VIII Domenica del Tempo Ordinario (anno C) 2 Marzo 2025
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
*Prima Lettura dal Libro del Siracide (27, 4-7)
Si tratta di un libro della Bibbia che ha avuto un percorso piuttosto movimentato. Per iniziare, porta tre nomi: Ben Sira il Saggio, Siracide, l’Ecclesiastico. Siracide o Ben Sira sono due nomi simili, entrambi legati al suo nome di famiglia. “Ben” significa “figlio di”, quindi l’autore è figlio di Sira. Alla fine del libro, si firma “Gesù, figlio di Sira”, il che offre un’indicazione ulteriore, dato che Gesù è un nome tipicamente ebraico. Si tratta dunque di un ebreo di Gerusalemme che scrive in ebraico e il titolo “il Saggio” fa capire che non si tratta di un libro storico né profetico, ma di uno di quei libri chiamati “sapienziali”. Si dice Ecclesiastico perché nei primi secoli del Cristianesimo, la Chiesa faceva leggere questo libro ai nuovi battezzati per completare la loro formazione morale. Il libro fu scritto da Ben Sira a Gerusalemme in ebraico verso il 180 a.C., tradotto in greco circa cinquant’anni dopo, intorno al 130 a.C. dal suo stesso nipote ad Alessandria d’Egitto. Nella Bibbia, il Siracide occupa un posto particolare: appartiene ai libri chiamati “deuterocanonici”. Infatti, quando alla fine del primo secolo d.C. i dottori della legge fissarono in modo definitivo la lista ufficiale degli scritti considerati parte della Bibbia, non furono inclusi tutti i libri che circolavano in Israele. Alcuni testi erano riconosciuti da tutti da quasi sempre come Parola di Dio – per esempio, il Libro della Genesi o dell’Esodo. Ma per alcuni testi più recenti, la questione rimaneva aperta. Il Siracide rientrava tra questi e alla fine fu escluso perché per entrare nel canone ufficiale della Bibbia ebraica, un libro doveva essere scritto in ebraico e redatto nella terra di Israele. Ma all’epoca della fissazione del canone (fine del I secolo d.C.), l’originale ebraico del Siracide era perduto e circolava solo la traduzione greca ad Alessandria. Per questo, il libro non venne accettato dalle comunità ebraiche della terra d’Israele. Tuttavia, nelle comunità ebraiche della diaspora (soprattutto ad Alessandria), era già considerato parte della Bibbia, quindi continuò a essere riconosciuto.
La Comunità cristiana invece lo ricevette in eredità attraverso le comunità di lingua greca, e così il Siracide entrò a far parte del canone biblico cristiano. L’autore, Ben Sira, forse aveva fondato una scuola di saggezza a Gerusalemme e lo si deduce dagli ultimi capitoli del libro, che sembrano una raccolta di insegnamenti per giovani studenti ebrei, apprendisti filosofi, a Gerusalemme intorno al 180 a.C.
Gerusalemme in quel tempo era sotto il dominio greco, ma l’occupazione era relativamente liberale e pacifica dato che le persecuzioni ebbero inizio più tardi, sotto Antioco Epifane, verso il 165 a.C. Tuttavia, sebbene il potere greco rispettasse la religione ebraica, il contatto tra le due culture metteva in pericolo la purezza della fede.
Questa eccessiva apertura culturale poteva portare a un sincretismo pericoloso, un problema simile a quello del nostro tempo: viviamo infatti in un’epoca di tolleranza che può facilmente trasformarsi in indifferenza religiosa. Non è forse vero che oggi siamo come in un supermercato delle idee e dei valori, dove ognuno prende ciò che preferisce e questo sembra persino logico e da accettare come la migliore scelta? Uno degli obiettivi di Ben Sira era di trasmettere la fede ebraica nella sua integrità, in particolare l’amore per la Legge di Dio (Torah). Secondo lui, la vera saggezza risiedeva nella Legge d’Israele. Israele doveva preservare la propria identità e la propria fede per mantenere vivo l’insegnamento dei Padri nella fede e la purezza dei costumi e si ritenevano questi i principi fondamentali per la sopravvivenza del popolo eletto.
Venendo al contenuto, il libro è come una raccolta di massime e proverbi interessanti ma non sempre immediatamente comprensibili per noi, perché utilizzano immagini e modi di dire appartenenti a un’altra cultura. Nel testo di oggi Ben Sira usa tre immagini che all’epoca erano molto comuni. Se l’oro viene passato al setaccio appaiono evidenti le scorie; quando un vaso viene cotto nel forno, si vede subito se è stato ben lavorato e un albero sano produce frutti buoni. Ecco allora che come il setaccio separa l’oro dalle impurità, il fuoco del forno rivela le qualità del vaso e dai frutti si riconosce se l’albero è sano o malato, così le nostre parole rivelano la vera natura del nostro cuore perché solo un cuore buono dirà parole buone. Circa duecento anni dopo, Gesù insegna la stessa cosa come leggiamo nel vangelo di questa domenica: “L'uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc 6,45). Le nostre parole sono lo specchio del nostro cuore.
*Salmo responsoriale (91 (92), 2-3. 13-14. 15-16)
Israele ha accusato Dio di inganno nel deserto del Sinai quando la disidratazione minacciava uomini e animali: è il celebre episodio di Massa e Meriba (Es 17,1-7). Dio però si è dimostrato più grande dell’ira del suo popolo: ha fatto scaturire acqua da una roccia. Da allora, Dio è stato chiamato la nostra roccia per ricordare la sua fedeltà, più salda di tutti i sospetti del popolo. Da questa roccia Israele ha attinto l’acqua della sua sopravvivenza… ma soprattutto, nei secoli, è diventata la sorgente della sua fede e della sua fiducia. Questo concetto è espresso alla fine del salmo: “per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia”. Il riferimento alla roccia richiama l’esperienza del deserto e la fedeltà di Dio, più forte di ogni ribellione. Anche l’espressione “il tuo amore e la tua fedeltà” (v 3) richiama l’esperienza del deserto: sono le parole che Dio stesso ha usato per rivelarsi al suo popolo: “Il Signore Dio misericordioso e benevolo, lento all’ira, ricco di fedeltà e lealtà…” espressione ripresa molte volte nella Bibbia, soprattutto nei salmi, come segno dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo: “Dio d’amore e di fedeltà, lento all’ira e ricco di misericordia” (Es 34,6). L’episodio di Massa e Meriba – la prova nel deserto, il sospetto del popolo, l’intervento di Dio – si è ripetuto così spesso che Israele ha finito per capire che si tratta di un rischio costante: l’uomo è sempre tentato di sospettare di Dio quando le cose non vanno come si desidera. Il racconto del Giardino dell’Eden aiuta a comprendere quest’importante insegnamento: l’astuto serpente riesce a convincere i progenitori che è Dio a ingannarli. Infatti travisa il pensiero di Dio affermando che vieta loro i frutti migliori con la scusa di proteggerli quando in realtà è l’opposto e Adamo ed Eva si lasciano ingannare. Purtroppo è una storia che si ripete nel corso della storia e come è possibile evitare l’inganno demoniaco? Questo salmo ci aiuta suggerendosi di avere fiducia: “é bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, annunciare al mattino il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte”. E’ infatti un bene per noi lodare il Signore e cantare al suo nome e Israele ha compreso che lodare, cantare per Dio fa bene soprattutto all’uomo stesso. Sant’Agostino lo dirà chiaramente: “Tutto ciò che l’uomo fa per Dio, giova all’uomo e non a Dio.” Cantare per Dio, aprire gli occhi sul suo amore e sulla sua fedeltà, di giorno e di notte, ci protegge dalle astuzie del serpente. In questo salmo, l’espressione “è bello” corrisponde al termine ebraico “tôv”, lo stesso usato per dire “buono da mangiare”, però per saperlo, occorre averne fatto esperienza e per questo il salmo aggiunge nel versetto 7 (che oggi non leggiamo): “L’uomo insensato non li conosce e lo stolto non capisce”, ma il credente sa bene “quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità”. Soltanto una fiducia incrollabile nell’amore di Dio può illuminare la vita dell’uomo in ogni circostanza mentre la diffidenza e il sospetto distorcono completamente la nostra visione della realtà. Sospettare di Dio è un tranello mortale. Chi si affida a Dio è come un albero sempre verde, che mantiene sempre la sua linfa e la sua freschezza (cf salmo1). Gesù parlerà di “acqua viva” riprendendo un’immagine familiare alla gente di allora. Non solo è un bene per noi stessi lodare e cantare l’amore di Dio, ma diventa un bene anche per gli altri ascoltarlo da noi. Per tale scopo il salmo ripete all’inizio e alla fine: “È bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, e annunciare al il tuo amore”. “Annunciare” significa proclamare agli altri, ai non credenti: ancora una volta, Israele ricorda la sua missione di testimone dell’amore di Dio per tutti gli uomini. Per concludere annoto che questo salmo porta un’intestazione: “Salmo per il giorno di sabato”, il giorno per eccellenza in cui si canta l’amore e la fedeltà di Dio. Si potrebbe fare di questo salmo il salmo della domenica, pefrchè per noi la domenica è la celebrazione dell’amore e della fedeltà di Dio che in Gesù Cristo si sono manifestati in modo definitivo
*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo Apostolo ai Corinti (15,54-58)
Da diverse settimane leggiamo il capitolo 15 della prima lettera di Paolo ai Corinzi, che è una lunga riflessione sulla Risurrezione. Oggi Paolo conclude la sua meditazione con un grido di trionfo: «Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (v 57). E’ la vittoria della Risurrezione perché, come egli scrive, ciò che è corruttibile in noi diventerà incorruttibile, ciò che è mortale rivestirà l’immortalità (v 53): l’immortalità, l’incorruttibilità sono prerogative di Dio. Solo così diventeremo a immagine e somiglianza di Dio, secondo il progetto originario annunciato e realizzato durante l’intero itinerario della Bibbia, con i molteplici fallimenti dell’umanità e i continui interventi di Dio per salvare il suo disegno d’amore. E’ il disegno della salvezza: Dio cioè ci salva per essere veramente felici e lo compie attraverso varie tappe che la lettera agli Efesini riassume così: “facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”. (Ef 1, 9-10). Nel creare l’umanità il Signore aveva il progetto di renderla felice, unita, colma dello Spirito di Dio, ammessa a condividere la vita della Trinità. Progetto che mai è venuto meno e sussiste per sempre poiché i disegni del cuore di Dio durano di generazione in generazione (cf sal 32/33). Lo annota il profeti Isaia: ”Il mio progetto sussisterà e tutto ciò che mi piace lo compirò “(Is 46, 1) e anche Geremia: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di prosperità e non di sventura: vi darò un futuro e una speranza» (Ger 29, 11). La storia dell’umanità ha dunque senso, significato e direzione. Sappiamo cioè dove andiamo e gli anni non si susseguono tutti uguali, perché Dio ha un progetto, un piano ben preciso. Siamo orientati verso il futuro e aspettiamo che questo disegno giunga a compimento pregando con il Padre nostro, che venga il suo regno e si compia la sua volontà come in cielo così in terra. Tuttavia la storia testimonia che l’umanità è in rovina rispetto a questo progetto e gli uomini non sembrano collaborare. Dio rispetta la nostra libertà e noi spesso sembriamo per nulla disposti ad ascoltare la voce di Dio perché è un progetto che supera le nostre prospettive razionali. Ma perché meravigliarsi? San Paolo afferma che questo progetto – lo chiama mistero della volontà di Dio - ci supera ed è impensabile per noi. L’umanità ha però due scelte: accettare il progetto e impegnarsi per farlo avanzare, oppure rifiutarlo e cercare altrove la propria felicità. Adamo è l’esempio di chi rifiuta e prende un’altra direzione, a suo danno. Dio però resta paziente e salverà il suo progetto non lasciandosi scoraggiare dalla cattiva volontà dell’uomo perché nessuno e nulla potranno spegnere il fuoco dell’amore di Dio per noi. Leggiamo nel Cantico dei Cantici che «Le grandi acque non potrebbero spegnere l’Amore e i fiumi non lo sommergerebbero» (Ct 8, 6-7a). Sta proprio qui la nostra speranza che Paolo proclama con vigore: “Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?". Non è certamente la morte biologica a separarci da lui e dai nostri fratelli, poiché risusciteremo, ma la morte spirituale, conseguenza del peccato. Tuttavia pure il peccato è sconfitto da Gesù Cristo: d’ora in poi, innestati in Cristo risorto, possiamo vivere come lui e con lui vincere la partita dell’amore. Anzi Paolo afferma che la vittoria è già acquisita: contrariamente a quanto sembra, la morte e il peccato sono i grandi sconfitti e il progetto di Dio è salvo: Gesù con il perdono dato a tutti, ci libera dalle nostre colpe e, se vogliamo, la porta è aperta allo Spirito Santo. Possiamo allora vivere l’amore e la fraternità per cui siamo creati. Risuona in noi il grido di trionfo di san Paolo: “Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” Non ci resta che proseguire nell’impegno della lotta con Cristo: “Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore”.
*Dal Vangelo secondo san Luca (6, 39-45)
Troviamo qui diverse istruzioni di Gesù che sono come avvertimenti che concernono le relazioni all’interno della comunità cristiana, raccomandazioni presenti anche nei vangeli di Matteo e di Giovanni pur in ordine sparso e proclamate in contesti diversi. San Luca le ha riunite qui perché probabilmente vedeva un legame tra di esse ed è proprio tale legame che cerchiamo insieme di capire. Per meglio procedere dividiamo il testo in due parti: la prima è una riflessione sullo sguardo, mentre la seconda è la metafora dell’albero e dei frutti. Nella prima parte Gesù sviluppa il tema dello sguardo e comincia con una constatazione: un cieco non può guidare un altro cieco ed è chiaro il messaggio: occorre fare bene attenzione perché quando ci si pone come guide, non bisogna dimenticare che siamo ciechi dalla nascita. Va in tale direzione l’apologo della pagliuzza e della trave giacché con una trave nell’occhio, si è davvero ciechi e non è possibile pretendere di curare la cecità degli altri. Tra queste due osservazioni, Luca inserisce una frase che a prima vista sembra enigmatica: “Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro”. La preparazione di cui parla Gesù è, in un certo senso, la guarigione di noi che siamo ciechi. È sempre lo stesso Luca a notare che i discepoli di Emmaus hanno iniziato a vedere chiaramente solo quando «Gesù aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,45). Poiché Gesù è venuto nel mondo per aprire gli occhi ai ciechi, anche i suoi discepoli, guariti da lui dalla loro cecità, hanno la missione di portare al mondo la luce della rivelazione. Ciò che il profeta Isaia diceva del servo di Dio, nei cosiddetti canti del servo, è vero per Gesù Cristo, ma anche per i suoi discepoli: «Io ti ho destinato a essere luce delle nazioni, per aprire gli occhi ai ciechi, per liberare dal carcere il prigioniero e dalla prigione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,6-7). Una missione quanto mai interessante, alla quale possiamo far fronte solo restando sempre sotto la luce del Maestro e lasciando che sia lui a guarire la nostra cecità. L’evangelista passa poi senza transizione alla metafora dell’albero e dei frutti, il che suggerisce che il tema sia ancora lo stesso: il vero discepolo, che si lascia illuminare da Gesù Cristo, porta buoni frutti, ma chi al contrario non lascia che sia Gesù Cristo ad illuminarlo, rimane nella sua cecità e produce frutti cattivi. Occorre adesso capire di quali frutti si tratta. Tenendo conto che il testo è dopo un intero discorso di Gesù sull’amore reciproco, possiamo capire che i frutti sono legati al nostro comportamento. La norma guida è “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (lc 6,36). Per i contemporanei di Gesù non era difficile capire questo linguaggio: sapevano infatti che il Padre aspetta da noi frutti di giustizia e di misericordia, che possono essere sia azioni che parole perché “la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Lc 6,45). Nella prima lettura abbiamo letto che il frutto manifesta la qualità dell’albero; allo stesso modo la parola rivela i sentimenti e non bisogna lodare nessuno prima che abbia parlato, perché è proprio la sua parola che permette di giudicarlo. E’ davvero straordinario come in poche parole Luca abbia sviluppato l’intero mistero cristiano: quando ci lasciamo formare da Cristo veniamo trasformati in tutto il nostro essere: nello sguardo, nel comportamento e nel linguaggio. Insegnamento che torna spesso nel Nuovo Testamento come, ad esempio, nella Lettera ai Filippesi: «Voi risplendete come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita» (Fil 2,15-16), oppure nella Lettera agli Efesini: “Un tempo eravate tenebre, ora siete luce nel Signore. Vivete come figli della luce. Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef 5,8). Il primo passo consiste nell’imparare a guardare gli altri come Dio li guarda: con uno sguardo che non giudica, non condanna, che non si compiace nel rimarcare una pagliuzza nell’occhio dell’altro, cioè nel notare qualcosa di veramente minuscolo. Come la paglia è spazzata via dal vento e quindi senza spessore e importanza, allo stesso modo vanno calcolati i difetti degli altri. Se Gesù non da ad essi importanza, Il discepolo ben formato alla sua scuola sarà come il suo maestro. A questa frase segue tutto il discorso sulla misericordia di Dio e sulla nostra vocazione a somigliargli, un programma di vita molto ambizioso: amate i vostri nemici, siate misericordiosi, non giudicate, non condannate perché il Padre vostro è misericordioso e noi siamo chiamati a essere la sua immagine nel mondo. Gesù conclude così: la bocca del discepolo esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. Per diventare immagine di Dio il segreto è immergerci nella sua Parola.
+Giovanni D’Ercole
Commento Breve:
*Prima Lettura dal Libro del Siracide (27, 4-7)
Si tratta di un libro della Bibbia che ha avuto un percorso piuttosto movimentato. Per iniziare, porta tre nomi: Ben Sira il Saggio, Siracide, l’Ecclesiastico. Siracide o Ben Sira sono due nomi simili, entrambi legati al suo nome di famiglia. “Ben” significa “figlio di”, quindi l’autore è figlio di Sira. Alla fine del libro, si firma “Gesù, figlio di Sira”, il che offre un’indicazione ulteriore, dato che Gesù è un nome tipicamente ebraico. Si tratta dunque di un ebreo di Gerusalemme che scrive in ebraico e il titolo “il Saggio” fa capire che non si tratta di un libro storico né profetico, ma di uno di quei libri chiamati “sapienziali”. Si dice Ecclesiastico perché nei primi secoli del Cristianesimo, la Chiesa faceva leggere questo libro ai nuovi battezzati per completare la loro formazione morale. Il libro fu scritto da Ben Sira a Gerusalemme in ebraico verso il 180 a.C., tradotto in greco circa cinquant’anni dopo, intorno al 130 a.C. dal suo stesso nipote ad Alessandria d’Egitto. Nella Bibbia, il Siracide occupa un posto particolare: appartiene ai libri chiamati “deuterocanonici”. Infatti, quando alla fine del primo secolo d.C. i dottori della legge fissarono in modo definitivo la lista ufficiale degli scritti considerati parte della Bibbia, non furono inclusi tutti i libri che circolavano in Israele. Alcuni testi erano riconosciuti da tutti da quasi sempre come Parola di Dio – per esempio, il Libro della Genesi o dell’Esodo. Ma per alcuni testi più recenti, la questione rimaneva aperta. Il Siracide rientrava tra questi e alla fine fu escluso perché per entrare nel canone ufficiale della Bibbia ebraica, un libro doveva essere scritto in ebraico e redatto nella terra di Israele. Ma all’epoca della fissazione del canone (fine del I secolo d.C.), l’originale ebraico del Siracide era perduto e circolava solo la traduzione greca ad Alessandria. Per questo, il libro non venne accettato dalle comunità ebraiche della terra d’Israele. Tuttavia, nelle comunità ebraiche della diaspora (soprattutto ad Alessandria), era già considerato parte della Bibbia, quindi continuò a essere riconosciuto. La Comunità cristiana invece lo ricevette in eredità attraverso le comunità di lingua greca, e così il Siracide entrò a far parte del canone biblico cristiano.
Venendo al contenuto, il libro è come una raccolta di massime e proverbi utilizzando immagini e modi di dire appartenenti a un’altra cultura. Nel testo di oggi Ben Sira usa tre immagini che all’epoca erano molto comuni. Se l’oro viene passato al setaccio appaiono evidenti le scorie; quando un vaso viene cotto nel forno, si vede subito se è stato ben lavorato e un albero sano produce frutti buoni. Ecco allora che come il setaccio separa l’oro dalle impurità, il fuoco del forno rivela le qualità del vaso e dai frutti si riconosce se l’albero è sano o malato, così le nostre parole rivelano la vera natura del nostro cuore perché solo un cuore buono dirà parole buone. Gesù insegna la stessa cosa come leggiamo nel vangelo di questa domenica: “L'uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc 6,45). Le nostre parole sono lo specchio del nostro cuore.
*Salmo responsoriale (91 (92), 2-3. 13-14. 15-16)
Israele ha accusato Dio di inganno nel deserto del Sinai quando la disidratazione minacciava uomini e animali: è il celebre episodio di Massa e Meriba (Es 17,1-7). Dio però si è dimostrato più grande dell’ira del suo popolo: ha fatto scaturire acqua da una roccia. Da allora, Dio è stato chiamato la nostra roccia per ricordare la sua fedeltà, più salda di tutti i sospetti del popolo. Da questa roccia Israele ha attinto l’acqua della sua sopravvivenza… ma soprattutto, nei secoli, è diventata la sorgente della sua fede e della sua fiducia. Questo concetto è espresso alla fine del salmo: “per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia”. Il racconto del Giardino dell’Eden l’astuto serpente riesce a convincere i progenitori che è Dio a ingannarli. Infatti travisa il pensiero di Dio affermando che vieta loro i frutti migliori con la scusa di proteggerli quando in realtà è l’opposto e Adamo ed Eva si lasciano ingannare. Purtroppo è una storia che si ripete nel corso della storia e come è possibile evitare l’inganno demoniaco? Questo salmo ci aiuta suggerendosi di avere fiducia: “é bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, annunciare al mattino il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte”. Cantare per Dio fa bene soprattutto all’uomo e sant’Agostino lo dirà chiaramente: “Tutto ciò che l’uomo fa per Dio, giova all’uomo e non a Dio.” Cantare per Dio, aprire gli occhi sul suo amore e sulla sua fedeltà, di giorno e di notte, ci protegge dalle astuzie del serpente. Soltanto una fiducia incrollabile nell’amore di Dio può illuminare la vita dell’uomo in ogni circostanza mentre la diffidenza e il sospetto distorcono completamente la nostra visione della realtà. Sospettare di Dio è un tranello mortale. Chi si affida a Dio è come un albero sempre verde, che mantiene sempre la sua linfa e la sua freschezza (cf salmo1). Per concludere annoto che questo salmo porta un’intestazione: “Salmo per il giorno di sabato”, il giorno per eccellenza in cui si canta l’amore e la fedeltà di Dio. Si potrebbe fare di questo salmo il salmo della domenica, perché per noi la domenica è la celebrazione dell’amore e della fedeltà di Dio che in Gesù Cristo si sono manifestati in modo definitivo
*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo Apostolo ai Corinti (15,54-58)
Da diverse settimane leggiamo il capitolo 15 della prima lettera di Paolo ai Corinzi, che è una lunga riflessione sulla Risurrezione. Oggi Paolo conclude la sua meditazione con un grido di trionfo: «Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (v 57). E’ la vittoria della Risurrezione perché, come egli scrive, ciò che è corruttibile in noi diventerà incorruttibile, ciò che è mortale rivestirà l’immortalità (v 53): l’immortalità, l’incorruttibilità sono prerogative di Dio. Solo così diventeremo a immagine e somiglianza di Dio, secondo il progetto originario annunciato e realizzato durante l’intero itinerario della Bibbia, con i molteplici fallimenti dell’umanità e i continui interventi di Dio per salvare il suo disegno d’amore. Nel creare l’umanità il Signore aveva il progetto di renderla felice, unita, colma dello Spirito di Dio, ammessa a condividere la vita della Trinità. Progetto che mai è venuto meno e sussiste per sempre poiché i disegni del cuore di Dio durano di generazione in generazione (cf sal 32/33). La storia dell’umanità ha dunque senso, significato e direzione. Sappiamo cioè dove andiamo e gli anni non si susseguono tutti uguali, perché Dio ha un progetto, un piano ben preciso. Siamo orientati verso il futuro e aspettiamo che questo disegno giunga a compimento pregando con il Padre nostro, che venga il suo regno e si compia la sua volontà come in cielo così in terra. Tuttavia la storia testimonia che l’umanità è in rovina rispetto a questo progetto e gli uomini non sembrano collaborare. Dio rispetta la nostra libertà e noi spesso sembriamo per nulla disposti ad ascoltare la voce di Dio perché è un progetto che supera le nostre prospettive razionali. Ma perché meravigliarsi? San Paolo afferma che questo progetto – lo chiama mistero della volontà di Dio - ci supera ed è impensabile per noi. L’umanità ha però due scelte: accettare il progetto e impegnarsi per farlo avanzare, oppure rifiutarlo e cercare altrove la propria felicità. Adamo è l’esempio di chi rifiuta e prende un’altra direzione, a suo danno. Dio però resta paziente e salverà il suo progetto non lasciandosi scoraggiare dalla cattiva volontà dell’uomo perché nessuno e nulla potranno spegnere il fuoco dell’amore di Dio per noi. Non è certamente la morte biologica a separarci da lui e dai nostri fratelli, poiché risusciteremo, ma la morte spirituale, conseguenza del peccato. Tuttavia pure il peccato è sconfitto da Gesù Cristo: d’ora in poi, innestati in Cristo risorto, possiamo vivere come lui e con lui vincere la partita dell’amore. Anzi Paolo afferma che la vittoria è già acquisita: contrariamente a quanto sembra, la morte e il peccato sono i grandi sconfitti e il progetto di Dio è salvo: Gesù con il perdono dato a tutti, ci libera dalle nostre colpe e, se vogliamo, la porta è aperta allo Spirito Santo. Possiamo allora vivere l’amore e la fraternità per cui siamo creati.
*Dal Vangelo secondo san Luca (6, 39-45)
Troviamo qui diverse istruzioni di Gesù che sono come avvertimenti che concernono le relazioni all’interno della comunità cristiana, raccomandazioni presenti anche nei vangeli di Matteo e di Giovanni pur in ordine sparso e proclamate in contesti diversi. San Luca le ha riunite qui perché probabilmente vedeva un legame tra di esse ed è proprio tale legame che cerchiamo insieme di capire. Per meglio procedere dividiamo il testo in due parti: la prima è una riflessione sullo sguardo, mentre la seconda è la metafora dell’albero e dei frutti. Nella prima parte Gesù sviluppa il tema dello sguardo e comincia con una constatazione: un cieco non può guidare un altro cieco ed è chiaro il messaggio: occorre fare bene attenzione perché quando ci si pone come guide, non bisogna dimenticare che siamo ciechi dalla nascita. Va in tale direzione l’apologo della pagliuzza e della trave giacché con una trave nell’occhio, si è davvero ciechi e non è possibile pretendere di curare la cecità degli altri. Tra queste due osservazioni, Luca inserisce una frase che a prima vista sembra enigmatica: “Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro”. La preparazione di cui parla Gesù è, in un certo senso, la guarigione di noi che siamo ciechi. È sempre lo stesso Luca a notare che i discepoli di Emmaus hanno iniziato a vedere chiaramente solo quando «Gesù aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,45). Poiché Gesù è venuto nel mondo per aprire gli occhi ai ciechi, anche i suoi discepoli, guariti da lui dalla loro cecità, hanno la missione di portare al mondo la luce della rivelazione. Una missione quanto mai interessante, alla quale possiamo far fronte solo restando sempre sotto la luce del Maestro e lasciando che sia lui a guarire la nostra cecità. L’evangelista passa poi senza transizione alla metafora dell’albero e dei frutti, il che suggerisce che il tema sia ancora lo stesso: il vero discepolo, che si lascia illuminare da Gesù Cristo, porta buoni frutti, ma chi al contrario non lascia che sia Gesù Cristo ad illuminarlo, rimane nella sua cecità e produce frutti cattivi. Occorre adesso capire di quali frutti si tratta. Tenendo conto che il testo è dopo un intero discorso di Gesù sull’amore reciproco, possiamo capire che i frutti sono legati al nostro comportamento. La norma guida è “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (lc 6,36). Nella prima lettura abbiamo letto che il frutto manifesta la qualità dell’albero; allo stesso modo la parola rivela i sentimenti e non bisogna lodare nessuno prima che abbia parlato, perché è proprio la sua parola che permette di giudicarlo. E’ davvero straordinario come in poche parole Luca abbia sviluppato l’intero mistero cristiano: quando ci lasciamo formare da Cristo veniamo trasformati in tutto il nostro essere: nello sguardo, nel comportamento e nel linguaggio. Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef 5,8). Il primo passo consiste nell’imparare a guardare gli altri come Dio li guarda: con uno sguardo che non giudica, non condanna, che non si compiace nel rimarcare una pagliuzza nell’occhio dell’altro, cioè nel notare qualcosa di veramente minuscolo. Come la paglia è spazzata via dal vento e quindi senza spessore e importanza, allo stesso modo vanno calcolati i difetti degli altri. Se Gesù non da ad essi importanza, Il discepolo ben formato alla sua scuola sarà come il suo maestro. Gesù conclude così: la bocca del discepolo esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. Per diventare immagine di Dio il segreto è immergerci nella sua Parola.
+Giovanni D’Ercole