Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
[…] ho avuto modo di soffermarmi a riflettere sul retto uso dei beni terreni, un tema che in queste domeniche l’evangelista Luca, in vari modi, ha riproposto alla nostra attenzione. Raccontando la parabola di un amministratore disonesto ma assai scaltro, Cristo insegna ai suoi discepoli quale è il modo migliore di utilizzare il denaro e le ricchezze materiali, e cioè condividerli con i poveri procurandosi così la loro amicizia, in vista del Regno dei cieli. "Procuratevi amici con la disonesta ricchezza – dice Gesù – perché quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne" (Lc 16,9). Il denaro non è "disonesto" in se stesso, ma più di ogni altra cosa può chiudere l’uomo in un cieco egoismo. Si tratta dunque di operare una sorta di "conversione" dei beni economici: invece di usarli solo per interesse proprio, occorre pensare anche alle necessità dei poveri, imitando Cristo stesso, il quale – scrive san Paolo – "da ricco che era si fece povero per arricchire noi con la sua povertà" (2 Cor 8,9). Sembra un paradosso: Cristo non ci ha arricchiti con la sua ricchezza, ma con la sua povertà, cioè con il suo amore che lo ha spinto a darsi totalmente a noi.
Qui potrebbe aprirsi un vasto e complesso campo di riflessione sul tema della ricchezza e della povertà, anche su scala mondiale, in cui si confrontano due logiche economiche: la logica del profitto e quella della equa distribuzione dei beni, che non sono in contraddizione l’una con l’altra, purché il loro rapporto sia bene ordinato. La dottrina sociale cattolica ha sempre sostenuto che l’equa distribuzione dei beni è prioritaria. Il profitto è naturalmente legittimo e, nella giusta misura, necessario allo sviluppo economico. Giovanni Paolo II così scrisse nell’Enciclica Centesimus annus: "la moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi" (n. 32). Tuttavia, egli aggiunse, il capitalismo non va considerato come l’unico modello valido di organizzazione economica (cfr ivi, 35). L’emergenza della fame e quella ecologica stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile.
Maria Santissima, che nel Magnificat proclama: il Signore "ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote" (Lc 1,53), aiuti i cristiani ad usare con saggezza evangelica, cioè con generosa solidarietà, i beni terreni, ed ispiri ai governanti e agli economisti strategie lungimiranti che favoriscano l’autentico progresso di tutti i popoli.
[Papa Benedetto, Angelus 23 settembre 2007]
2. Vengono da lontano, si potrebbero quasi definire endemici, i problemi e le sfide che si presentano all’attività pastorale del Nordest brasiliano, ponendo ai pastori della Chiesa l’inquietante interrogativo: come evangelizzare così immense e povere popolazioni e condividere le angustie nate dalla loro povertà che riveste, nella vita reale, aspetti concretissimi, nei quali dovremmo riconoscere le sembianze sofferenti di Cristo? Come edificare la Chiesa, con la caratteristica che la distingue di “segnale e salvaguardia della dimensione trascendente della persona umana” e promotrice della sua dignità integrale, con queste “pietre vive”, quando la loro povertà non è, molte volte, solamente una tappa casuale di situazioni ineluttabili di fattori naturali, ma anche prodotto di determinate strutture economiche, sociali e politiche?
3. Non si può non ricordare con gratitudine in questa circostanza, per lo meno globalmente le pleiadi di missionari e pastori abnegati, virtuosi e devoti che vi hanno preceduto e che debbono essere considerati come i fondatori della Chiesa di Dio (cf. Ef 2, 20) nelle vostre attuali diocesi, o, per usare l’espressione patristica, “hanno lì generato” Chiese e non senza sofferenza. A loro tempo, essi si saranno sicuramente chiesti quale fosse il piano di Dio sulla vocazione di ciascun uomo nella costruzione della società, per renderla sempre più umana, giusta e fraterna, e come si potesse attuare la priorità delle priorità nell’evangelizzazione: cercare innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia.
5. I popoli e i gruppi umani, in generale, per poter progredire, gradualmente ed efficacemente e non solo soddisfare le immediate necessità vitali, hanno bisogno di solidarietà, per giungere all’indispensabile e permanente trasformazione delle strutture della vita economica. Ma non si presenta facile procedere lungo lo scosceso sentiero di questa trasformazione, se non interviene una vera conversione delle menti, della volontà e dei cuori, che faccia scomparire la confusione della libertà con l’istinto dell’interesse individuale e collettivo, o ancora con l’istinto di lotta e di predominio, qualunque siano i colori ideologici di cui essi si rivestono (cf. Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 16).
[Papa Giovanni Paolo II, Discorso ai Vescovi Brasiliani 16 settembre 1985]
La parabola contenuta nel Vangelo di questa domenica (cfr Lc 16,1-13) ha come protagonista un amministratore furbo e disonesto che, accusato di aver dilapidato i beni del padrone, sta per essere licenziato. In questa situazione difficile, egli non recrimina, non cerca giustificazioni né si lascia scoraggiare, ma escogita una via d’uscita per assicurarsi un futuro tranquillo. Reagisce dapprima con lucidità, riconoscendo i propri limiti: «Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno» (v. 3); poi agisce con astuzia, derubando per l’ultima volta il suo padrone. Infatti, chiama i debitori e riduce i debiti che hanno nei confronti del padrone, per farseli amici ed essere poi da loro ricompensato. Questo è farsi amici con la corruzione e ottenere gratitudine con la corruzione, come purtroppo è consuetudine oggi.
Gesù presenta questo esempio non certo per esortare alla disonestà, ma alla scaltrezza. Infatti sottolinea: «Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza» (v. 8), cioè con quel misto di intelligenza e furbizia, che ti permette di superare situazioni difficili. La chiave di lettura di questo racconto sta nell’invito di Gesù alla fine della parabola: «Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne» (v. 9). Sembra un po’ confuso, questo, ma non lo è: la “ricchezza disonesta” è il denaro – detto anche “sterco del diavolo” – e in generale i beni materiali.
La ricchezza può spingere a erigere muri, creare divisioni e discriminazioni. Gesù, al contrario, invita i suoi discepoli ad invertire la rotta: “Fatevi degli amici con la ricchezza”. È un invito a saper trasformare beni e ricchezze in relazioni, perché le persone valgono più delle cose e contano più delle ricchezze possedute. Nella vita, infatti, porta frutto non chi ha tante ricchezze, ma chi crea e mantiene vivi tanti legami, tante relazioni, tante amicizie attraverso le diverse “ricchezze”, cioè i diversi doni di cui Dio l’ha dotato. Ma Gesù indica anche la finalità ultima della sua esortazione: “Fatevi degli amici con la ricchezza, perché essi vi accolgano nelle dimore eterne”. Ad accoglierci in Paradiso, se saremo capaci di trasformare le ricchezze in strumenti di fraternità e di solidarietà, non ci sarà soltanto Dio, ma anche coloro con i quali abbiamo condiviso, amministrandolo bene, quanto il Signore ha messo nelle nostre mani.
Fratelli e sorelle, questa pagina evangelica fa risuonare in noi l’interrogativo dell’amministratore disonesto, cacciato dal padrone: «Che cosa farò, ora?» (v. 3). Di fronte alle nostre mancanze, ai nostri fallimenti, Gesù ci assicura che siamo sempre in tempo per sanare con il bene il male compiuto. Chi ha causato lacrime, renda felice qualcuno; chi ha sottratto indebitamente, doni a chi è nel bisogno. Facendo così, saremo lodati dal Signore “perché abbiamo agito con scaltrezza”, cioè con la saggezza di chi si riconosce figlio di Dio e mette in gioco sé stesso per il Regno dei cieli.
La Vergine Santa ci aiuti ad essere scaltri nell’assicurarci non il successo mondano, ma la vita eterna, affinché al momento del giudizio finale le persone bisognose che abbiamo aiutato possano testimoniare che in loro abbiamo visto e servito il Signore.
[Papa Francesco, Angelus 22 settembre 2019]
Nella differenza tra religiosità comune e Fede personale
(Lc 8,4-15)
Le parabole pongono a confronto la realtà vissuta e il mondo dello Spirito:
«E un’altra parte cadde sulla terra quella bella, e germogliata fece frutto al centuplo» (v.8).
Il terreno sassoso e il clima rovente della Palestina non rendevano facile la vita dei lavoratori che vivevano di agricoltura.
La scarsità di piogge e l’intrusione nei campi di chi voleva abbreviare il cammino distruggeva le piante.
Un’azione faticosa e pochi risultati tangibili.
Malgrado le enormi difficoltà, ogni anno il contadino gettava chicchi a spaglio, generosamente - e arava, animato dalla fiducia nella forza vitale interna del seme e nella munificenza della natura.
L’aratura era successiva alla seminagione, per evitare che le zolle di terreno rivoltato seccassero immediatamente sotto la potente calura, e non consentissero ai grani di attecchire grazie a un minimo di umidità.
Quindi il seminatore non selezionava anzitempo i diversi tipi di terreno.
Il Seme già opera: il nuovo “Regno che Viene” non è glorioso, ma qua e là alligna e produce - anche dove non t’aspetti.
A norma di mentalità religiosa antica sembra una follia, ma il divino Agricoltore non sceglie il tipo di “terreno”, né lo discrimina sulla base della percentuale produttiva - che pur sembrerebbe facile prevedere.
Il Seminatore accetta persino che il suo ‘chicco’ caduto sul terreno «bello» frutti in maniera diversa: il cento, il sessanta, il trenta per uno [Mt 13,8.23; Mc 4,8.20; il testo di Lc non parla di percentuali].
Con il termine «bello» (in senso orientale) s’intende il terreno pieno e fecondo [l’anima e l’opera dei discepoli più intimi, anche anonimi].
Il Signore vuol dire che l’opera di evangelizzazione non è misurabile con pignoleria.
La sua Parola permane come Inizio gettato nel cuore umano da Colui che non è taccagno, né esclusivo - bensì magnanimo.
In tal guisa, la Chiesa suo Popolo nuovo è un piccolo mondo alternativo sia all’Impero che alle religioni selettive.
Il nuovo Rabbi non aveva intenzione di ritagliarsi discepoli migliori di altri - isolati dalla realtà della famiglia umana.
Proponeva un nuovo stile di vita, convivente.
Insomma, Dio non forza la crescita del “granello” in ciascuno di noi, in modo astratto; ma attende con pazienza.
Accetta perfino che nasca male o che non spunti affatto. Conosce dove andare.
Visto che sparge in modo trabocchevole su tutti i generi di cuori (anche sull’asfalto), sa che verrà tacciato di essere poco accorto.
Ma Egli non si preoccupa della quantità, né dei frutti esteriori immediati della sua ‘semente’.
Non si cura che il lavoro risulti “efficace in partenza”!
Tale la amabile, umanizzante e divina, genitoriale Tolleranza che salva. Essa che non ci sequestra ogni attimo, a pianificare.
Gl’interessa piuttosto farci capire che non è un Dio calcolatore e avaro, esteriore, taccagno e prevenuto; bensì Padre munifico e conciliante.
Signore del Regno che non attende prima le nostre piccole ‘perfezioni’.
La metafora che segue la parabola iniziale vuole sottolineare che l’eventuale scarsità di risultato non è da attribuire alla mancanza di vitalità del Seme, né all’Opera divina, bensì alla libertà dell’uomo; alla sua condizione di limite o incoerenza.
Purtroppo, fin dalle prime generazioni di credenti, il richiamo positivo di Gesù è stato reinterpretato un po’ al contrario: con venature moraliste e individualiste (vv.11-15) che ne hanno intaccato la genuinità.
In tal guisa, la iniziale proposta di Fede personale si è contaminata con la consuetudinaria ottica purista e di ripiego [colpevolizzante] tipica delle filosofie e religioni circostanti, come del pensiero comune.
Alcune configurazioni di ordine ecclesiale hanno di seguito normalizzato la stessa potenza eccezionale del Messaggio; così inedito. In particolare, il nuovo senso di adeguatezza, fiducia e autostima che il Figlio di Dio intendeva comunicare ai suoi amici, e al mondo dei piccoli.
[Sabato 24.a sett. T.O. 20 settembre 2025]
Nella differenza tra religiosità comune e Fede personale
(Lc 8,4-15)
Il terreno sassoso e il clima rovente della Palestina non rendevano facile la vita degli agricoltori. La scarsità di piogge e l’intrusione nei campi di chi voleva abbreviare il cammino distruggeva le piante. Un’azione faticosa e pochi risultati tangibili.
Malgrado le enormi difficoltà, ogni anno il contadino gettava il seme a spaglio, generosamente - e arava, animato dalla fiducia nella forza vitale interna del seme e nella munificenza della natura.
L’aratura era successiva alla seminagione, per evitare che le zolle di terreno rivoltato seccassero immediatamente sotto la potente calura e non consentissero al seme di attecchire grazie a un minimo di umidità. Quindi il seminatore non selezionava anzitempo i diversi tipi di terreno.
La parabola (vv.5-8) che precede l’allegoria (vv.11-15) pone a confronto la realtà vissuta e il mondo dello Spirito. Il seme già opera: il nuovo ‘Regno che Viene’ non è glorioso, ma qua e là attecchisce e produce - anche dove non t’aspetti.
A norma di mentalità perbene sembra una follia, ma il divino “agricoltore” non sceglie il tipo di “terreno”, né lo discrimina sulla base della percentuale produttiva - che pur sembrerebbe facile prevedere.
Il Seminatore accetta persino che il suo ‘chicco’ caduto sul terreno «buono» (v.8) porti frutto nel tempo «con perseveranza» (v.15). A differenza di Mc e Mt, Lc parla unicamente del «frutto al centuplo» (v.8).
Gesù vuol dire che l’opera di evangelizzazione non è misurabile con pignoleria. La sua Parola permane come Inizio gettato nel cuore umano da Colui che non è spilorcio, né esclusivo - bensì magnanimo.
La sua Chiesa è un piccolo mondo alternativo sia all’Impero che alle religioni immediatamente selettive: il Signore non ha intenzione di ritagliarsi discepoli subito migliori di altri e isolati dalla realtà della famiglia umana. Un nuovo stile di vita.
Dio non forza la crescita del ‘granello’ in ciascuno di noi, ma attende con pazienza. Accetta anche che nasca male o che non spunti affatto.
Visto che sparge in modo strabocchevole su tutti i generi di cuori [anche sull’asfalto] sa che verrà tacciato di essere poco accorto: non si preoccupa dei frutti esteriori immediati (!) della sua “semente” - non si cura che il lavoro risulti “efficace in partenza” (!).
Ma gl’interessa farci capire che è un Padre, non il Dio calcolatore delle credenze antiche: avaro, esteriore, taccagno, scostante, prevenuto.
La metafora che segue la parabola iniziale vuole sottolineare che l’eventuale scarsità di risultato non è da attribuire alla mancanza di vitalità del Seme, né all’Opera divina, bensì alla libertà dell’uomo; alla sua condizione di limite o incoerenza.
Dio è munifico, in modo particolare nell’età della rinascita dalla crisi: anch’esso tempo di generosa seminagione da parte del Padre, “agricoltore” delle sue pianticelle - più avventurose e meno perbene che tradizionaliste.
Ovviamente la Parola del Maestro e Signore mette in guardia da tutto ciò che potrebbe impedire una nuova genesi - anzitutto per il fatto che spesso attendiamo di tornare meccanicamente ai ruoli antichi e al vecchio sistema di cose, assuefatto, esteriore, dirigista.
Siamo forse ancora troppo legati a brame e livelli economici precedenti ormai travolti dalle cose... non accettando l’affacciarsi degli opposti che mai avevamo sperimentato né programmato.
Pensiamo ancora di poter tornare al “tutto uguale a prima”; alla superficialità della società del look non radicato nel convincimento, subito entusiasta e che non fa spostare lo sguardo.
Invece la marea difforme viene affinché impariamo a fissare l’occhio dentro, altrove e oltre - per mettere a fuoco la nostra e altrui figura unica, nella convivialità delle differenze.
È probabile che il sapere o stile di vita che vorremmo ribadire sia ancora legato a vecchi modelli graditi ma ora inadeguati a dare risposte nuove a domande nuove. E forse tutto ciò ha portato troppo a imitare lo squalificato avere-apparire, invece che l’essere prezioso al centro della nostra Chiamata per Nome.
Non è escluso che ci siamo lasciati avvezzare a nomenclature decisionali o alla precipitazione per ansia di prestazioni, le quali non badano al terreno bello del carattere, del dono vocazionale [esso porterebbe a un migliore contatto con le energie disattese della nostra inclinazione vera - annidata fra le inconsistenze].
Eccoci anzi, tutti presi dalle preoccupazioni del ripristino “come sempre” o “come dovremmo essere”... Ciò malgrado i traumi attuali siano espliciti segnali ad allargare le consapevolezze finora soffocate (come da rovi). Appelli eloquenti - questi contemporanei - a lanciare ogni lato verso l’Esodo, per la conquista di rinnovate libertà e territori dell’anima, nell’essenza.
Tutto l’influsso di una spiritualità vuota e formale che ci trasciniamo, inibisce ancora una buona percezione dell’oggi, e snerva, toglie forza intima. Non consente di seguire il proprio impulso in armonia col mondo interno - o le stesse tendenze in ascolto del Richiamo incessante dei Vangeli, che ancora viene disseminato da profeti non omologati, per annunciare la verità e la creazione d’un mondo nuovo.
Ebbene, qualcosa - o l’intera vita - potrebbero risultare frastornate; più che mai non andare dalla parte giusta e sgombra: non renderci speciali come il Seminatore desidererebbe - proprio per i cliché o vuoti emotivi che rubano il Seme, ovvero soffocano la pianta, oppure a motivo della solita presunzione, che vuol tornare a svettare subito e così impedisce di farci mettere radici profonde.
Bisognerà allora deporre i turbinii cerebrali e i parapiglia volitivi unilaterali; lasciare spazio e cedere alla nuova corrente di qualità che ci sta portando. E abbandonarsi alle proposte della marea di chicchi che vengono per guidarci oltre le vecchie contese: all’energia naturale, originale, della Provvidenza, che ne sa più di noi.
Al Vento dello Spirito che dispiega oltre i ‘granellini’ - dove non ti aspetti - neppure importa la immediatezza produttiva - ma la nostra sintonia «buona» (v.8) - che aiuta a rimetterci all’altezza della realtà di lungimiranti mescolanze. Esse riordineranno altrimenti ogni cosa: al di là dei sistemi mentali abitudinari - e ogni risultato sarà più avveduto, in favore delle periferie.
Senza troppa disposizione e calcolo nella scelta del terreno - un tempo pretenziosamente rimosso e sanificato a monte - ci renderemo conto che il Seminatore avrà infine sgretolato tanti piedistalli mondani, non per umiliare qualcuno, ma per donare sorprese di fecondità sbalorditiva, anche per la crescita di ogni credo [tutte le denominazioni].
La sua è ovunque e sempre un’Azione generosa e creatrice unica, messa in campo per rigenerare e dare potenza alle convinzioni - non per farci rifare le solite azioni o liturgie da manuale [o più glamour]. Poi riprendere a giocare con la performance o ristrettezze incatenate di schemi approvati.
Se vogliamo sincronizzare lo stesso movimento del Seminatore, bisogna con Lui e come Lui muoversi verso l’indigenza dei vari terreni [situazioni esistenziali].
Ristrettezza speciale - ancor più acuta, nel tempo dell’emergenza globale - che obbliga a “spostarsi”, divenire itineranti, disseminare ovunque... e non solo raccogliere il cento per uno (vv.8.15) nel solito centro protetto.
Parabole, e il mistero della cecità: Narrazione e trasmutazione
Smarrirsi, per la trasformazione
(Lc 8,9-10.18; cf. Mt 13,10-17; Mc 4,10-12.25)
San Paolo esprime il senso del “mistero della cecità” che gli fa contrasto nel cammino con la celebre espressone «spina nel fianco»: dovunque andasse, erano già pronti i nemici; e disaccordi inattesi.
Così anche per noi: eventi funesti, catastrofi, emergenze, disgregazione delle antiche certezze rassicuranti - tutte esterne e paludose; sino a poco prima valutate con senso di permanenza.
Forse nell’arco della nostra esistenza, già ci siamo resi conto che le incomprensioni sono state i modi migliori per riattivarci, e introdurre le energie della Vita rinnovata.
Si tratta di quelle risorse o situazioni che forse mai avremmo immaginato alleate della nostra e altrui realizzazione.
Dice Erich Fromm:
«Vivere significa nascere in ogni istante. La morte si produce quando si cessa di nascere. La nascita non è quindi un atto; è un processo ininterrotto. Lo scopo della vita è di nascere pienamente, ma la tragedia è che la maggior parte di noi muore prima di essere veramente nato».
Infatti, nel clima dei disordini o delle divergenze assurde [che ci obbligano a rigenerare] si affacciano talora le più trascurate virtù intime.
Energie nuove - che cercano spazio - e potenze esterne. Entrambi plasmabili; inconsuete, inimmaginabili, eterodosse.
Ma che trovano le soluzioni, la vera via d’uscita ai nostri problemi; la strada per un futuro che non sia un semplice riassetto della situazione precedente, o di come abbiamo immaginato “si sarebbe dovuti essere e fare”.
Concluso un ciclo, iniziamo una nuova fase; forse con maggiore rettitudine e franchezza - più luminosa e naturale, umanizzante, vicina al ‘divino’.
Il contatto autentico e coinvolgente con i nostri stati dell’essere profondi viene generato in modo acuto proprio dai distacchi.
Essi ci portano al dialogo dinamico con le riserve eterne di forze trasmutatrici che ci abitano, e più ci appartengono.
Esperienza primordiale che arriva dritta al cuore.
Dentro di noi tale via “pesca” l’opzione creativa, fluttuante, inedita.
In tal guisa il Signore trasmette e apre la sua proposta servendosi di ‘immagini’.
Freccia di Mistero che va oltre i frammenti della coscienza, della cultura, delle procedure, di ciò che è comune.
Per una conoscenza di se stessi e del mondo che travalica quella della storia e della cronaca; per la consapevolezza attiva di altri contenuti.
Sino a che il travaglio e il caos stesso guidano l’anima e la obbligano a un Altro inizio, a un differente sguardo (tutto spostato), a un’inedita comprensione di noi stessi e del mondo.
Ebbene, la trasformazione dell’universo non può esser frutto di un insegnamento cerebrale o dirigista; piuttosto, di una esplorazione narrativa - che non allontana la gente da se stessa.
E Gesù lo sa.
Nuova interpretazione dei diversi Terreni
Evoluzione dell’Alleanza, nel tempo della crisi: solite pecche, diverse armonizzazioni
(Mt 13,18-23)
Dio è munifico, in modo particolare nell’età della rinascita dalla crisi: anch’esso tempo di generosa seminagione da parte del Padre.
Egli permane Agricoltore delle sue pianticelle - più avventurose e meno perbene che tradizionaliste, o alla moda.
Ovviamente la Parola del Maestro e Signore mette in guardia da tutto ciò che potrebbe impedire una nuova Genesi - anzitutto per il fatto che spesso attendiamo di tornare meccanicamente ai ruoli antichi e al vecchio sistema di cose; al modello assuefatto, esteriore, dirigista.
Siamo forse ancora troppo legati a brame e precedenti livelli economici (v.22) ormai travolti dalle cose... non accettando l’affacciarsi degli opposti che mai avevamo sperimentato né programmato (v.19).
Pensiamo ancora di poter tornare al “tutto come prima”; alla superficialità della società del look non radicato nel convincimento; dell’esteriorità subito entusiasta (vv.20-21) e che non fa spostare lo sguardo.
Invece la marea difforme Viene affinché impariamo a fissare l’occhio dentro, altrove, e oltre - per mettere a fuoco la nostra e altrui ‘figura unica’ nella convivialità delle differenze.
È probabile che il sapere o stile di vita che vorremmo ribadire sia ancora legato a standards, graditi, vecchi, o à la page - ora inadeguati a dare risposte nuove a domande nuove.
E forse tutto ciò ci ha portato troppo a ricalcare e imitare lo squalificato “avere-apparire”, invece che l’essere, e quel carattere prezioso al centro della nostra Chiamata per Nome.
Non è escluso che ci siamo lasciati avvezzare a nomenclature decisionali o alla precipitazione per ansia di prestazioni.
Esse non badano al «terreno bello» dell’unicità, del dono vocazionale inedito [porterebbe a un migliore contatto con le energie disattese della nostra inclinazione genuina - annidata fra le inconsistenze].
Eccoci anzi, tutti presi dalle preoccupazioni del ripristino “come prima” o “come dovremmo essere”...
Ciò, malgrado i traumi attuali siano espliciti segnali ad allargare le consapevolezze finora soffocate (come da «rovi»: v.22).
Appelli eloquenti - anche contemporanei - a lanciare ogni lato verso l’Esodo, per la conquista di rinnovate libertà; territori dell’anima, pur reconditi, nel nucleo dell’essenza.
Tutto l’influsso di una spiritualità vuota e formale che ci trasciniamo, inibisce ancora una buona percezione dell’oggi, e snerva, toglie forza intima.
Non consente di seguire il proprio impulso in armonia col mondo interno - o le stesse tendenze in ascolto del Richiamo incessante dei Vangeli [che ancora viene disseminato da profeti non omologati, per annunciare la verità e la creazione d’un mondo alternativo].
Ebbene, qualcosa o l’intera vita potrebbero risultare frastornate; più che mai non andare dalla parte giusta e sgombra: non renderci speciali come il Seminatore desidererebbe - proprio per gli stereotipi o i vuoti emotivi che rubano il Seme, ovvero soffocano la pianta, oppure a motivo della solita presunzione che vuol tornare a svettare subito e così impedisce di farci mettere «radici» profonde.
Bisognerà allora deporre i turbinii cerebrali e i parapiglia volitivi unilaterali; lasciare spazio e cedere alla nuova corrente di qualità che ci sta portando.
E abbandonarsi alle proposte della marea di ‘chicchi che vengono’ per guidarci oltre le vecchie contese: all’energia naturale, originale, della Provvidenza, che ne sa più di noi.
Al Vento dello Spirito che dispiega oltre, i granellini - dove non ti aspetti - non importa la percentuale produttiva (v.23b) ma la nostra sintonia «bella» (v.23a testo greco) che aiuta a rimetterci all’altezza della realtà di lungimiranti mescolanze.
Esse riordineranno altrimenti ogni cosa: al di là dei sistemi mentali abitudinari - e ogni risultato sarà più avveduto, in favore delle Periferie.
Senza troppa disposizione e calcolo nella scelta del terreno [un tempo pretenziosamente rimosso e sanificato a monte] ci renderemo conto che il Seminatore avrà infine sgretolato tanti piedistalli mondani; non per umiliare qualcuno, ma per donare sorprese di fecondità sbalorditiva, anche per la crescita di ogni credo (tutte le denominazioni).
La sua è ovunque e sempre un’Azione generosa e creatrice d’eccezione, messa in campo per rigenerare e dare potenza alle convinzioni.
Non per farci rifare le solite azioni o cliché da manuale [e riprendere a giocare con la performance, o con ristrettezze incatenate di schemi largamente approvati].
Se vogliamo sincronizzare lo stesso movimento del Seminatore, bisogna con Lui e come Lui muoversi verso l’indigenza dei vari terreni (situazioni esistenziali).
Ristrettezza speciale - ancor più acuta, nel tempo dell’emergenza globale - che obbliga a ‘spostarsi’, divenire itineranti, disseminare ovunque.
E non solo raccogliere il «cento» (v.23) nel solito ‘centro’ protetto.
Con abbondanza e gratuità, il Signore getta il seme della Parola di Dio, pur sapendo che esso potrà incontrare un terreno inadeguato, che non gli permetterà di maturare a motivo dell’aridità, o che ne spegnerà la forza vitale soffocandolo tra cespugli spinosi. Tuttavia, il seminatore non si scoraggia, perché sa che una parte di questo seme è destinata a trovare il “terreno buono”, cioè cuori ardenti e capaci di accogliere la Parola con disponibilità, per farla maturare nella perseveranza e ridonarne con generosità il frutto a beneficio di molti.
L’immagine del terreno può evocare la realtà più o meno buona della famiglia; l’ambiente talvolta arido e duro del lavoro; i giorni della sofferenza e delle lacrime. La terra è soprattutto il cuore di ogni uomo, in particolare dei giovani, a cui voi vi rivolgete nel vostro servizio di ascolto e di accompagnamento: un cuore spesso confuso e disorientato, eppure capace di contenere in sé impensate energie di donazione; pronto ad aprirsi nelle gemme di una vita spesa per amore di Gesù, capace di seguirlo con la totalità e la certezza che viene dall’avere trovato il più grande tesoro dell’esistenza. A seminare nel cuore dell’uomo è sempre e solo il Signore. Solo dopo la semina abbondante e generosa della Parola di Dio ci si può inoltrare lungo i sentieri dell’accompagnare e dell’educare, del formare e del discernere. Tutto ciò è legato a quel piccolo seme, dono misterioso della Provvidenza celeste, che sprigiona da sé una forza straordinaria. E’ infatti la Parola di Dio che di per se stessa opera efficacemente quanto dice e desidera.
[Papa Benedetto, ai partecipanti al convegno europeo sulla pastorale vocazionale, 4 luglio 2009]
5. “Ecco, il seminatore uscì a seminare” (Mt 13, 3).
L’Incarnazione del Verbo è la più grande e più vera “semina” del Padre. Alla fine dei tempi avverrà la mietitura: l’uomo sarà allora sottoposto al giudizio di Dio. Avendo ricevuto molto, di molto gli sarà domandato conto.
L’uomo è responsabile non solo di se stesso, ma anche delle altre creature. Lo è in senso globale: a lui infatti è legata la loro sorte nel tempo e al di là del tempo. Se egli obbedisce al disegno del Creatore e ad esso si conforma, conduce nel regno della libertà l’intero creato, così come l’ha trascinato con sé nel regno della corruzione, a causa della disobbedienza originale. Questo ha inteso dirci oggi San Paolo nella seconda Lettura.
Discorso misterioso, il suo, ma affascinante. Accogliendo Cristo, l’umanità è in grado di immettere un flusso di vita nuova nella creazione. Senza Cristo, il cosmo stesso paga le conseguenze del rifiuto umano di aderire liberamente al piano della salvezza divina. Per la speranza nostra e di tutte le creature, Cristo ha seminato nel cuore dell’uomo un germe di vita nuova ed immortale. Germe di salvezza che imprime alla creazione un orientamento nuovo: la gloria del Regno di Dio.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia a s. Stefano di Cadore, 11 luglio 1993]
Gesù, quando parlava, usava un linguaggio semplice e si serviva anche di immagini, che erano esempi tratti dalla vita quotidiana, in modo da poter essere compreso facilmente da tutti. Per questo lo ascoltavano volentieri e apprezzavano il suo messaggio che arrivava dritto nel loro cuore; e non era quel linguaggio complicato da comprendere, quello che usavano i dottori della Legge del tempo, che non si capiva bene ma che era pieno di rigidità e allontanava la gente. E con questo linguaggio Gesù faceva capire il mistero del Regno di Dio; non era una teologia complicata. E un esempio è quello che oggi porta il Vangelo: la parabola del seminatore.
Il seminatore è Gesù. Notiamo che, con questa immagine, Egli si presenta come uno che non si impone, ma si propone; non ci attira conquistandoci, ma donandosi: butta il seme. Egli sparge con pazienza e generosità la sua Parola, che non è una gabbia o una trappola, ma un seme che può portare frutto. E come può portare frutto? Se noi lo accogliamo.
Perciò la parabola riguarda soprattutto noi: parla infatti del terreno più che del seminatore. Gesù effettua, per così dire, una “radiografia spirituale” del nostro cuore, che è il terreno sul quale cade il seme della Parola. Il nostro cuore, come un terreno, può essere buono e allora la Parola porta frutto – e tanto – ma può essere anche duro, impermeabile. Ciò avviene quando sentiamo la Parola, ma essa ci rimbalza addosso, proprio come su una strada: non entra.
Tra il terreno buono e la strada, l’asfalto – se noi buttiamo un seme sui “sanpietrini” non cresce niente – ci sono però due terreni intermedi che, in diverse misure, possiamo avere in noi. Il primo, dice Gesù, è quello sassoso. Proviamo a immaginarlo: un terreno sassoso è un terreno «dove non c’è molta terra» (cfr v. 5), per cui il seme germoglia, ma non riesce a mettere radici profonde. Così è il cuore superficiale, che accoglie il Signore, vuole pregare, amare e testimoniare, ma non persevera, si stanca e non “decolla” mai. È un cuore senza spessore, dove i sassi della pigrizia prevalgono sulla terra buona, dove l’amore è incostante e passeggero. Ma chi accoglie il Signore solo quando gli va, non porta frutto.
C’è poi l’ultimo terreno, quello spinoso, pieno di rovi che soffocano le piante buone. Che cosa rappresentano questi rovi? «La preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza» (v. 22), così dice Gesù, esplicitamente. I rovi sono i vizi che fanno a pugni con Dio, che ne soffocano la presenza: anzitutto gli idoli della ricchezza mondana, il vivere avidamente, per sé stessi, per l’avere e per il potere. Se coltiviamo questi rovi, soffochiamo la crescita di Dio in noi. Ciascuno può riconoscere i suoi piccoli o grandi rovi, i vizi che abitano nel suo cuore, quegli arbusti più o meno radicati che non piacciono a Dio e impediscono di avere il cuore pulito. Occorre strapparli via, altrimenti la Parola non porterà frutto, il seme non si svilupperà.
Cari fratelli e sorelle, Gesù ci invita oggi a guardarci dentro: a ringraziare per il nostro terreno buono e a lavorare sui terreni non ancora buoni. Chiediamoci se il nostro cuore è aperto ad accogliere con fede il seme della Parola di Dio. Chiediamoci se i nostri sassi della pigrizia sono ancora numerosi e grandi; individuiamo e chiamiamo per nome i rovi dei vizi. Troviamo il coraggio di fare una bella bonifica del terreno, una bella bonifica del nostro cuore, portando al Signore nella Confessione e nella preghiera i nostri sassi e i nostri rovi. Così facendo, Gesù, buon seminatore, sarà felice di compiere un lavoro aggiuntivo: purificare il nostro cuore, togliendo i sassi e le spine che soffocano la Parola.
[Papa Francesco, Angelus 16 luglio 2017]
Azione del Risorto
(Lc 8,1-3)
I rabbini non accettavano donne nelle loro scuole, perché ritenute non all’altezza del compito.
Ma Gesù non viene a insegnare leggi o filosofie, bensì a radunare attorno a sé i disprezzati e le non-persone di ogni tempo.
In Cristo ciascuno si apre alla speranza. Chi è considerato senza valore annuncia e testimonia l’amore di Dio per i piccoli e gli ultimi.
Tutto con delicatezza, ed ecco le figure femminili: subentra la fedeltà.
Nelle donne la pietà sorge spontanea [non è ideata come per noi maschi: immediatamente all’obiettivo e fonte di guadagno].
Con esse svanisce anche l’ansia di prestazione che accompagna gli uomini, i quali anche sul bene devono subito apparire allestendo pedane e défilé; essere notati, coltivare pubbliche e private relazioni che contano, e farci carriera sopra.
Gesù conquista il cuore delle donne perché ne comprende la generosità, la profondità di sentimenti, la capacità di dedizione e di rapporto personale, di dono di sé estremo; sensibilità, Fede-amore, pazienza, mitezza, generosità, capacità di fatica e sofferenza.
Invece di “ammazzare” il tempo, le donne lo riempiono a fondo.
Gesù non vuole un’umanità tesa a farsi apprezzare più che al nascondimento, incline al parlare più che al ‘percepire’; volentieri propensa all’organizzare-progettare più che al meditare - e intuire la profondità delle nostre Radici.
La prevalenza o l’equilibrio dell’aspetto femminile è un opportuno contrappeso a un mondo prono al dirigismo e all’esercizio della volontà, più che alla coltivazione del sentimento figliale.
Felice quella vocazione che viene accompagnata dall’intensità, dalla profondità, delicatezza, capacità di attendere e insieme coerenza ai princìpi - e partecipazione al destino - aspetti tipici della sensibilità femminile e del mondo delle consacrate.
[Forse quello di Maria, Giovanna, Susanna e molte altre dei primi tempi era un ruolo paragonabile a quello di Marta nella famiglia di Betania, coordinatrice della comunità di soli fratelli e sorelle].
In Lc la vicenda delle donne esprime l’azione del Risorto. Egli le accetta come seguaci e discepole.
Nelle figure femminili si legge in filigrana la vicenda dell’umanità che in Cristo si rialza e assume dignità.
Essa si rende fraterna nel dolore, prepara il nutrimento (invece di toglierlo), persiste, lotta e in tale agire diventa addirittura icona di preghiera.
È modello di dedizione e dono di sé [invece di calcolo e astuzia] - pronte alla vita, e tipo dell’Annuncio; tesoro che scatena lo Spirito.
Il Gesù in cammino coi Dodici (v.1) ha ancora oggi tanta tanta strada da percorrere nella magia del femminile - che sa accogliere la persona e ascoltare gli eventi, stando sempre in campo.
Le donne imparano dalla loro essenza, quindi sanno attrarre, conoscono le cose che servono, comprendono dove e come procedere, sono presenti nel presente - e senza sovrintendere, risolvono i problemi.
Non temono di perdere “posizione”.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Ti senti chiamato a una sintesi spirituale delle personalità, con tutta la virtù e completezza che scaturisce da un’indole variegata?
[Venerdì 24.a sett. T.O. 19 settembre 2025]
At first sight, this might seem a message not particularly relevant, unrealistic, not very incisive with regard to a social reality with so many problems […] (Pope John Paul II)
A prima vista, questo potrebbe sembrare un messaggio non molto pertinente, non realistico, poco incisivo rispetto ad una realtà sociale con tanti problemi […] (Papa Giovanni Paolo II)
At first sight, this might seem a message not particularly relevant, unrealistic, not very incisive with regard to a social reality with so many problems […] (Pope John Paul II)
A prima vista, questo potrebbe sembrare un messaggio non molto pertinente, non realistico, poco incisivo rispetto ad una realtà sociale con tanti problemi […] (Papa Giovanni Paolo II)
There is work for all in God's field (Pope Benedict)
C'è lavoro per tutti nel campo di Dio (Papa Benedetto)
The great thinker Romano Guardini wrote that the Lord “is always close, being at the root of our being. Yet we must experience our relationship with God between the poles of distance and closeness. By closeness we are strengthened, by distance we are put to the test” (Pope Benedict)
Il grande pensatore Romano Guardini scrive che il Signore “è sempre vicino, essendo alla radice del nostro essere. Tuttavia, dobbiamo sperimentare il nostro rapporto con Dio tra i poli della lontananza e della vicinanza. Dalla vicinanza siamo fortificati, dalla lontananza messi alla prova” (Papa Benedetto)
The present-day mentality, more perhaps than that of people in the past, seems opposed to a God of mercy, and in fact tends to exclude from life and to remove from the human heart the very idea of mercy (Pope John Paul II)
La mentalità contemporanea, forse più di quella dell'uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l'idea stessa della misericordia (Papa Giovanni Paolo II)
«Religion of appearance» or «road of humility»? (Pope Francis)
«Religione dell’apparire» o «strada dell’umiltà»? (Papa Francesco)
Those living beside us, who may be scorned and sidelined because they are foreigners, can instead teach us how to walk on the path that the Lord wishes (Pope Francis)
Chi vive accanto a noi, forse disprezzato ed emarginato perché straniero, può insegnarci invece come camminare sulla via che il Signore vuole (Papa Francesco)
Many saints experienced the night of faith and God’s silence — when we knock and God does not respond — and these saints were persevering (Pope Francis)
Tanti santi e sante hanno sperimentato la notte della fede e il silenzio di Dio – quando noi bussiamo e Dio non risponde – e questi santi sono stati perseveranti (Papa Francesco)
In some passages of Scripture it seems to be first and foremost Jesus’ prayer, his intimacy with the Father, that governs everything (Pope Francis)
In qualche pagina della Scrittura sembra essere anzitutto la preghiera di Gesù, la sua intimità con il Padre, a governare tutto (Papa Francesco)
It is necessary to know how to be silent, to create spaces of solitude or, better still, of meeting reserved for intimacy with the Lord. It is necessary to know how to contemplate. Today's man feels a great need not to limit himself to pure material concerns, and instead to supplement his technical culture with superior and detoxifying inputs from the world of the spirit [John Paul II]
Occorre saper fare silenzio, creare spazi di solitudine o, meglio, di incontro riservato ad un’intimità col Signore [Giovanni Paolo II]
don Giuseppe Nespeca
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