caduto nella schiavitù del peccato.

12. La liberazione operata da Cristo con la verità del suo Vangelo, e definitivamente con il vangelo della sua croce e risurrezione, conservando il suo carattere soprattutto spirituale ed “interiore”, può estendersi su di un raggio d’azione universale, ed è destinata a tutti gli uomini. Le parole “per grazia infatti siete stati salvati” (Ef 2, 5) riguardano tutti. Nello stesso tempo, però, questa liberazione, che è “una grazia”, cioè un dono, non può compiersi senza la partecipazione dell’uomo. L’uomo deve accoglierla con fede, speranza e carità. Deve “attendere alla sua salvezza con timore e tremore” (cf. Fil 2, 12). “È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni” (Fil 2, 13). Consapevoli di questo dono soprannaturale, noi stessi dobbiamo collaborare con la potenza liberatrice di Dio, che col sacrificio redentore di Cristo è entrata nel mondo come fonte eterna di salvezza.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 3 agosto 1988]

Martedì, 01 Aprile 2025 04:26

«La verità vi farà liberi» (Gv 8,32)

3. La continua contaminazione con un linguaggio ingannevole finisce infatti per offuscare l’interiorità della persona. Dostoevskij scrisse qualcosa di notevole in tal senso: «Chi mente a sé stesso e ascolta le proprie menzogne arriva al punto di non poter più distinguere la verità, né dentro di sé, né intorno a sé, e così comincia a non avere più stima né di sé stesso, né degli altri. Poi, siccome non ha più stima di nessuno, cessa anche di amare, e allora, in mancanza di amore, per sentirsi occupato e per distrarsi si abbandona alle passioni e ai piaceri volgari, e per colpa dei suoi vizi diventa come una bestia; e tutto questo deriva dal continuo mentire, agli altri e a sé stesso» (I fratelli Karamazov, II, 2).

Come dunque difenderci? Il più radicale antidoto al virus della falsità è lasciarsi purificare dalla verità. Nella visione cristiana la verità non è solo una realtà concettuale, che riguarda il giudizio sulle cose, definendole vere o false. La verità non è soltanto il portare alla luce cose oscure, “svelare la realtà”, come l’antico termine greco che la designa, aletheia (da a-lethès, “non nascosto”), porta a pensare. La verità ha a che fare con la vita intera. Nella Bibbia, porta con sé i significati di sostegno, solidità, fiducia, come dà a intendere la radice ‘aman, dalla quale proviene anche l’Amen liturgico. La verità è ciò su cui ci si può appoggiare per non cadere. In questo senso relazionale, l’unico veramente affidabile e degno di fiducia, sul quale si può contare, ossia “vero”, è il Dio vivente. Ecco l’affermazione di Gesù: «Io sono la verità» (Gv 14,6). L’uomo, allora, scopre e riscopre la verità quando la sperimenta in sé stesso come fedeltà e affidabilità di chi lo ama. Solo questo libera l’uomo: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32).

Liberazione dalla falsità e ricerca della relazione: ecco i due ingredienti che non possono mancare perché le nostre parole e i nostri gesti siano veri, autentici, affidabili. Per discernere la verità occorre vagliare ciò che asseconda la comunione e promuove il bene e ciò che, al contrario, tende a isolare, dividere e contrapporre. La verità, dunque, non si guadagna veramente quando è imposta come qualcosa di estrinseco e impersonale; sgorga invece da relazioni libere tra le persone, nell’ascolto reciproco. Inoltre, non si smette mai di ricercare la verità, perché qualcosa di falso può sempre insinuarsi, anche nel dire cose vere. Un’argomentazione impeccabile può infatti poggiare su fatti innegabili, ma se è utilizzata per ferire l’altro e per screditarlo agli occhi degli altri, per quanto giusta appaia, non è abitata dalla verità. Dai frutti possiamo distinguere la verità degli enunciati: se suscitano polemica, fomentano divisioni, infondono rassegnazione o se, invece, conducono ad una riflessione consapevole e matura, al dialogo costruttivo, a un’operosità proficua.

[Papa Francesco, Messaggio 52a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali]

Lunedì, 31 Marzo 2025 12:13

Buoncostume adultera, Gesù imputato

Martedì, 25 Marzo 2025 12:26

4a Domenica di Quaresima (anno C)

Oggi 25 marzo, siamo nel cuore del Giubileo contemplando il mistero dell’Annunciazione e Incarnazione del Verbo. Era prima una festa prevalentemente mariana, come appare tuttora in tante tradizioni religiose popolari. Con la riforma liturgica è stata evidenziata come solennità cristologica importante che c’immerge nel cuore dell’Incarnazione del Verbo eterno: il Dio che si fa uomo per la nostra salvezza. Resta sempre forte la presenza di Maria – L’Annunziata - come colei che con il suo “sì” ha reso possibile il mistero della nostra salvezza, il prodigio appunto dell’Incarnazione; e invita ognuno di noi a unire il nostro “sì” al suo, consapevoli che, soltanto nell’umiltà, il cuore umano è capace di rispondere alla chiamata di Dio.

 

IV Domenica di Quaresima anno C (30 Marzo 2025) 

 

*Prima Lettura Dal libro di Giosuè (5, 9a 10- 12)

Mosè non è entrato nella terra promessa perché è morto sul monte Nebo, in corrispondenza del Mar Morto, sul lato che oggi corrisponde alla riva giordana. Non è quindi lui che ha introdotto il popolo d’Israele in Palestina, ma il suo servitore e successore Giosuè. Tutto il libro di Giosuè racconta l’ingresso del popolo nella terra promessa, a partire dalla traversata del Giordano dato che le tribù d’Israele sono entrate in Palestina da est. L’obiettivo di chi ha scritto questo libro è abbastanza chiaro: se l’autore ricorda l’opera di Dio a favore d’Israele è per esortare il popolo alla fedeltà. Nelle poche righe del testo odierno si nasconde un vero e proprio sermone che si articola in due insegnamenti: in primo luogo, non bisogna mai dimenticare che Dio ha liberato il popolo dall’Egitto; e in secondo luogo, se l’ha liberato è per dargli questa terra come aveva promesso ai nostri padri. Tutto riceviamo da Dio, ma quando lo dimentichiamo, ci mettiamo da soli in situazioni senza uscita. Per tale ragione il testo fa continui paralleli tra l’uscita dall’Egitto, la vita nel deserto e l’ingresso in Canaan. Ad esempio, nel capitolo 3 del libro di Giosuè, la traversata del Giordano è raccontata in modo solenne come la ripetizione del miracolo del Mar Rosso. Nel testo di questa domenica, l’autore insiste sulla Pasqua: “celebrarono la Pasqua, al quattordici del mese, alla sera”. Come la celebrazione della Pasqua aveva segnato l’uscita dall’Egitto e il miracolo del Mar Rosso, anche ora la Pasqua segue l’ingresso nella terra promessa e il miracolo del Giordano. Si tratta di paralleli intenzionali con i quali l’autore vuol dire che, dall’inizio alla fine di questa incredibile avventura, è lo stesso Dio che agisce per liberare il suo popolo, in vista della terra promessa. Il libro di Giosuè viene immediatamente dopo il Deuteronomio. “Giosuè” non è il suo nome, ma il soprannome datogli da Mosè: all’inizio, si chiamava semplicemente “Hoshéa”, “Osea” che significa “Egli salva” e Il nuovo nome, “Giosuè” (“Yeoshoua”) contiene il nome di Dio a indicare più esplicitamente che solo Dio salva. Giosuè del resto ha ben compreso che lui da solo non può liberare il suo popolo. La seconda parte dell’odierno testo è sorprendente perché all’apparenza si parla solo di cibo, ma c’è ben altro: “Il giorno dopo la Pasqua, mangiarono i prodotti di quella terra: azzimi e frumento abbrustolito. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna: quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.” Questo cambiamento di cibo fa pensare a uno svezzamento: si volta pagina, inizia una nuova vita e finisce il periodo del deserto con le sue difficoltà, recriminazioni e anche soluzioni miracolose. Ora Israele, arrivato nella terra donata da Dio, non sarà più nomade, ma popolo sedentario di agricoltori nutrendosi dei prodotti del suolo; un popolo adulto e responsabile della propria sussistenza. Avendo i mezzi per provvedere da solo ai propri bisogni, Dio non si sostituisce a lui perché nutre grande rispetto per la sua libertà. Questo popolo però non dimenticherà la manna e ne conserverà la lezione: come il Signore ha provveduto nel deserto, così Israele deve diventare sollecito verso chi per varie ragioni è in difficoltà. E’ detto chiaramente nel Libro del Deuteronomio: Dio ci ha insegnato a nutrire i poveri per aver fatto scendere il pane dal cielo per i figli d’Israele e adesso a noi tocca fare altrettanto (cf Dt.34, 6). Infine, la traversata del Giordano e l’ingresso nella terra promessa, terra della libertà, aiuta a meglio comprendere il battesimo di Gesù nel Giordano che diventerà l segno della nuova entrata nella vera terra della libertà. 

 

*Salmo responsoriale (33 (34) 2-3, 4-5, 6-7)

In questo salmo, come in altri, ogni versetto è costruito in due righe in dialogo e l’ideale sarebbe cantarlo a due cori alternati, riga per riga. E’ composto da 22 versetti corrispondenti alle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, in poesia chiamato acrostico: ogni lettera dell’alfabeto è posta verticalmente davanti a ogni versetto, che inizia con la lettera corrispondente nel margine. Questo procedimento, abbastanza frequente nei salmi, indica che ci troviamo di fronte a un salmo di ringraziamento per l’Alleanza. Potremmo dire che è la risposta alla prima lettura tratta dal libro di Giosuè, dove pur raccontando una storia, in realtà c’è un invito a rendere grazie per tutto ciò che Dio ha compiuto per Israele.  Il linguaggio del ringraziamento è onnipresente, come si nota già nei primi versetti: “Benedirò il Signore in ogni tempo… sulla mia bocca sempre la sua lode…magnificate con me il Signore… esaltiamo insieme il suo nome”. A parlare è Israele, testimone dell’opera di Dio: un Dio che risponde, libera, ascolta, salva: “Ho cercato il Signore: mi ha risposto; da ogni paura mi ha liberato… questo povero grida e il Signore lo ascolta: lo salva da tutte le sue angosce.”  Quest’attenzione di Dio emerge nel passo del capitolo 3 dell’Esodo, che era la prima lettura della scorsa domenica, terza di Quaresima cioè l’episodio del roveto ardente: “Ho visto la miseria del mio popolo… il suo grido è giunto fino a me… conosco le sue sofferenze”. Israele è il povero liberato della misericordia di Dio, come leggiamo in questo salmo e che ha scoperto la sua duplice missione: anzitutto insegnare a tutti gli umili la fede, intesa come dialogo tra Dio e l’uomo che grida la sua angoscia e Dio lo ascolta, lo libera e viene in suo aiuto; in secondo luogo essere disposti a collaborare con l’opera di Dio. Come Mosè e Giosuè sono stati strumenti di Dio per liberare il suo popolo e introdurlo nella terra promessa, così Israele sarà l’orecchio attento ai poveri e lo strumento della sollecitudine di Dio per loro: “i poveri ascoltino e si rallegrino”. Israele deve far risuonare lungo i secoli questo grido, che è una polifonia intrecciata di sofferenza, lode e speranza per alleviare ogni forma di povertà. Occorre però essere poveri nel cuore con il realismo di riconoscersi piccoli e invocare Dio in aiuto nella certezza che ci accompagna in ogni circostanz per aiutarci ad affrontare gli ostacoli della vita. 

 

*Seconda Lettura dalla seconda Lettera di san Paolo ai Corinti (5, 17-21)

Si può comprendere questo testo in due modi e tutto ruota attorno alla frase centrale: “non imputando (Dio) agli uomini le loro colpe” (v.19) che può avere due significati. Il primo: fin dall’inizio del mondo, Dio ha tenuto il conto dei peccati degli uomini, ma, nella sua grande misericordia, ha accettato di cancellarli grazie al sacrificio di Gesù Cristo e questa è la cosiddetta “sostituzione”, cioè Gesù si è fatto carico al nostro posto di un debito troppo grande per noi. Secondo: Dio non ha mai contato i peccati degli uomini e Cristo è venuto nel mondo per mostrarci che Dio è da sempre amore e perdono, come leggiamo nel salmo 102 (103): “Dio allontana da noi i nostri peccati”. L’intero cammino della rivelazione biblica ci fa passare dalla prima ipotesi alla seconda e, per capire meglio, occorre rispondere a queste tre domande: Dio tiene il conto dei nostri peccati? Si può parlare di «sostituzione» nella morte di Cristo? Se Dio non fa calcoli con noi e se non possiamo parlare di «sostituzione», come interpretare questo testo di Paolo?

Primo: Dio tiene il conto dei nostri peccati? All’inizio della storia dell’Alleanza, sicuramente Israele  ne era convinto e si capisce perché. L’uomo non può scoprire Dio se Dio stesso non gli si rivela. Ad Abramo Dio non parla di peccato, ma di alleanza, di promessa, di benedizione, di discendenza, e mai appare la parola “merito”. “Abramo ebbe fede nel Signore e ciò gli fu accreditato come giustizia” (Gen 15,6), dunque la fede è l’unica cosa che conta. Dio non tiene i conti delle nostre azioni, il che però non significa che possiamo fare qualsiasi cosa, perché siamo responsabili della costruzione del Regno. A Mosè il Signore si rivela come misericordioso e clemente, lento all’ira e ricco di amore (cf. Es 34,6). Davide, proprio in occasione del suo peccato, capisce che il perdono di Dio precede persino il nostro pentimento ed Isaia osserva  che Dio ci sorprende perché i suoi pensieri non sono i nostri pensieri: Egli è solo perdono per i peccatori (cf Is 55,6-8). Nell’Antico Testamento il popolo eletto sapeva già che Dio è tenerezza e perdono e l’ha chiamato Padre molto prima di noi. La parabola di Giona, ad esempio, è stata scritta proprio per mostrare che Dio si prende cura persino dei Niniviti, nemici storici di Israele.

Secondo: Si può parlare di «sostituzione» nella morte di Cristo? Se Dio non tiene il conto dei peccati e quindi non abbiamo un debito da pagare, non c’è bisogno che Gesù si sostituisca a noi. Inoltre, i testi del Nuovo Testamento parlano di solidarietà, mai di sostituzione e Gesù non agisce al nostro posto e non è nemmeno il nostro rappresentante. Egli è il «primogenito» come dice Paolo, che ci apre la strada e cammina davanti a noi. Mescolato con i peccatori ha chiesto il Battesimo da Giovanni e sulla croce ha accettato di dare la vita sulla croce per noi. Si è avvicinato a noi affinché noi potessimo avvicinarci a Lui.

Terzo: Come va quindi interpretato questo testo di Paolo? Anzitutto, Dio non ha mai tenuto il conto dei peccati degli uomini e Cristo è venuto nel mondo per farcelo comprendere. Quando a Pilato dice: “Sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37), afferma che la sua missione è rivelare il volto di Dio che è da sempre amore e perdono. E quando Paolo scrive: “… non imputando (Dio) agli uomini le loro colpe” intende chiarire che Dio cancella le nostre false idee su di Lui, quelle che lo dipingono come un contabile.  Gesù è venuto per mostrare il volto di Dio Amore, ma è stato rifiutato e per questo ha accettato di morire. Era diventato troppo scomodo per le autorità religiose del tempo, che pensavano di sapere meglio di lui chi fosse Dio ed è dunque morto in croce a causa dell’orgoglio umano che si è trasformato in odio implacabile. A Filippo nel cenacolo disse: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9) e pur in mezzo all’umiliazione e all’odio ha proferito solamente parole di perdono. Si comprende a questo punto la frase con cui si chiude questo brano: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (v. 21). Sul volto di Cristo crocifisso contempliamo fino a che punto arriva l’orrore del nostro peccato, ma anche fino a che punto giunge il perdono di Dio e da questa contemplazione può nascere la nostra conversione: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, testo del profeta  Zaccaria (12,10), che troviamo nel IV vangelo (Gv 19,37). Da qui nasce per noi la vocazione di ambasciatori dell’amore di Dio: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (v.20).

 

*Dal Vangelo secondo Luca (15, 1-3. 11-32)

La chiave interpretativa di questo testo si trova proprio nelle prime parole. Scrive san Luca che “si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo” mentre “i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. I primi sono pubblici peccatori da evitare, mentre gli altri sono persone oneste, che cercano di fare ciò che piace a Dio. In verità i farisei erano in genere persone rette, pie e fedeli alla Legge di Mosè, scioccate però dal comportamento di Gesù che sembra non capire con chi ha a che fare se persino mangia e si mescola con i peccatori. Dio è il Santo e per loro c’era un’incompatibilità totale tra Dio e i peccatori e pertanto Gesù, se era veramente da Dio, doveva evitare di frequentarli. Questa parabola intende aiutare a scoprire il vero volto di Dio che è Padre. In effetti, il personaggio principale di questa storia è Dio stesso, il padre che ha due tipi di figli, entrambi con almeno un punto in comune, cioè il modo di concepire  la relazione con il padre in termini di meriti e contabilità anche se si comportano in maniera differente: il minore l’offende gravemente, a differenza del maggiore, e alla fine però riconosce il suo peccato: “Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”; il maggiore  invece si vanta di aver sempre obbedito si lamenta però di non aver mai ricevuto nemmeno un capretto come meriterebbe. Il Padre è fuori da questi calcoli e non vuole sentir parlare di meriti perché ama i suoi figli e in questa relazione non c’è spazio per il calcolo della contabilità. Al minore, che aveva preteso “la mia parte di patrimonio che mi spetta”, si era spinto ben oltre la richiesta, come alla fine dirà a entrambi: tutto ciò che è mio è vostro. Al figlio prodigo che torna non lascia nemmeno il tempo di esprimere un qualche pentimento, non esige spiegazioni; al contrario vuole subito fare festa, perché “questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato”. Chiara la lezione: con Dio non è questione di calcoli, meriti, anche se facciamo fatica a debellare questa mentalità e tutta la Bibbia, fin dall’Antico Testamento, mostra la lenta e paziente pedagogia con cui Dio cerca di farsi conoscere come Padre, pronto a far festa ogni volta che ritorniamo da lui.

Due piccoli commenti per concludere:

1. Nella prima lettura, tratta dal libro di Giosuè, Israele viene nutrito dalla manna durante la traversata del deserto, mentre qui non c’è manna per il figlio che rifiuta di vivere con suo padre e si ritrova in un deserto esistenziale, perché si è tagliato fuori da solo. 

2. Circa invece il legame con la parabola della pecora smarrita, che si trova sempre in questo capitolo di Luca, si osserva che il pastore va a cercare la pecora smarrita e la riporta indietro mettendola sulle spalle, il padre invece non impedisce al figlio di partire e non lo costringe a tornare perché rispetta fino in fondo la sua libertà.

+Giovanni D’Ercole

Lunedì, 17 Marzo 2025 23:36

3a Domenica di Quaresima (C)

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

3a Domenica di Quaresima (anno C)  [23 Marzo 2025]

 

*Prima Lettura dal libro dell’Esodo (3, 1-8a.10.13-15)

Questo testo ha un’importanza fondamentale per la fede di Israele e anche per noi perché per la prima volta l’umanità scopre di essere amata da Dio, un Dio che vede, sente e conosce le nostre sofferenze. Mai l’uomo avrebbe potuto giungere a tanto se Dio stesso non avesse deciso di rivelarsi e, proprio a partire dalla sua autonoma rivelazione, è nata la fede d’Israele e, di conseguenza, anche la nostra. Dobbiamo cogliere la forza di questo testo biblico che purtroppo la traduzione liturgica rende debolmente. Quando leggiamo: “ho osservato la miseria del mio popolo”, il testo ebraico è molto più insistente per cui sarebbe più corretto tradurre così, sentendo la voce Dio: “davvero ho visto, sì, ho visto” la miseria del mio popolo in Egitto. Una miseria reale come si evince dalla storia del popolo ebreo emigrato secoli prima a causa di una carestia, e, mentre all’inizio le cose andavano bene, poi essendo cresciuto il loro numero, proprio quando nacque Mosè gli Egiziani cominciarono a preoccuparsi. Trattennero gli Ebrei come manodopera a basso costo, ma vollero impedirne la crescita demografica facendo uccidere ogni neonato maschio dalle levatrici. Mosè si salvò perché adottato dalla figlia del Faraone e crebbe alla sua corte non potendo però dimenticare le sue origini, continuamente diviso tra la sua famiglia adottiva e i suoi fratelli di sangue, ridotti all’impotenza e alla rivolta. Finché un giorno uccise un egiziano che usava violenza verso un ebreo, ma il giorno dopo, intervenendo tra due ebrei che litigavano gli dissero di non intromettersi e questo voleva dire che non gli riconoscevano la responsabilità di guidare una ribellione contro il Faraone mentre il Faraone aveva deciso di punirlo per l’omicidio dell’egiziano. Mosè si vide costretto, per evitare la vendetta, a fuggire nel deserto del Sinai, dove prese come sposa una madianita, Sippora, figlia di Ietro e l’odierno testo parte da qui. Mentre pascolava il gregge del suocero, un giorno arrivò oltre il deserto al monte di Dio, l’Oreb dove incontrò Dio che gli affidò la grande missione. Attenzione! Mosè sentiva la miseria dei suoi fratelli e aveva rischiato la vita per loro uccidendo un egiziano, ma dovette riconoscere la sua impotenza per cui era fuggito emarginato dai suoi fratelli di sangue che non riconoscevano a lui nessuna autorità. E’ dunque un uomo umanamente fallito che si avvicina a uno strano roveto ardente e da qui la sua storia cambia totalmente. Chiudo con due riflessioni. La prima: Mosè incontra il Dio trascendente e al tempo stesso il Dio vicino. Trascendente perché ci si può avvicinare solo con timore e rispetto, ma anche il Dio vicino, che vede la miseria del suo popolo e suscita un liberatore. Cogliamo la santità di Dio e il profondo rispetto dell’uomo di fronte alla sua presenza in queste espressioni: “l'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto”. Per indicare la presenza di Dio si usa la perifrasi: “l’Angelo del Signore” che è un modo rispettoso di parlare di Dio, come pure le parole: “Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo”; e infine “Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio”. Dio però si rivela come il Dio vicino all’uomo, colui che si china sulla sua sofferenza. La seconda riflessione concerne il modo come Dio interviene: vede la sofferenza degli uomini, agisce e invia Mosè. Dio chiama un collaboratore, ma perché la liberazione si compia, colui che viene chiamato deve accettare di rispondere, e colui che soffre deve accettare di essere salvato. -

 

*Salmo responsoriale (102 (103), 1-2, 3-4, 6-7, 8.11)

Nella prima lettura, racconto del roveto ardente tratto dal libro dell’Esodo capitolo 3, Dio rivela il suo Nome: “Io sono” … cioè “con voi” nel profondo delle vostre sofferenze. Quasi facendo eco, il salmo responsoriale proclama: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all'ira e grande nell'amore”. Le due formulazioni del Mistero di Dio: “Io sono” e “Misericordioso e pietoso” si completano reciprocamente. Nell’episodio del roveto ardente l’espressione “Io sono” o “Io sono colui che sono” non va presa come la definizione di un concetto filosofico. La ripetizione del verbo “sono” è una forma idiomatica della lingua ebraica che serve a esprimere intensità e Dio comincia richiamando la lunga storia dell’Alleanza con i Padri: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” per esprimere la sua fedeltà con il suo popolo attraverso i secoli. Poi volle manifestare la sua compassione per Israele umiliato, ridotto in schiavitù in Egitto e solo allora rivela il suo Nome “Io sono”. La prima scoperta di Mosè sul Sinai fu proprio l’intensa presenza di Dio nel cuore della disperazione degli uomini: “Ho visto – diceva Dio – sì, ho visto la miseria del mio popolo in Egitto, e ho udito i suoi gridi sotto le percosse dei sorveglianti. Sì, conosco le sue sofferenze. Sono disceso per liberarlo…” Mosè conservò in maniera profonda tale memoria da trarne l’incredibile energia che lo trasformò da uomo solo, esiliato e rifiutato da tutti, nel condottiero instancabile e liberatore del suo popolo. Quando però Israele ricorda questa inedita avventura, sa benissimo che il suo primo liberatore è Dio, mentre Mosè ne è soltanto lo strumento. L’“Eccomi” di Mosè (come quello di Abramo, e di tanti altri in seguito) è la risposta che permette a Dio di realizzare la liberazione dell’umanità. E, d’ora in poi, quando si dice “”Il Signore” – traduzione delle quattro lettere (YHVH) del nome di Dio – si evoca la presenza liberatrice di Dio. Per meglio comprendere il mistero della presenza di Dio occorre tornare al racconto del roveto ardente: il roveto ardeva per il fuoco, ma non si consumava (cf Es 3,2). Dio si rivela in due modi: attraverso questa visione come attraverso la parola che proclama il suo Nome. Di fronte alla fiamma che arde un roveto senza consumarlo, Mosè è invitato a comprendere che Dio, paragonabile a un fuoco, è nel mezzo del suo popolo (il roveto) come presenza che non si consuma e non distrugge il popolo; Mosè si velò il volto e comprese che non bisogna aver paura. Così avvenne la vocazione d’Israele, luogo scelto dal Signore per manifestare la sua presenza e, da allora in poi, il popolo eletto testimonierà che Dio è tra gli uomini e non c’è nulla da temere.  Lo proclama il salmo responsoriale: “Misericordioso e pietoso è il Signore”, cioè tenerezza e pietà riprendendo un’altra rivelazione di Dio a Mosè (Es 34,6) e le due si fondono in un’unica verità. Il salmo continua: “Il Signore compie cose giuste, difende i diritti di tutti gli oppressi. Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d'Israele”. Dio è lo stesso da sempre a per sempre: è in mezzo a noi, fiamma, fuoco di tenerezza e pietà e Israele è chiamato a testimoniare questo nel mondo che ha bisogno di tale messaggio perché soffre se non vi arde tale fuoco. Da qui nasce la predicazione dei profeti che sempre pongono in luce due aspetti della vocazione di Israele: Proclamare la propria fede rivelando la verità di cui si è portatori ed agire a immagine del proprio Signore, operando cioè nella giustizia a difesa degli oppressi. Tutti i profeti lottarono contro l’idolatria perché un popolo che ha sperimentato la presenza del Dio che vede le sue sofferenze non può riporre fiducia in idoli di legno o di pietra e al tempo stesso deve difendere i diritti degli oppressi, come dice Isaia: “Il digiuno che mi piace…è condividere il tuo pane con chi ha fame, accogliere in casa i poveri senzatetto, vestire chi trovi nudo, non voltare le spalle al tuo simile” (Is 58,6-7). 

 

*Seconda lettura dalla Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (10, 1-6.10-12)

Per mettere in guardia la comunità di Corinto, essendo importante quanto sta per dire, Paolo inizia così: “Non voglio che ignoriate, fratelli”, ricorda poi ciò che è accaduto durante l’uscita dall’Egitto e termina con “quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”, cioè non sopravvalutatevi dato che nessuno è al riparo dalla tentazione. Nei primi capitoli della lettera l’Apostolo ha posto in guardia i cristiani di Corinto dai tanti rischi di corruzione e immoralità esistenti, invitando ad essere umili. Propone loro una rilettura dell’intera storia del popolo d’Israele durante l’Esodo: storia dove non sono mancati i doni di Dio, ma emerge sempre la volubilità dell’uomo. Dio promise a Mosè di essere il Dio fedele, presente al suo popolo nel difficile cammino verso la libertà, attraverso il deserto del Sinai, ma in cambio in molte occasioni il popolo ha tradito la sua Alleanza. L’Apostolo ripercorre le tappe narrate nel libro dell’Esodo, fin dalla partenza dall’Egitto prima ancora del passaggio del Mar Rosso, quando il Signore stesso aveva preso in mano la guida delle operazioni marciando alla loro testa di giorno in una colonna di nube, per indicar loro la via e di notte con una colonna di fuoco (cf Es 13,21-22). Fin dal primo accampamento, però, il popolo vedendo gli Egiziani alle spalle ebbe paura e si ribellò contro Mosè: “Forse perché in Egitto non c’erano tombe, ci hai portati a morire nel deserto? Che cosa ci hai fatto, facendoci uscire dall’Egitto? … Lasciaci stare, vogliamo servire gli Egiziani. Per noi è meglio servire gli Egiziani che morire nel deserto!”» (cf Es 14,10-11). E questo si ripeterà a ogni difficoltà perché il cammino della libertà è pieno di ostacoli e costante la tentazione di ricadere nella vecchia schiavitù. Paolo trasmette ai Corinzi questo messaggio: Cristo vi ha liberati, spesso però siete tentati di ricadere nei vecchi errori e non vi rendete conto che questi comportamenti vi rendono schiavi. Il cammino di Cristo vi sembra difficile, ma fidatevi di lui: solo lui è il vero liberatore. Anche nel passaggio del Mar Rosso, in una situazione umanamente disperata, Dio intervenne (cf Es 14,19) e il popolo poté attraversarlo perché le acque si aprirono per lasciarlo passare: «Il Signore durante tutta la notte sospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero» (Es 14,21). Le prove continueranno e, in molte occasioni, gli Israeliti torneranno a rimpiangere la sicurezza della schiavitù in Egitto. Si lamentano e a ribellarno invece di avere fiducia pur sapendo che Dio intervene sempre. L’episodio che meglio evidenzia questa crisi è quando nel deserto il popolo iniziò a soffrire realmente la sete e cominciò a protestare accusando Mosè e, attraverso di lui, Dio stesso: “Perché ci hai fatti salire dall’Egitto? Per farci morire di sete, noi, i nostri figli e il nostro bestiame?” (Es 17,3). Fu allora che Mosè colpì la Roccia e ne sgorgò acqua e diede a quel luogo il nome di Massa e Meriba, che significa “Prova e Contesa”, perché  i figli d’Israele avevano contestato il Signore (Es 17,7). I problemi dei Corinzi, ovviamente, non sono gli stessi, ma esistono altre “Egitto” e altre forme schiavitù: per questi nuovi cristiani ci sono delle scelte da compiere in nome del loro battesimo, ci sono comportamenti che non si possono più mantenere. E queste scelte diventano talora dolorose. Pensiamo alle esigenze del catecumenato che comportavano vere rinunce a certi comportamenti, a certe relazioni e talvolta persino a un mestiere; rinunce che si possono accettare soltanto quando si pone tutta la fiducia in Gesù Cristo. Nella società mista e particolarmente permissiva di Corinto, mantenere un comportamento cristiano richiedeva coraggio, ma sottolinea Paolo, ciò che sembra follia agli uomini è vera saggezza agli occhi di Dio. Non è un caso che, durante la Quaresima, la Chiesa c’invita a meditare questo testo di Paolo, che ricorda quando dobbiamo essere esigenti con noi stessi per non cadere nelle vecchie schiavitù, e invece quanta rinnovata fiducia va posta in Dio sempre e in ogni occasione.

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (13, 1-9)

 Nel vangelo di questa domenica troviamo il racconto di due fatti di cronaca nera, il commento di Gesù con la parabola del fico e il loro accostamento sorprende, anche se sicuramente l’evangelista ce lo propone intenzionalmente. Pertanto è proprio la parabola a poterci aiutare a comprendere il senso di che cosa Gesù vuol dire sui due fatti di cronaca.

Il primo concerne un massacro di pellegrini galilei venuti a Gerusalemme per offrire nel Tempio un sacrificio. Sono eventi che all’epoca non erano inusuali dato che era nota la crudeltà di Pilato e spesso i pellegrini erano accusati di essere oppositori del potere romano.  In verità la maggioranza del popolo ebreo mal tollerava l’occupazione dei romani e proprio dalla Galilea, all’epoca della nascita di Gesù, era partita la rivolta di Giuda il Galileo. Il secondo fatto di cronaca, il crollo della torre di Siloe con 18 vittime, era una tragedia come tante. Dalle parole di Gesù possiamo intuire la domanda che i discepoli avevano sulle labbra e che spesso sentiamo ripetere anche oggi: “Che hanno fatto di male per meritare questo castigo divino? È la grande domanda sulla sofferenza che fino ad a oggi è un problema irrisolto. Nella Bibbia, il libro di Giobbe pone il problema nel modo più drammatico e i tre amici – Elifaz, Bildad e Zofar – cercano di spiegare la sua sofferenza attraverso il principio della giustizia retributiva, secondo cui la sofferenza è una punizione per il peccato e quindi Giobbe deve aver commesso qualche colpa nascosta che giustifica le sue afflizioni.  Tuttavia, Giobbe si dichiara innocente e rifiuta queste spiegazioni. Alla fine del libro, Dio interviene e rimprovera gli amici di Giobbe per aver parlato in modo scorretto di Lui, rapprovando invece la sincerità di Giobbe nella sua ricerca di risposte. Complesso è il tema della sofferenza e Dio, che pur riconosce inefficaci tutti i tentativi umani d’interpretare il dolore perché il controllo degli eventi sfugge all’intelligenza dell’uomo, invita l’uomo a mantenere la fiducia in Dio in ogni difficoltà anche la più drammatica. Di fronte all’orrore del massacro dei Galilei e del crollo della torre di Siloe, Gesù è categorico: non c’è legame diretto tra la sofferenza e il peccato per cui quei galilei non erano più peccatori degli altri e né le diciotto persone schiacciate dalla torre di Siloe erano più colpevoli degli altri abitanti di Gerusalemme. Poi però, partendo da questi due eventi, invita i discepoli a una vera conversione, anzi insiste sull’urgenza di convertirsi, facendo eco agli appelli dei profeti come Amos, Isaia e tanti altri. Segue la parabola del fico, che attenua la durezza apparente delle sue parole perché mostra che i pensieri di Dio sono molto diversi da quelli degli uomini e ci mostra il volto di un Dio paziente e misericordioso. Per noi un fico sterile che sfrutta inutilmente il terreno va tagliato, cioè qualcuno che fa del male va punito subito e persino eliminato, ma non così pensa il nostro Dio che anzi afferma: “Com’è vero che io vivo – oracolo del Signore Dio – non provo piacere nella morte del malvagio, ma nella sua conversione, affinché viva” (Ez 33,11).  Gesù non ci chiede in primo luogo di cambiare i nostri comportamenti, ma di cambiare con urgenza l’immagine di un Dio che punisce. Anzi, proprio di fronte al male il Signore è “misericordioso e pietoso”, come dice il Salmo di questa domenica: misericordioso, cioè chinato sulle nostre miserie e la conversione che attende da noi è affidarci alla sua infinita e paziente misericordia. Insomma, riprendendo le conclusioni del libro di Giobbe, Gesù invita a non cercare di spiegare la sofferenza con il peccato e con altre teorie essendo un mistero, ma a conservare nonostante tutto la fiducia in Dio. E quando dice: “se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” vuole significare che l’umanità va verso la rovina quando perde la fiducia in Dio. Come Israele nel deserto, di cui Paolo ricorda l’avventura nella seconda lettura, anche noi siamo provocati a scegliere sempre se fidarci o nutrire il sospetto verso Dio. Dobbiamo però sapere che il suo disegno è sempre a nostro favore e se cambia il nostro cuore (è la conversione), cambierà anche il volto del mondo.

+Giovanni D’Ercole

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Ecco il commento ai testi di domenica prossima con l’assicurazione della preghiera per il Papa e per le grandi esigenze spiritual e sociali della nostra società.

2a Domenica di Quaresima anno C (16 Marzo 2025)

 

*Prima Lettura dal libro della Genesi (15,5-12.17-18)

 All’epoca di Abramo, l’alleanza fra due capi di tribù avveniva con un cerimoniale simile a quello qui descritto: si sacrificavano animali adulti nel pieno della loro forza che venivano squartati in due come a dire: mi succeda come a questi se non sarò fedele all’alleanza che stiamo stipulando. Inoltre entrambi i contraenti passavano a piedi nudi tra le carcasse volendo così condividere il sangue, cioè la vita e diventavano come consanguinei. Gli animali dovevano avere tre anni perché le madri allattavano i figli fino ai tre anni e il numero 3 era diventato simbolo di maturità cosi ché l’animale di tre anni veniva considerato adulto. Abramo compie questi riti abituali per un’alleanza con Dio che all’apparenza sembra rispettare i riti tradizionali eppure tutto è differente perché per la prima volta, nella storia umana, uno dei contraenti è Dio stesso. Simile a riti analoghi è che Abramo squarta gli animali in due e pone ogni metà una di fronte all’altra senza però dividere gli uccelli perché i rapaci calavano sulle carcasse e li scacciava considerandoli uccelli di male augurio (Abramo, pur avendo scoperto il vero Dio, conservava ancora una certa superstizione). Ciò che invece è diverso è che al tramonto Abramo cade in un sonno misterioso accompagnato da un’angoscia oscura e profonda e in quel momento vede passare tra i pezzi degli animali un braciere fumante e una fiaccola ardente. Il testo parla di un sonno misterioso, ma usa una parola che non è di uso comune ma già usata per indicare il sonno di Adamo mentre Dio creava la donna. E’ dunque un modo per dire due cose: anzitutto l’uomo non può assistere all’opera di Dio e quando l’uomo si risveglia (che sia Adamo o Abramo), ha inizio un nuovo giorno, una nuova creazione; inoltre mostra che l’uomo e Dio non sono sullo stesso piano perché nell’opera della creazione e dell’alleanza Dio prende tutta l’iniziativa mentre per l’uomo basterà fidarsi: Abramo ebbe fede nel Signore e il Signore lo considerò giusto. La presenza di Dio è simboleggiata dal fuoco, come spesso accade nella Bibbia: “un braciere fumante e una fiaccola ardente”, come il roveto ardente, il fumo del Sinai, la colonna di fuoco che accompagnava il popolo durante l’Esodo nel deserto, fino alle lingue di fuoco della Pentecoste. Questi i termini dell’alleanza: Dio promette ad Abramo una discendenza e una terra, discendenza e terra termini posti in inclusione nel racconto: all’inizio, Dio aveva detto: guarda il cielo e conta le stelle, se riesci… così sarà la tua discendenza, “Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra” e alla fine: «Alla tua discendenza io do questa terra”.  Sorprendente è questa promessa a un vecchio senza figli e non è la prima volta che Dio gliela fa anche se fino ad ora Abramo non ha visto nemmeno l’ombra della sua realizzazione pur continuando a camminare sostenuto unicamente dalla promessa di un Dio a lui sconosciuto. Ricordiamo i precedenti della sua vocazione: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò. Farò di te una grande nazione (Gn 12,1) e la Bibbia ha sempre sottolineato l’indomita fede di Abramo che “partì come il Signore gli aveva detto” (Gen 12,4). Qui, il testo afferma: “Abramo ebbe fede nel Signore, e il Signore lo considerò giusto”. È la prima apparizione della parola fede nella Bibbia: è l’irruzione della fede nella storia dell’umanità. Il verbo credere in ebraico deriva da una radice che significa stare fermamente: Amen deriva dalla stessa radice. Credere significa stare saldo, fidarsi fino in fondo, anche nel dubbio, nello scoraggiamento e nell’angoscia. Questa è l’attitudine di Abramo; ed è per questo che Dio lo considera giusto e nella Bibbia il giusto è colui la cui volontà è secondo la volontà di Dio. Più tardi, san Paolo si baserà su questa frase per affermare che la salvezza non è questione di meriti: «Se credi… sarai salvato» (Rm 10,9). A ben riflettere, Dio dona e ci chiede una sola cosa… crederci, cioè fidarci di lui. 

Note d’approfondimento.

v.7: «Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei»; è lo stesso verbo usato per l’uscita dall’Egitto con Mosè, seicento anni dopo: l’opera di Dio è presentata fin dall’inizio come un’opera di liberazione.

• v.12: «sonno misterioso» = tardemah = stessa parola usata per Adamo, Abramo e Saul (1 Sam 26).

 

*Salmo responsoriale (26 (27),1.7-8.9a-d.13-14)

 Questo salmo presenta degli stati d’animo così contrastanti che si potrebbe quasi dubitare che sia la stessa persona a parlare dall’inizio alla fine, ma, a ben considerare, esprime sempre la stessa fede che si manifesta sia nell’esultanza che nella supplica secondo gli stati dell’animo dell’orante che si sente autorizzato a dire tutto al Signore. E così la preghiera abbraccia l’intera esistenza dell’uomo: serenità che nasce dalla certezza – “Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita:di chi avrò paura?”, unita a un’ardente supplica – “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!”.Israele ha sempre mantenuto salda la fiducia in mezzo alle sue vicissitudini e anzi nelle difficoltà ha reso più vera la propria fede. Infine, tra la prima e l’ultima strofa, c’è il passaggio dal presente al futuro: nella prima strofa, “Il Signore è mia luce e mia salvezza” che è il linguaggio della fede, cioè della fiducia incrollabile, mentre nell’ultima strofa, “Sono certo di contemplare la bontà del Signore… e spera nel Signore, sii forte” esprime speranza coniugata insieme a fede al futuro. C’è modo di commentare questo salmo spesso nel ciclo liturgico triennale per cui oggi ci fermiamo solo su questi due versetti: “Il tuo volto, Signore, io cerco” e “sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”.  Prima di tutto, “Il tuo volto, Signore, io cerco”: vedere il volto di Dio è il desiderio, la sete di ogni credente perché siamo creati a immagine di Dio e siamo attratti da lui, nostro Creatore. Il desiderio di  cercare il suo volto si fa più intenso nel tempo di Quaresima. Come il Signore disse a Mosè, noi non possiamo vederlo e restare in vita (cf Es 33,18-23. In questo testo è presente insieme alla grandezza e alla inaccessibilità di Dio, anche tutta la tenera vicinanza di Dio, talmente immenso che non possiamo vederlo con i nostri occhi. Il fulgore della sua Presenza ineffabile, inaccessibile – ciò che i testi chiamano la sua gloria – è infatti troppo accecante per noi. Possono i nostri occhi fissare il sole? Come potranno allora guardare Dio? Questa grandezza però non schiaccia l’uomo, anzi, lo protegge, è la sua sicurezza e il profondo rispetto che invade il credente davanti a Dio non suscita paura, ma un misto di totale fiducia e infinito rispetto che la Bibbia chiama “timore di Dio”. Questo ci aiuta a comprendere il primo versetto: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?” Cioè: chi crede non ha più paura di niente, nemmeno della morte, e nessun altro dio potrà mai suscitare in lui quel sentimento religioso di timore, come ribadisce il versetto successivo: “il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura? Fiducia che troviamo ancora nell’ultima strofa: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. Ma quale è la terra dei viventi? Di certo la terra donata al suo popolo e di cui il possesso è diventato per Israele un simbolo dei doni di Dio, ma c’è anche il richiamo alle esigenze dell’Alleanza: la terra santa è stata data al popolo eletto affinché vi viva santamente. E questo è è uno dei temi principali del libro del Deuteronomio (cf Dt 5,32-33), dove i viventi nel senso biblico sono i credenti.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo ai Filippesi (3,17-4,1)

La questione fondamentale del cristianesimo e centrale nella storia dell’umanità, come emerge nel vangelo, negli Atti degli Apostoli, nelle lettere di Paolo e che continua ancor oggi ad essere attuale, è questa: l’incarnazione, la passione, morte e risurrezione di Cristo che l’apostolo chiama qui “la croce di Cristo”.  Se Cristo è veramente morto e risuscitato, il volto del mondo è cambiato perché lui ha fatto la pace con il sangue della sua croce. Per Paolo la croce di Cristo è davvero l’evento cruciale del cristiano per cui cambia il modo di pensare, di ragionare e di vivere. Chi pensa che il rito della circoncisione rimane anche ora indispensabile, agisce come se l’evento della “croce di Cristo” non è avvenuto e san Paolo li chiama i “nemici della croce di Cristo”. I Filippesi forse erano titubanti, ma san Paolo li mette in guardia in maniera severa invitandoli a fare attenzione ai cani, ai cattivi operai e ai falsi circoncisi (3,2) aggiungendo che i circoncisi (veri) siamo noi, che rendiamo culto per mezzo dello Spirito di Dio ponendo la nostra gloria in Gesù Cristo senza confidare in noi stessi. Usa persino un paradosso: i veri circoncisi sono quelli che non sono circoncisi nella loro carne, ma battezzati in Gesù Cristo perché tutta la loro esistenza e la loro salvezza é in Gesù Cristo e sanno di essere salvati dalla croce di Cristo e non dalle pratiche rituali. Falsi circoncisi sono invece quanti hanno ricevuto la circoncisione nella loro carne, secondo la legge di Mosè e attribuiscono a questo rito una importanza più grande del battesimo. E quando Paolo afferma che “il ventre è il loro dio” si riferisce proprio alla circoncisione. Inoltre Paolo intravede un’altra insidia nell’attitudine del credente: la salvezza si guadagna con le proprie pratiche oppure la riceviamo gratuitamente da Dio? Quando dice che il ventre è il loro dio vuol far capire che queste persone scommettono sulle pratiche rituali ebraiche e si sbagliano: “si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra” per cui “la loro sorte finale sarà la perdizione”.  E continua indicando quale sia la scelta giusta: ricorda ai Filippesi che la nostra cittadinanza è nei cieli mentre attendiamo come salvatore Gesù Cristo, che trasformerà i nostri poveri corpi a immagine del suo corpo glorioso, con la potenza attiva che lo rende perfino capace di sottomettere ogni cosa al suo dominio. Se lo attendiamo come salvatore significa riconoscere che tutta la nostra fiducia è posta in lui e non in noi stessi e nei nostri meriti. Siamo così i veri circoncisi e rendiamo culto per mezzo dello Spirito di Dio, perché la nostra gloria è posta in Gesù Cristo e non confidiamo in noi stessi. A questo punto Paolo si pone come modello dato che se c’era uno con meriti da far valere secondo la legge ebraica era proprio lui. Scrive infatti che se qualcun altro crede di poter confidare in sé stesso, io posso farlo ancor di più, io, circonciso l’ottavo giorno, della discendenza d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo, figlio di Ebrei; per la legge, fariseo; per lo zelo, persecutore della Chiesa; per la giustizia che si trova nella legge, divenuto irreprensibile. Ora tutte queste cose, che per me erano guadagni, le ho ritenute come una perdita a causa di Cristo (cf Fil 3,4-7). In sintesi,  prendere esempio da Paolo significa fare di Gesù Cristo – e non delle nostre pratiche – il centro della nostra vita e questo significa  essere “cittadini dei cieli”.

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (9, 28-36)

Nel capitolo nove Luca racconta che Gesù, mentre stava pregando in un luogo solitario, pose ai discepoli questa domanda: “le folle chi dicono che io sia?”, poi a loro: “Ma voi chi dite che io sia? e Pietro rispose: “Il Cristo (cioè il Messia) di Dio”. Gesù annunciò allora la necessità  del sacrificio del Figlio dell’uomo respinto dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, messo a morte ma risorto il terzo giorno. L’odierno episodio sembra riprendere lo stesso discorso otto giorni dopo. Gesù conduce Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte perché desidera nuovamente pregare con loro ed è in tale contesto che Dio sceglie di rivelare a questi tre privilegiati il mistero del Messia. Qui non sono più gli uomini, la folla o i discepoli, a esprimere la loro opinione, ma è Dio stesso che ci invita a contemplare il mistero del Cristo: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!” Il monte della Trasfigurazione fa pensare al Sinai e Luca sceglie un vocabolario che evoca il contesto della rivelazione di Dio sul Sinai: il monte, la nube, la gloria, la voce che risuona, le tende. Comprensibile la presenza di Mosè ed Elia visto che Mosè trascorse quaranta giorni sul Sinai in presenza di Dio e discese con il volto così raggiante da stupire tutti. Elia invece camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte dove Dio si rivelò in un modo totalmente inatteso: non nella potenza del vento, del fuoco, del terremoto, ma nel dolce sussurro di una brezza leggera. I due personaggi dell’Antico Testamento che ebbero il privilegio di vedere la gloria di Dio, sono presenti anche qui dove si manifesta la gloria di Cristo. Soltanto Luca precisa il contenuto del loro colloquio con Gesù, cioè stavano parlando del suo esodo che stava per compiersi a Gerusalemme. Luca usa la parola esodo perché non si può separare la gloria di Cristo dalla Croce e dalla risurrezione, che chiama la Pasqua di Cristo. Come la Pasqua di Mosè inaugurò l’Esodo d’Israele dalla schiavitù in Egitto verso la terra della libertà, la Pasqua di Cristo apre il cammino della liberazione per tutta l’umanità. Dalla nube una voce dice: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”. Queste tre parole: Figlio mio, Eletto, Ascoltatelo esprimevano al tempo di Cristo la diversità dei ritratti con cui si immaginava il Messia. Il titolo di Figlio di Dio veniva conferito ai re il giorno della loro consacrazione; l’Eletto è uno dei nomi del servo di Dio di cui parla Isaia nei Canti del servo: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio Eletto”; Ascoltatelo, sembra alludere alla promessa che Dio fece a Mosè di suscitare dopo di lui un profeta: “Susciterò loro un profeta come te tra i loro fratelli; metterò le mie parole nella sua bocca” (Dt 18, 18) e alcuni ne deducevano che il Messia atteso sarebbe stato un profeta. “Ascoltatelo”, non è l’ordine di un maestro esigente o dominante, ma una supplica: Ascoltatelo, cioè abbiate fiducia in lui. Pietro, contemplando il volto trasfigurato di Gesù, propone di stabilirsi sul monte tutti insieme, ma Luca precisa che non sapeva quello che diceva perché non è il caso di isolarsi dal mondo e dai suoi problemi dato che il tempo è breve. Il progetto di Dio non è per pochi eletti: Pietro, Giacomo e Giovanni devono piuttosto affrettarsi a raggiungere gli altri e lavorare perché nell’ultimo giorno, sarà l’intera umanità a essere trasfigurata. Paolo nella lettera ai Filippesi lo dice alla sua maniera: “noi siamo cittadini del cielo”.

+Giovanni D’Ercole

 

 

Ecco una sintesi per coloro che lo desiderano 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

 

*Prima Lettura dal libro della Genesi (15,5-12.17-18)

 All’epoca di Abramo, l’alleanza fra due capi di tribù avveniva con un cerimoniale simile a quello qui descritto: si sacrificavano animali adulti nel pieno della loro forza squartati in due come a dire: mi succeda come a questi se non sarò fedele all’alleanza che stiamo stipulando. Inoltre entrambi i contraenti passavano a piedi nudi tra le carcasse volendo così condividere il sangue, cioè la vita e diventavano come consanguinei. Gli animali dovevano avere tre anni perché le madri allattavano i figli fino ai tre anni e il numero 3 era diventato simbolo di maturità cosi ché l’animale di tre anni veniva considerato adulto. Abramo compie questi riti abituali per un’alleanza con Dio. All’apparenza sembra rispettare i riti tradizionali eppure tutto è differente perché per la prima volta nella storia umana, uno dei contraenti è Dio stesso. Vediamo da vicino anzitutto ciò che è simile: Abramo squarta gli animali in due e pone ogni metà una di fronte all’altra senza però dividere gli uccelli perché i rapaci calavano sulle carcasse e Abramo li scacciava considerandoli uccelli di male augurio. Ma c’è qualcosa d’insolito: al tramonto, Abramo cade in un sonno misterioso accompagnato da un’angoscia oscura e profonda. Il testo parla di un sonno misterioso, una parola già usata per indicare il sonno di Adamo mentre Dio creava la donna e serve per dire due cose: anzitutto l’uomo non può assistere all’opera di Dio e quando l’uomo si risveglia (che sia Adamo o Abramo), ha inizio un nuovo giorno, una nuova creazione. Inoltre l’uomo e Dio non sono sullo stesso piano perché nell’opera della creazione e dell’alleanza Dio prende tutta l’iniziativa mentre all’uomo basterà fidarsi: Abramo ebbe fede e il Signore lo considerò giusto. La presenza di Dio è simboleggiata dal fuoco, come spesso accade nella Bibbia: “un braciere fumante e una fiaccola ardente”, come il roveto ardente, il fumo del Sinai, la colonna di fuoco che accompagnava il popolo durante l’Esodo nel deserto, fino alle lingue di fuoco della Pentecoste. Questi i termini dell’alleanza: Dio promette ad Abramo una discendenza e una terra, promessa già fatta a un vecchio senza figli anche se fino ad ora Abramo non ha visto nemmeno l’ombra della sua realizzazione, ma continua a fidarsi di un Dio a lui sconosciuto. Per la prima appare la parola fede nella Bibbia: è l’irruzione della fede nella storia dell’umanità. Il verbo credere in ebraico deriva da una radice che significa stare fermamente: Amen deriva dalla stessa radice. Credere significa stare saldo, fidarsi fino in fondo, anche nel dubbio, nello scoraggiamento e nell’angoscia. Questa è l’attitudine di Abramo; ed è per questo che Dio lo considera giusto. Il testo afferma: “Abramo ebbe fede nel Signore, e il Signore lo considerò giusto”. Più tardi, san Paolo si baserà su questa frase per affermare che la salvezza non è una questione di meriti: «Se credi… sarai salvato» (Rm 10,9). A ben riflettere, Dio dona tutto e ci chiede una sola cosa: fidarci di lui. 

 

*Salmo responsoriale (26 (27),1.7-8.9a-d.13-14)

 Questo salmo presenta degli stati d’animo così contrastanti che si potrebbe quasi dubitare che sia la stessa persona a parlare dall’inizio alla fine, ma, a ben considerare, esprime sempre la stessa fede che si manifesta sia nell’esultanza che nella supplica secondo gli stati dell’animo nei quali ci troviamo perché la preghiera abbraccia l’intera esistenza dell’uomo. La serenità nasce dalla certezza – “Il Signore è mia luce e mia salvezza… è difesa della mia vita: di chi avrò paura?”, insieme all’ardente supplica – “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!”. Nei momenti di gioia e in quelli di prova Israele ha sempre mantenuto salda la fiducia e anzi nelle difficoltà ha reso più vera la propria fede. Questo salmo torna spesso nel ciclo liturgico triennale per cui oggi ci fermiamo solo su questi due versetti: “Il tuo volto, Signore, io cerco” e “sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”.  Vedere il volto di Dio è il desiderio di ogni credente perché siamo creati a immagine di Dio e siamo attratti da lui, ma il fulgore della sua Presenza ineffabile, che la Bibbia chiama la sua gloria, è troppo accecante per noi. Possono i nostri occhi fissare il sole? Come potranno allora guardare Dio? Questa grandezza però non schiaccia l’uomo, anzi, lo protegge, è la sua sicurezza e il profondo rispetto che invade il credente davanti a Dio non suscita paura, ma un misto di totale fiducia e infinito rispetto che la Bibbia chiama “timore di Dio”. Questo ci aiuta a comprendere il primo versetto: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?” Cioè: il credente non ha più paura di nulla e di nessuno, nemmeno della morte, e nessun altro dio potrà mai più suscitare in lui quel sentimento religioso di timore, come ribadisce il versetto successivo: “il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura? Troviamo la fiiducia ancora nell’ultima strofa: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. E i viventi nel senso biblico sono i credenti.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo ai Filippesi (3,17-4,1)

La questione fondamentale del cristianesimo e centrale nella storia dell’umanità, come emerge nel vangelo, negli Atti degli Apostoli, nelle lettere di Paolo e che continua ancor oggi ad essere attuale, è questa: l’incarnazione, la passione, morte e risurrezione di Cristo che l’apostolo chiama qui “la croce di Cristo”.  Se Cristo è veramente morto e risuscitato, il volto del mondo è cambiato perché lui ha fatto la pace con il sangue della sua croce. Per Paolo la croce di Cristo è davvero l’evento cruciale del cristiano per cui cambia il modo di pensare, di ragionare e di vivere. Chi pensava che il rito della circoncisione era anche indispensabile, agiva come se l’evento della “croce di Cristo” non fosse avvenuto e san Paolo li chiama i “nemici della croce di Cristo”. I Filippesi forse erano titubanti e san Paolo li invita a fare attenzione ai falsi circoncisi (3,2) aggiungendo che i veri circoncisi siamo noi, che poniamo tutta la nostra fiducia in Gesù Cristo. E arriva a usare un paradosso: i veri circoncisi sono quelli che non sono circoncisi nella loro carne, ma battezzati in Gesù Cristo perché tutta la loro esistenza è in Cristo e sanno di essere salvati dalla croce di Cristo e non dalle pratiche rituali. Quando Paolo afferma che “il ventre è il loro dio” si riferisce proprio alla circoncisione e vuol far capire che queste persone scommettono sulle loro pratiche rituali. La scelta giusta è ricordare che siamo cittadini del cielo e attendiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, che trasformerà i nostri poveri corpi a immagine del suo corpo glorioso. Se attendiamo Cristo come salvatore vuol dire che riconosciamo che tutta la nostra fiducia è in lui e non in noi stessi e nei nostri meriti. Siamo così i circoncisi (i veri) e rendiamo culto per mezzo dello Spirito di Dio, perché la nostra gloria è posta in Gesù Cristo e non confidiamo in noi stessi. A questo punto Paolo si pone come modello dato che se c’era uno con meriti da far valere secondo la legge ebraica era proprio lui. Ponendosi come esempio c’incoraggia a fare di Cristo, e non delle pratiche rituali, il centro della nostra vita e se siamo in Cristo siamo già “cittadini dei cieli”, pur abitando ancora sulla terra. 

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (9, 28-36)

Nel capitolo nove Luca racconta che Gesù, mentre stava pregando in un luogo solitario, chiese ai discepoli: “le folle chi dicono che io sia?”, poi a loro: “Ma voi chi dite che io sia? e Pietro rispose: “Il Cristo (cioè il Messia) di Dio”. E Gesù disse: é necessario che il Figlio dell’uomo soffra molto, sia respinto, messo a morte e, il terzo giorno, risorga. L’odierno episodio sembra riprendere lo stesso discorso otto giorni dopo con Gesù che conduce Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte perché desidera nuovamente pregare con loro e in tale contesto Dio sceglie di rivelare a questi tre privilegiati il mistero del Messia. Qui non sono più gli uomini, la folla o i discepoli, a esprimere la loro opinione, ma è Dio stesso che fornisce la risposta e invita a contemplare il mistero del Cristo: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!” Il monte della Trasfigurazione fa pensare al Sinai e Luca sceglie un vocabolario che evoca il contesto della rivelazione di Dio sul Sinai: il monte, la nube, la gloria, la voce che risuona, le tende. Comprensibile la presenza di Mosè ed Elia, i due personaggi dell’Antico Testamento che ebbero il privilegio della rivelazione della gloria di Dio e ora sono testimoni della gloria di Cristo. Soltanto Luca precisa il contenuto del loro colloquio con Gesù, cioè stavano parlando del suo esodo che stava per compiersi a Gerusalemme. Luca usa la parola esodo perché non si può separare la gloria di Cristo dalla Croce e la usa riferendosi alla Pasqua di Cristo. Come la Pasqua di Mosè inaugurò l’Esodo d’Israele dalla schiavitù in Egitto verso la terra della libertà, la Pasqua di Cristo apre il cammino della liberazione per tutta l’umanità. Tutto s’incentra su tre parole che esprimevano al tempo di Cristo le diverse concezioni del Messia: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”. Il titolo di Figlio di Dio veniva conferito ai re il giorno della loro consacrazione; l’Eletto è uno dei nomi del servo di Dio di cui parla Isaia nei Canti del servo: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio Eletto”; Ascoltatelo sembra alludere alla promessa che Dio fece a Mosè di suscitare dopo di lui un profeta (Dt 18, 18) e alcuni ne deducevano che il Messia atteso sarebbe stato un profeta. Ascoltatelo! Non è l’ordine di un maestro esigente o dominante, ma una supplica: Ascoltatelo, cioè abbiate fiducia in lui. Pietro, meravigliato dal volto trasfigurato di Gesù, propone di stabilirsi sul monte tutti insieme, ma Luca precisa che Pietro non sapeva quello che diceva perché non è il caso di isolarsi dal mondo e dai suoi problemi dato che il tempo è breve. Pietro, Giacomo e Giovanni devono piuttosto affrettarsi a raggiungere gli altri perché il progetto di Dio non si limita a pochi eletti: nell’ultimo giorno, sarà l’intera umanità a essere trasfigurata. San Paolo nella lettera ai Filippesi diceva che “noi siamo cittadini del cielo”, perché con il battesimo siamo già nella vita eterna pur pellegrinando ancora sulla terra.

+Giovanni D’Ercole

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“It is part of the mystery of God that he acts so gently, that he only gradually builds up his history within the great history of mankind; that he becomes man and so can be overlooked by his contemporaries and by the decisive forces within history; that he suffers and dies and that, having risen again, he chooses to come to mankind only through the faith of the disciples to whom he reveals himself; that he continues to knock gently at the doors of our hearts and slowly opens our eyes if we open our doors to him” [Jesus of Nazareth II, 2011, p. 276) (Pope Benedict, Regina Coeli 22 maggio 2011]
«È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso. Solo pian piano Egli costruisce nella grande storia dell’umanità la sua storia. Diventa uomo ma in modo da poter essere ignorato dai contemporanei, dalle forze autorevoli della storia. Patisce e muore e, come Risorto, vuole arrivare all’umanità soltanto attraverso la fede dei suoi ai quali si manifesta. Di continuo Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apriamo, lentamente ci rende capaci di “vedere”» (Gesù di Nazareth II, 2011, 306) [Papa Benedetto, Regina Coeli 22 maggio 2011]
John is the origin of our loftiest spirituality. Like him, ‘the silent ones' experience that mysterious exchange of hearts, pray for John's presence, and their hearts are set on fire (Athenagoras)
Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma (Atenagora)
This is to say that Jesus has put himself on the level of Peter, rather than Peter on Jesus' level! It is exactly this divine conformity that gives hope to the Disciple, who experienced the pain of infidelity. From here is born the trust that makes him able to follow [Christ] to the end: «This he said to show by what death he was to glorify God. And after this he said to him, "Follow me"» (Pope Benedict)
Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Papa Benedetto)
Unity is not made with glue [...] The great prayer of Jesus is to «resemble» the Father (Pope Francis)
L’Unità non si fa con la colla […] La grande preghiera di Gesù» è quella di «assomigliare» al Padre (Papa Francesco)
Divisions among Christians, while they wound the Church, wound Christ; and divided, we cause a wound to Christ: the Church is indeed the body of which Christ is the Head (Pope Francis)
Le divisioni tra i cristiani, mentre feriscono la Chiesa, feriscono Cristo, e noi divisi provochiamo una ferita a Cristo: la Chiesa infatti è il corpo di cui Cristo è capo (Papa Francesco)
The glorification that Jesus asks for himself as High Priest, is the entry into full obedience to the Father, an obedience that leads to his fullest filial condition [Pope Benedict]
La glorificazione che Gesù chiede per se stesso, quale Sommo Sacerdote, è l'ingresso nella piena obbedienza al Padre, un'obbedienza che lo conduce alla sua più piena condizione filiale [Papa Benedetto]
All this helps us not to let our guard down before the depths of iniquity, before the mockery of the wicked. In these situations of weariness, the Lord says to us: “Have courage! I have overcome the world!” (Jn 16:33). The word of God gives us strength [Pope Francis]

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