Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
«Preghiera e testimonianza» sono i «due compiti dei vescovi» che sono «colonne della Chiesa». Ma se si indeboliscono a soffrirne è tutto il popolo di Dio. Perciò, ha chiesto Papa Francesco durante la messa celebrata venerdì mattina 22 gennaio nella cappella della Casa Santa Marta, bisogna pregare insistentemente per i successori dei dodici apostoli.
La riflessione del Pontefice sulla figura e la missione del vescovo ha preso le mosse dal passo dell’evangelista Marco (3, 13-19) proclamato durante la liturgia odierna. «C’è una parola, in questo passo del Vangelo, che attira l’attenzione: Gesù “costituì”». E questa parola «appare due volte». Scrive infatti Marco: «“Ne costituì dodici, che chiamò apostoli”. E poi riprende: “Costituì dunque i dodici”, e li nomina, uno dietro l’altro». Dunque, ha spiegato il Pontefice, «Gesù, tra tanta gente che lo seguiva — ci dice il Vangelo — “chiamò a sé quelli che voleva”». Insomma «c’è una scelta: Gesù ha scelto quelli che Lui voleva». E, appunto, «ne costituì dodici. Che chiamò apostoli». Infatti, ha proseguito Francesco, «c’erano altri: c’erano i discepoli» e «il Vangelo parla di settantadue, in una occasione». Ma «questi erano un’altra cosa».
I «dodici sono costituiti perché stiano con Lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni» ha spiegato il Papa. «È il gruppo più importante che Gesù ha scelto, “perché stessero con Lui”, più vicini, “e per mandarli a predicare” il Vangelo». E «con il potere di scacciare i demoni», aggiunge ancora Marco. Proprio quei «dodici sono i primi vescovi, il primo gruppo di vescovi».
Questi dodici «eletti — ha fatto notare Francesco — avevano coscienza dell’importanza di questa elezione, tanto che dopo che Gesù era stato assunto in cielo, Pietro parlò agli altri e spiegò loro che, visto il tradimento di Giuda, era necessario fare qualcosa». E così proprio tra coloro che erano stati con Gesù, dal battesimo di Giovanni fino all’ascensione, scelsero «un testimone “con noi” — dice Pietro — della risurrezione». Ecco, ha proseguito il Papa, che «il posto di Giuda viene occupato, viene preso da Mattia: è stato eletto Mattia».
Poi «la liturgia della Chiesa, riferendosi ad «alcune espressioni di Paolo», chiama i dodici «le colonne della Chiesa». Sì, ha affermato il Pontefice, «gli apostoli sono le colonne della Chiesa. E i vescovi sono colonne della Chiesa. Quella elezione di Mattia è stata la prima ordinazione episcopale della Chiesa».
«Mi piacerebbe oggi dire qualche parola sui vescovi» ha confidato Francesco. «Noi vescovi abbiamo questa responsabilità di essere testimoni: testimoni che il Signore Gesù è vivo, che il Signore Gesù è risorto, che il Signore Gesù cammina con noi, che il Signore Gesù ci salva, che il Signore Gesù ha dato la sua vita per noi, che il Signore Gesù è la nostra speranza, che il Signore Gesù ci accoglie sempre e ci perdona». Ecco «la testimonianza». Di conseguenza, ha proseguito, «la nostra vita dev’essere questo: una testimonianza, una vera testimonianza della risurrezione di Cristo».
E quando Gesù, come racconta Marco, fa «questa scelta» dei dodici, ha due ragioni. Anzitutto «perché stessero con Lui». Perciò «il vescovo ha l’obbligo di stare con Gesù». Sì, «è il primo obbligo del vescovo: stare con Gesù». Ed è vero «a tal punto che quando è sorto, ai primi tempi, il problema che gli orfani e le vedove non erano ben curati, i vescovi — questi dodici — si sono radunati, e hanno pensato a cosa fare». E «hanno introdotto la figura dei diaconi, dicendo: “Che i diaconi si occupino degli orfani, delle vedove”». Mentre ai dodici, «dice Pietro», spettano «due compiti: la preghiera e l’annuncio del Vangelo».
Dunque, ha rilanciato Francesco, «il primo compito del vescovo è stare con Gesù nella preghiera». Infatti «il primo compito del vescovo non è fare piani pastorali... no, no!». È «pregare: questo è il primo compito». Mentre «il secondo compito è essere testimone, cioè predicare: predicare la salvezza che il Signore Gesù ci ha portato».
Sono «due compiti non facili — ha riconosciuto il Pontefice — ma sono propriamente questi due compiti che fanno forte le colonne della Chiesa». Infatti «se queste colonne si indeboliscono, perché il vescovo non prega o prega poco, si dimentica di pregare; o perché il vescovo non annuncia il Vangelo, si occupa di altre cose, la Chiesa anche si indebolisce; soffre. Il popolo di Dio soffre». Proprio «perché le colonne sono deboli».
Per questa ragione, ha affermato Francesco, «io vorrei oggi invitare voi a pregare per noi vescovi: perché anche noi siamo peccatori, anche noi abbiamo debolezze, anche noi abbiamo il pericolo di Giuda: anche lui era stato eletto come colonna». Sì, ha proseguito, «anche noi corriamo il pericolo di non pregare, di fare qualcosa che non sia annunciare il Vangelo e scacciare i demoni». Di qui, ha ribadito il Papa, l’invito a «pregare perché i vescovi siano quello che Gesù voleva e che tutti noi diamo testimonianza della risurrezione di Gesù».
Del resto, ha aggiunto, «il popolo di Dio prega per i vescovi, in ogni messa si prega per i vescovi: si prega per Pietro, il capo del collegio episcopale, e si prega per il vescovo del luogo». Ma «questo può non essere abbastanza: si dice il nome per abitudine e si va avanti». È importante «pregare per il vescovo con il cuore, chiedere al Signore: “Signore, abbi cura del mio vescovo; abbi cura di tutti i vescovi, e mandaci vescovi che siano veri testimoni, vescovi che preghino e vescovi che ci aiutino, con la loro predica, a capire il Vangelo, a essere sicuri che Tu, Signore, sei vivo, sei fra noi”».
Prima di riprendere la celebrazione, il Papa ha suggerito, nuovamente, di pregare «dunque per i nostri vescovi: è un compito dei fedeli». Infatti «la Chiesa senza vescovo non può andare avanti». Ecco, allora, che «la preghiera di tutti noi per i nostri vescovi è un obbligo, ma un obbligo d’amore, un obbligo dei figli nei confronti del Padre, un obbligo di fratelli, perché la famiglia rimanga unita nella confessione di Gesù Cristo, vivo e risorto».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 23/01/2016]
(Mc 10,46-52)
Il passo di Mc è l’agile frutto dell’intreccio fra una catechesi di spiegazione del brano immediatamente precedente [le mire degli Apostoli] e l’insegnamento su primissime forme di liturgia battesimale riservate ai nuovi credenti, chiamati ‘photismòi-illuminati’ [coloro che dal buio della vita pagana aprivano finalmente gli occhi alla Luce].
Il brano illustra cosa accade a una persona quando incontra Cristo e ne riceve l’orientamento esistenziale: abbandona le posizioni consolidate ma non personalmente rielaborate, e diviene testimone critico.
La narrazione è impostata sul confronto tra sguardi materiali verso il basso (come quelli dei pagani o dei seguaci arroganti) e sguardi aperti, in grado di sollevare l’occhio dell’uomo da pastoie di sembianti, abitudinarietà, e potenze esteriori o interiori distruttive.
Cosa dunque è necessario per vedere con la percezione di Dio, oltre le apparenze, e risollevarsi da una grigia vita di elemosine, letteralmente a terra? Come curare la visuale di chi non si raccapezza?
Bartimeo [testualmente, il ‘figlio dell’apprezzato’] ci rappresenta: non è uomo libero, capace di attivarsi - ma suggestionato da un’affannosa ricerca di prestigio e riconoscimenti.
Il «figlio dell’onorato» non è biologicamente cieco, ma uno che si regola a casaccio. Non riesce a «guardare in su» [il verbo-chiave greco ai vv.51-52 è aná-blépein] perché non coltiva ideali; si accontenta di quello che passa il contorno, che lo anestetizza.
Se ci si ritrova a questo livello di miopia, meglio «sollevare lo sguardo» ripiegato sul proprio ombelico, per piccinerie da tornaconto a breve.
Bartimeo è uomo abitudinario, viene accompagnato agli stessi posti ogni giorno dalle medesime persone.
Sta fermo, «seduto» (v.46) ai margini di una strada dove la gente procede e non si limita come lui a sopravvivere rassegnata, senza scatti.
I tipi alla Bartimeo tutto si attendono dal riconoscimento altrui; vivono solo di questua. Non fanno che ripetere parole e gesti sempre identici.
Il loro orizzonte a portata di mano non consente di entrare nel flusso della Via dove le persone si danno da fare edificando, evolvendo, esprimendo se stesse, provvedendo ai fratelli meno fortunati.
Una esistenza trascinata ai margini di qualsiasi interesse che non sia il proprio neghittoso sacchetto.
Vivono del movimento altrui; campano di piccole benevolenze e opinioni barattate da chi passa, per svogliatezza mai riesaminate e fatte proprie.
Ma la Parola del Nazareno fa scattare l’indolente. E la sua nuova attitudine diventa quella del “neonato”. In tal guisa, si adopera in un modello di vita industrioso, creativo, pratico - avveniristico.
Risorge dinamico, sbarazzandosi degli stracci sui quali si attendeva che altri deponessero qualcosa in suo favore.
L’abito vecchio finisce nella polvere - gettato lontano come nelle antiche liturgie battesimali: a qualsiasi età intraprende, surclassando sicurezze di piccolo cabotaggio.
Cambia vita, la guarda in faccia; sebbene sappia di complicarsela, rendendola impegnativa e controcorrente.
Il contatto personale con Gesù ha corretto lo sguardo, gli ha fatto recuperare l’ottica ideale.
Ora egli comprendere il senso primordiale e rigenerante - anzi, ricreante - della Novità di Dio.
L’Incontro faccia a faccia gli ha trasmesso un modello diametralmente opposto di uomo riuscito; non sottomesso al tatticismo.
Insomma, Gesù corregge la miopia inerte di chi è affezionato al suo posto mediocre.
Religiosità o Fede personale: la scelta è dirimente.
Significa adattarsi pigramente alle mode di circostanza o al vestito vecchio dei comportamenti già “detti” e solite amicizie, aspettando solo qualche soluzione-fulmine che non coinvolga troppo...
Ovvero partire via da lì, reinventarsi la vita, abbandonare il ‘mantello’ [cf. Mc 10,50] sul quale si raccoglievano commenti e oboli comuni.
Aprendo gli occhi e «sollevandoli», come farebbe un uomo già divino. Intascando null’altro che perle di luce, invece di elemosine.
Su strade fangose ci si può sporcare e si è incerti, ma vi possiamo procedere nel movimento del sacerdozio di Cristo, con percezione sana.
Infatti - come in questo episodio - non di rado i Vangeli insistono sul criterio (devotamente assurdo) che il nemico di Dio non sia il peccato, bensì la ‘vita media’ e passiva dell’«onorato», ormai identificato e piazzato.
[30.a Domenica T.O. (anno B), 27 ottobre 2024]
Il movimento del sacerdozio di Cristo
(Mc 10,46-52)
L’enciclica Fratelli Tutti invita a uno sguardo prospettico, che non si adatta.
Papa Francesco propone visuali che suscitano decisione e azione: occhi nuovi, energetici, visionari, temerari, ricolmi di “passaggio” e Speranza.
Essa «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. [...] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» (n.55) [cit. da un Saluto ai giovani de L’Avana, settembre 2015].
Affranto, Paolo VI ammetteva:
«Sì, vi sono molti cristiani mediocri; e non solo perché sono deboli o mancanti di formazione, ma perché vogliono essere mediocri e perché hanno le loro così dette buone ragioni del giusto mezzo, del ne quid nimis, quasi che il Vangelo fosse una scuola d’indolenza morale, o quasi che esso autorizzasse servire al conformismo. Non è ipocrisia? Incoerenza? Relativismo secondo il vento che tira?» [passim].
Sembra il ritratto della vita scadente e cieca di Bartimeo: “nulla di troppo”, “mai l’eccessivo”.
Una sorta di esistenza alla don Abbondio, a contrasto del quale Manzoni delinea l’icona dell’uomo di Fede - che appunto spicca sul mediocre devoto - nella solenne e decisa figura del cardinal Federigo.
Prelato che invece «ebbe a combattere co’ galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne’ limiti, cioè ne’ loro limiti».
Non il qualunquismo rassicurato d’un pio vigliacco e situazionalista, che finge di non vedere, si accontenta della sua nicchia da mezza tacca; si siede nell’aia scadente del minimo sindacale, si barcamena e non s’espone.
Il passo di Mc è l’agile frutto dell’intreccio fra una catechesi di spiegazione del brano immediatamente precedente [le mire degli Apostoli] e l’insegnamento su primissime forme di liturgia battesimale riservate ai nuovi credenti, chiamati ‘photismòi-illuminati’ [coloro che dal buio della vita pagana aprivano finalmente gli occhi alla Luce].
Il brano illustra cosa accade a una persona quando incontra Cristo e ne riceve l’orientamento esistenziale: abbandona le posizioni consolidate ma non personalmente rielaborate, e diviene testimone critico.
La narrazione è impostata sul confronto tra sguardi materiali verso il basso (come quelli dei pagani o dei seguaci arroganti) e sguardi aperti, in grado di sollevare l’occhio dell’uomo da pastoie di sembianti, abitudinarietà, e potenze esteriori o interiori distruttive.
La comparazione fa affiorare ciò che conta nella vita, quel che ha peso e non viene spazzato via dagli impedimenti d’una spiritualità vuota, rapita o attratta da brame epidermiche; imbrigliate su falsarighe di ruoli sociali o conformismi culturali e spirituali - da consuetudini ereditate ma non vagliate.
Insomma: il Signore ci vuol far comprendere che il conformismo all’ambiente e la vuota devozione inculcano un intendere paludoso, esanime, poco rilevante.
Cosa dunque è necessario per «vedere» con la percezione di Dio, oltre le apparenze, e risollevarsi da una grigia vita di elemosine, letteralmente a terra? E come curare la visuale di chi non si raccapezza?
Anche i “vicini” hanno aspettative più o meno chiare su come entrare nel Movimento del sacerdozio di Cristo.
I discepoli stessi sono suggestionati da una folla spesso qualunquista attorno che si attende ben poco, se non quiete, svago e favori; e che preme perché si entri «ne’ loro limiti».
L’accovacciato ai bordi Bartimeo [testualmente, il ‘figlio dell’apprezzato’] ci rappresenta: non è uomo libero, capace di attivarsi.
Piuttosto, suggestionato da un’affannosa ricerca di prestigio e riconoscimenti - fame e sete che sono state trasmesse dalla sua stessa famiglia e da tutta una mentalità antica, rimasta altezzosa.
Il «figlio dell’onorato» non è biologicamente cieco (la traduzione italiana è incerta) ma uno che si regola a casaccio.
Non riesce a «guardare in su» [il verbo-chiave greco ai vv.51-52 è aná-blépein] perché non coltiva ideali; si accontenta di quello che passa il contorno, che lo anestetizza.
Condizionato da falsi maestri e guide spirituali approssimative, sedotte da tutta una civiltà dell’esterno, anch’egli è bloccato da spirito di letargo - grandioso solo in velleità - che tuttavia punta la sua esistenza a ribasso.
Conseguenza spirituale: le vittime di un’ideologia indolente possono confondere il Figlio di Dio che dona tutto di sé e trasmette vitalità, con il figlio di Davide (vv.47-48) che non dà bensì toglie vita.
Gesù somiglia e rimanda al Padre, non a un sovrano pur prestigioso come Davide; uomo abile e svelto, figura di uno stile di dominio violento e in continua rivalsa.
L’equivoco ha pesanti conseguenze.
Inizialmente ogni cercatore di Dio rischia di scambiare il Signore con un superuomo e capitano fenomenale che benedice e favorisce gli amici nelle loro aspettative di tranquillità, noncuranza e stasi mediocre, o di gloria e prestigio mondano.
Un bel difetto di vista, perché s’invertono affatto i criteri dell’esistenza sapiente e solida - rischiando di conficcarla in una pozzanghera d’illusioni; al massimo, trascinarla rasoterra.
Se ci si ritrova a questo livello di miopia, meglio «sollevare lo sguardo» ripiegato sul proprio ombelico, per piccinerie da tornaconto a breve.
Bartimeo è uomo abitudinario, viene accompagnato agli stessi posti ogni giorno dalle medesime persone.
Sta fermo, «seduto» (v.46) ai margini di una strada dove la gente procede e non si limita come lui a sopravvivere rassegnata, senza scatti.
[Mentre scrivevo un mio prof del liceo, persona di gran fede e dinamismo - mi ha inviato un proverbio indiano: «se davanti a te vedi tutto grigio, sposta l’elefante»].
I tipi alla Bartimeo tutto si attendono dal riconoscimento altrui; vivono solo di questua. Non fanno che ripetere parole e gesti sempre identici.
Il loro orizzonte a portata di mano non consente di entrare nel flusso della Via dove le persone si danno da fare edificando, evolvendo, esprimendo se stesse, provvedendo ai fratelli meno fortunati.
Una esistenza trascinata ai margini di qualsiasi interesse che non sia il proprio neghittoso sacchetto.
Eppure sono dotati d’uno spiccato senso religioso antico; ma proprio per questo - mancando del balzo di Fede - centrati su di sé e sulle idee che sono state trasmesse.
Vivono del movimento altrui; campano di piccole benevolenze e opinioni barattate da chi passa, per svogliatezza mai riesaminate e fatte proprie.
La Parola del Nazareno [nel linguaggio dei Vangeli l’epiteto “essere di Nazaret” significava “rivoluzionario, testa calda, sovversivo”] fa scattare l’indolente.
La sua nuova attitudine diventa piuttosto quella del “neonato”. In tal guisa, si adopera in un modello di vita industrioso, creativo, pratico - avveniristico.
Risorge dinamico, sbarazzandosi degli stracci sui quali si attendeva che altri deponessero qualcosa in suo favore.
L’abito vecchio finisce nella polvere - gettato lontano come nelle antiche liturgie battesimali: a qualsiasi età intraprende, surclassando sicurezze di piccolo cabotaggio.
Cambia vita, la guarda in faccia; sebbene sappia di complicarsela, rendendola impegnativa e controcorrente.
Il contatto personale con Gesù ha corretto lo sguardo, gli ha fatto recuperare l’ottica ideale.
Ora egli comprendere il senso primordiale e rigenerante - anzi, ricreante - della Novità di Dio.
L’Incontro faccia a faccia gli ha trasmesso un modello diametralmente opposto di uomo riuscito; non sottomesso al tatticismo.
Insomma, Gesù corregge la miopia inerte di chi è affezionato al suo posto mediocre.
“Il vento che tira” c’infonde un letale veleno: quello rinunciatario dell’identificarci-e-assomigliare, che fa rima con l’arrenderci e invecchiare.
La guarigione da tale cecità non può essere un... Miracolo! Religiosità o Fede personale: è scelta dirimente.
Significa adattarsi pigramente alle mode di circostanza o al vestito vecchio dei comportamenti già “detti” e solite amicizie, aspettando solo qualche soluzione-fulmine che non coinvolga troppo...
Ovvero partire via da lì, reinventarsi la vita, abbandonare il ‘mantello’ [cf. Mc 10,50] sul quale si raccoglievano commenti e oboli comuni.
Aprendo gli occhi e «sollevandoli», come farebbe un uomo già divino. Intascando null’altro che perle di luce, invece di elemosine.
Su strade fangose ci si può sporcare e si è incerti, ma vi possiamo procedere in contezza: sulla via che ci appartiene; nel movimento del sacerdozio di Cristo. Con percezione sana.
Infatti - come in questo episodio - non di rado i Vangeli insistono sul criterio (devotamente assurdo) che il nemico di Dio non sia il peccato, bensì la ‘vita media’ e passiva dell’«onorato», ormai identificato e piazzato.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
L’incontro con Cristo ti ha tolto come un velo dagli occhi?
Hai colto l’occasione per nascere come uomo nuovo, e sollevare lo sguardo? O rimani miope e inerte?
Il Passaggio della Pasqua
Un giorno Gesù, avvicinandosi alla città di Gerico, compì il miracolo di ridare la vista a un cieco che mendicava lungo la strada (cfr Lc 18,35-43). Oggi vogliamo cogliere il significato di questo segno perché tocca anche noi direttamente. L’evangelista Luca dice che quel cieco era seduto sul bordo della strada a mendicare (cfr v. 35). Un cieco a quei tempi – ma anche fino a non molto tempo fa – non poteva che vivere di elemosina. La figura di questo cieco rappresenta tante persone che, anche oggi, si trovano emarginate a causa di uno svantaggio fisico o di altro genere. E’ separato dalla folla, sta lì seduto mentre la gente passa indaffarata, assorta nei propri pensieri e in tante cose...E la strada, che può essere un luogo di incontro, per lui invece è il luogo della solitudine. Tanta folla che passa...E lui è solo.
E’ triste l’immagine di un emarginato, soprattutto sullo sfondo della città di Gerico, la splendida e rigogliosa oasi nel deserto. Sappiamo che proprio a Gerico giunse il popolo di Israele al termine del lungo esodo dall’Egitto: quella città rappresenta la porta d’ingresso nella terra promessa. Ricordiamo le parole che Mosè pronuncia in quella circostanza: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso. Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nella tua terra» (Dt 15,7.11). E’ stridente il contrasto tra questa raccomandazione della Legge di Dio e la situazione descritta dal Vangelo: mentre il cieco grida invocando Gesù, la gente lo rimprovera per farlo tacere, come se non avesse diritto di parlare. Non hanno compassione di lui, anzi, provano fastidio per le sue grida. Quante volte noi, quando vediamo tanta gente nella strada – gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare – sentiamo fastidio. Quante volte, quando ci troviamo davanti a tanti profughi e rifugiati, sentiamo fastidio. È una tentazione che tutti noi abbiamo. Tutti, anch’io! È per questo che la Parola di Dio ci ammonisce ricordandoci che l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi, impediscono di vedere i fratelli e non permettono di riconoscere in essi il Signore. Indifferenza e ostilità. E a volte questa indifferenza e ostilità diventano anche aggressione e insulto: “ma cacciateli via tutti questi!”, “metteteli in un’altra parte!”. Quest’aggressione è quello che faceva la gente quando il cieco gridava: “ma tu vai via, dai, non parlare, non gridare”.
Notiamo un particolare interessante. L’Evangelista dice che qualcuno della folla spiegò al cieco il motivo di tutta quella gente dicendo: «Passa Gesù, il Nazareno!» (v. 37). Il passaggio di Gesù è indicato con lo stesso verbo con cui nel libro dell’Esodo si parla del passaggio dell’angelo sterminatore che salva gli Israeliti in terra d’Egitto (cfr Es 12,23). È il “passaggio” della pasqua, l’inizio della liberazione: quando passa Gesù, sempre c’è liberazione, sempre c’è salvezza! Al cieco, quindi, è come se venisse annunciata la sua pasqua. Senza lasciarsi intimorire, il cieco grida più volte verso Gesù riconoscendolo come il Figlio di Davide, il Messia atteso che, secondo il profeta Isaia, avrebbe aperto gli occhi ai ciechi (cfr Is 35,5). A differenza della folla, questo cieco vede con gli occhi della fede. Grazie ad essa la sua supplica ha una potente efficacia. Infatti, all’udirlo, «Gesù si fermò e ordinò che lo conducessero da lui» (v. 40). Così facendo Gesù toglie il cieco dal margine della strada e lo pone al centro dell’attenzione dei suoi discepoli e della folla. Pensiamo anche noi, quando siamo stati in situazioni brutte, anche situazioni di peccato, com’è stato proprio Gesù a prenderci per mano e a toglierci dal margine della strada e donarci la salvezza. Si realizza così un duplice passaggio. Primo: la gente aveva annunciato una buona novella al cieco, ma non voleva avere niente a che fare con lui; ora Gesù obbliga tutti a prendere coscienza che il buon annuncio implica porre al centro della propria strada colui che ne era escluso. Secondo: a sua volta, il cieco non vedeva, ma la sua fede gli apre la via della salvezza, ed egli si ritrova in mezzo a quanti sono scesi in strada per vedere Gesù. Fratelli e sorelle, Il passaggio del Signore è un incontro di misericordia che tutti unisce intorno a Lui per permettere di riconoscere chi ha bisogno di aiuto e di consolazione. Anche nella nostra vita Gesù passa; e quando passa Gesù, e io me ne accorgo, è un invito ad avvicinarmi a Lui, a essere più buono, a essere un cristiano migliore, a seguire Gesù.
Gesù si rivolge al cieco e gli domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (v. 41). Queste parole di Gesù sono impressionanti: il Figlio di Dio ora sta di fronte al cieco come un umile servo. Lui, Gesù, Dio, dice: “Ma cosa vuoi che io ti faccia? Come tu vuoi che io ti serva?” Dio si fa servo dell’uomo peccatore. E il cieco risponde a Gesù non più chiamandolo “Figlio di Davide”, ma “Signore”, il titolo che la Chiesa fin dagli inizi applica a Gesù Risorto. Il cieco chiede di poter vedere di nuovo e il suo desiderio viene esaudito: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato» (v. 42). Egli ha mostrato la sua fede invocando Gesù e volendo assolutamente incontrarlo, e questo gli ha portato in dono la salvezza. Grazie alla fede ora può vedere e, soprattutto, si sente amato da Gesù. Per questo il racconto termina riferendo che il cieco «cominciò a seguirlo glorificando Dio» (v. 43): si fa discepolo. Da mendicante a discepolo, anche questa è la nostra strada: tutti noi siamo mendicanti, tutti. Abbiamo bisogno sempre di salvezza. E tutti noi, tutti i giorni, dobbiamo fare questo passo: da mendicanti a discepoli. E così, il cieco si incammina dietro al Signore entrando a far parte della sua comunità. Colui che volevano far tacere, adesso testimonia ad alta voce il suo incontro con Gesù di Nazaret, e «tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio» (v. 43). Avviene un secondo miracolo: ciò che è accaduto al cieco fa sì che anche la gente finalmente veda. La stessa luce illumina tutti accomunandoli nella preghiera di lode. Così Gesù effonde la sua misericordia su tutti coloro che incontra: li chiama, li fa venire a sé, li raduna, li guarisce e li illumina, creando un nuovo popolo che celebra le meraviglie del suo amore misericordioso. Lasciamoci anche noi chiamare da Gesù, e lasciamoci guarire da Gesù, perdonare da Gesù, e andiamo dietro Gesù lodando Dio. Così sia!
[Papa Francesco, Udienza Generale 15 giugno 2016]
Cari fratelli e sorelle,
nel Vangelo di questa Domenica (Mc 10, 46-52) leggiamo che, mentre il Signore passa per le vie di Gerico, un cieco di nome Bartimeo si rivolge verso di Lui gridando forte: "Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!". Questa preghiera tocca il cuore di Cristo, che si ferma, lo fa chiamare e lo guarisce. Il momento decisivo è stato l'incontro personale, diretto, tra il Signore e quell'uomo sofferente. Si trovano l'uno di fronte all'altro: Dio con la sua volontà di guarire e l'uomo con il suo desiderio di essere guarito. Due libertà, due volontà convergenti: "Che vuoi che io ti faccia?", gli chiede il Signore. "Che io riabbia la vista!", risponde il cieco. "Va', la tua fede ti ha salvato". Con queste parole si compie il miracolo. Gioia di Dio, gioia dell'uomo. E Bartimeo, venuto alla luce - narra il Vangelo - "prese a seguirlo per la strada": diventa cioè un suo discepolo e sale col Maestro a Gerusalemme, per partecipare con Lui al grande mistero della salvezza. Questo racconto, nell'essenzialità dei suoi passaggi, evoca l'itinerario del catecumeno verso il sacramento del Battesimo, che nella Chiesa antica era chiamato anche "Illuminazione".
La fede è un cammino di illuminazione: parte dall'umiltà di riconoscersi bisognosi di salvezza e giunge all'incontro personale con Cristo, che chiama a seguirlo sulla via dell'amore. Su questo modello sono impostati nella Chiesa gli itinerari di iniziazione cristiana, che preparano ai sacramenti del Battesimo, della Confermazione (o Cresima) e dell'Eucaristia. Nei luoghi di antica evangelizzazione, dove è diffuso il Battesimo dei bambini, vengono proposte ai giovani e agli adulti esperienze di catechesi e di spiritualità che permettono di percorrere un cammino di riscoperta della fede in modo maturo e consapevole, per assumere poi un coerente impegno di testimonianza. Quanto è importante il lavoro che i Pastori e i catechisti compiono in questo campo! La riscoperta del valore del proprio Battesimo è alla base dell'impegno missionario di ogni cristiano, perché vediamo nel Vangelo che chi si lascia affascinare da Cristo non può fare a meno di testimoniare la gioia di seguire le sue orme. In questo mese di ottobre, particolarmente dedicato alla missione, comprendiamo ancor più che, proprio in forza del Battesimo, possediamo una connaturale vocazione missionaria.
Invochiamo l'intercessione della Vergine Maria, affinché si moltiplichino i missionari del Vangelo. Intimamente unito al Signore, possa ogni battezzato sentire di essere chiamato ad annunciare a tutti l'amore di Dio, con la testimonianza della propria vita.
[Papa Benedetto, Angelus 29 ottobre 2006]
3. Ciò che fa più impressione oggi, nella società moderna in cui viviamo, è forse la perdita in molti del vero senso della vita. In un vasto settore dell’odierna società si è oscurato o talvolta è stato smarrito il significato trascendente dell’esistenza. E, non conoscendo più perché e per chi si vive, è facile essere travolti dall’impeto delle passioni, dall’egoismo, dalla crudeltà, dall’anarchia dei sensi, dalla distruzione della droga, dalla disperazione.
Dobbiamo rivolgere lo sguardo a Cristo: solo Lui “è la luce che splende nelle tenebre; Egli è la luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1,5.9).
Gesù è il Verbo incarnato, il Rivelatore e il Redentore, che annunzia con parola assoluta e definitiva, perché divina, il senso autentico della vita, dono prezioso dato da Dio, che è l’Amore misterioso e misericordioso, che dobbiamo accettare e far fruttificare, in funzione e nella prospettiva della felicità eterna. “lo sono la luce del mondo – disse Gesù – chi segue me, non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12). È di questa luce fondamentale ed essenziale che hanno vivo bisogno gli uomini, sempre, ma particolarmente oggi. Come il cieco di Gerico, ricordato dal Vangelo, l’uomo moderno deve rivolgersi a Gesù, con totale fiducia. “Che cosa vuoi che io faccia per te?” – gli domandò il Divino Maestro; il cieco rispose: “Signore, che io possa di nuovo vedere!”. E Gesù lo guarì, dicendogli: “Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato!” (cf. Lc 18,35-43).
Solo Cristo può illuminarci in modo pieno sul problema della vita e della storia: siatene sempre convinti e testimoniate con coerenza e coraggio questa vostra fede!
[Papa Giovanni Paolo II, Todi 22 novembre 1981]
Oggi iniziamo un nuovo ciclo di catechesi sul tema della preghiera. La preghiera è il respiro della fede, è la sua espressione più propria. Come un grido che esce dal cuore di chi crede e si affida a Dio.
Pensiamo alla storia di Bartimeo, un personaggio del Vangelo (cfr Mc 10,46-52 e par.) e, vi confesso, per me il più simpatico di tutti. Era cieco, stava seduto a mendicare sul bordo della strada alla periferia della sua città, Gerico. Non è un personaggio anonimo, ha un volto, un nome: Bartimeo, cioè “figlio di Timeo”. Un giorno sente dire che Gesù sarebbe passato di là. In effetti, Gerico era un crocevia di gente, continuamente attraversata da pellegrini e mercanti. Allora Bartimeo si apposta: avrebbe fatto tutto il possibile per incontrare Gesù. Tanta gente faceva lo stesso: ricordiamo Zaccheo, che salì sull’albero. Tanti volevano vedere Gesù, anche lui.
Così quest’uomo entra nei Vangeli come una voce che grida a squarciagola. Lui non ci vede; non sa se Gesù sia vicino o lontano, ma lo sente, lo capisce dalla folla, che a un certo punto aumenta e si avvicina… Ma lui è completamente solo, e nessuno se ne preoccupa. E Bartimeo cosa fa? Grida. E grida, e continua a gridare. Usa l’unica arma in suo possesso: la voce. Comincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (v. 47). E così continua, gridando.
Le sue urla ripetute danno fastidio, non sembrano educate, e molti lo rimproverano, gli dicono di tacere: “Ma sii educato, non fare così!”. Ma Bartimeo non tace, anzi, grida ancora più forte: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (v. 47). Quella testardaggine tanto bella di coloro che cercano una grazia e bussano, bussano alla porta del cuore di Dio. Lui grida, bussa. Quella espressione: “Figlio di Davide”, è molto importante; vuol dire “il Messia” – confessa il Messia –, è una professione di fede che esce dalla bocca di quell’uomo disprezzato da tutti.
E Gesù ascolta il suo grido. La preghiera di Bartimeo tocca il suo cuore, il cuore di Dio, e si aprono per lui le porte della salvezza. Gesù lo fa chiamare. Lui balza in piedi e quelli che prima gli dicevano di tacere, ora lo conducono dal Maestro. Gesù gli parla, gli chiede di esprimere il suo desiderio – questo è importante – e allora il grido diventa domanda: “Che io veda di nuovo, Signore!” (cfr v. 51).
Gesù gli dice: «Va’, la tua fede ti ha salvato» (v. 52). Riconosce a quell’uomo povero, inerme, disprezzato, tutta la potenza della sua fede, che attira la misericordia e la potenza di Dio. La fede è avere due mani alzate, una voce che grida per implorare il dono della salvezza. Il Catechismo afferma che «l’umiltà è il fondamento della preghiera» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2559). La preghiera nasce dalla terra, dall’humus – da cui deriva “umile”, “umiltà” –; viene dal nostro stato di precarietà, dalla nostra continua sete di Dio (cfr ibid., 2560-2561).
La fede, lo abbiamo visto in Bartimeo, è grido; la non-fede è soffocare quel grido. Quell’atteggiamento che aveva la gente, nel farlo tacere: non era gente di fede, lui invece sì. Soffocare quel grido è una specie di “omertà”. La fede è protesta contro una condizione penosa di cui non capiamo il motivo; la non-fede è limitarsi a subire una situazione a cui ci siamo adattati. La fede è speranza di essere salvati; la non-fede è abituarsi al male che ci opprime e continuare così.
Cari fratelli e sorelle, cominciamo questa serie di catechesi con il grido di Bartimeo, perché forse in una figura come la sua c’è già scritto tutto. Bartimeo è un uomo perseverante. Intorno a lui c’era gente che spiegava che implorare era inutile, che era un vociare senza risposta, che era chiasso che disturbava e basta, che per favore smettesse di gridare: ma lui non è rimasto in silenzio. E alla fine ha ottenuto quello che voleva.
Più forte di qualsiasi argomentazione contraria, nel cuore dell’uomo c’è una voce che invoca. Tutti abbiamo questa voce, dentro. Una voce che esce spontanea, senza che nessuno la comandi, una voce che s’interroga sul senso del nostro cammino quaggiù, soprattutto quando ci troviamo nel buio: “Gesù, abbi pietà di me! Gesù, abbi pietà di me!”. Bella preghiera, questa.
Ma forse, queste parole, non sono scolpite nell’intero creato? Tutto invoca e supplica perché il mistero della misericordia trovi il suo compimento definitivo. Non pregano solo i cristiani: essi condividono il grido della preghiera con tutti gli uomini e le donne. Ma l’orizzonte può essere ancora allargato: Paolo afferma che l’intera creazione «geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22). Gli artisti si fanno spesso interpreti di questo grido silenzioso del creato, che preme in ogni creatura ed emerge soprattutto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è un “mendicante di Dio” (cfr CCC, 2559). Bella definizione dell’uomo: “mendicante di Dio”. Grazie.
[Papa Francesco, Udienza Generale 6 maggio 2020]
Conversione e Tempi
(Lc 13,1-9)
Conversione si riferisce a un processo che scuote l’anima, a motivo di un Incontro. Un ‘ritrovarsi’ che apre alla conoscenza di noi stessi.
Un dialogo che proietta mente e azioni sulla realtà e sul Mistero, i quali rimandano incessantemente a un nuovo Esodo.
Ancora oggi, la controparte paludosa della vita di Fede s’incunea come un tarlo costante, ed è simboleggiata da un confronto arido, espresso nell’assenza di frutti sopra un albero inutilmente frondoso.
La ‘vigna’ è icona del popolo eletto e il ‘fico’ della sua prosperità centrale. Qui evoca il Tempio, in particolare il suo nucleo liturgico: il Santuario.
Il culto che si svolgeva nella zona sacra della vasta area del monte Sion doveva esprimere la lode d’un popolo in continuo ascolto, chiamato a una vita di condivisione e fraternità.
I frutti deliziosi che il Signore attendeva avrebbero dovuto essere dolci e teneri (come fichi), viceversa risultavano duri e immangiabili. Il suo Appello era stato lasciato cadere nel vuoto.
Le tante e vistose “foglie” del rito devotissimo non celebravano una vita di accoglienza e comprensione, bensì tendevano proprio a nascondere le bacche amare d’uno stile in nulla conforme al progetto divino.
Ci chiediamo: quanto tempo abbiamo a disposizione per emendarci e non regredire, vivendo appieno il presente?
L’azione di governo del Padre è punitiva o solo responsabile e vivificante?
Nella parabola del fico sterile apprendiamo: unica condizione che può mutare una storia d’infertilità e squallore - nonché il pericolo del formalismo - è il tempo ancora necessario per assimilare la Parola.
Processo in avanti, legato all’imprevedibile modalità in cui il Richiamo vitale del Seme e il particolare protendersi delle sue radici s’intreccia alla terra dell’anima, quindi trabocca in relazione agli accadimenti.
Appello che non cessa, nel cui riverbero si elabora e rafforza il cambiamento di mentalità che introduce nel reciproco ospitale delle convivialità e nel disegno di liberazione per un mondo alternativo: il Regno di Dio.
Dopo i tre anni di vita pubblica del Figlio, c’è un “quarto anno” che si estende alla storia della Chiesa (vv.7-9).
Essa non vuole celare il rigoglio della vita ma farla sbocciare, e senza posa richiama una crescita fiorente; per un sentimento di Famiglia dal frutto dolcissimo, che non s’accontenta di pratiche esteriori.
Come sottolinea l’enciclica Fratelli Tutti, il Signore sogna ancora un progetto «con grandi obiettivi, per lo sviluppo di tutta l'umanità (n.16)».
A tale scopo «abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai poteri economici che hanno bisogno di entrate veloci» (n.17).
La logica precipitosa - come pure la fretta epidermica della società degli eventi - crea sperequazioni, non solo in campo mercantile.
Insomma, tutto diventa opportunità di fioritura e terreno d’azione dell’Eterno, storia davvero nostra: magistero di teologia autentica e umanizzazione - se la vicenda del popolo si dispiega ‘in cammino’.
Il Dio della religione ha le sue pretese e non appare longanime. Il Padre di Gesù sa attendere. Non s’irrita, non cede alla frenesia del colpo su colpo. Non si disinteressa, però non si lagna; né si vendica.
Propone soluzioni.
In tal modo non provoca guai irreparabili - anzi ci sbalordirà. Per una nuova Primavera, in cui il fico dia il suo irripetibile frutto zuccherino, succoso e altamente energetico - prima delle molte foglie.
Affinché la ‘fraternità’ non permanga «tutt’al più come un’espressione romantica» (FT, 109).
[Sabato 29.a sett. T.O. 26 ottobre 2024]
Conversione e Tempi
(Lc 13,1-9)
Conversione si riferisce a un processo che scuote l’anima, a motivo di un Incontro. Un ritrovarsi che apre alla conoscenza di noi stessi.
Un dialogo che proietta mente e azioni sulla realtà e sul Mistero, i quali rimandano incessantemente a un nuovo Esodo.
Ancora oggi, la controparte paludosa della vita di Fede s’incunea come un tarlo costante, ed è simboleggiata da un confronto arido, espresso nell’assenza di frutti sopra un albero inutilmente frondoso.
La vigna è icona del popolo eletto e il fico della sua prosperità centrale. Qui evoca il Tempio, in particolare il suo nucleo liturgico: il Santuario.
Secondo pregiudizi religiosi - di ceto, condizioni di purità, ministero, scremature progressive - all’interno di perimetri rigorosamente delimitati si rendeva omaggio al Dio d’Israele.
Il culto che si svolgeva nella zona sacra della vasta area del monte Sion doveva esprimere la lode d’un popolo in continuo ascolto, chiamato a una vita di condivisione e fraternità.
I frutti deliziosi che il Signore attendeva avrebbero dovuto essere dolci e teneri (come fichi), viceversa risultavano duri e immangiabili. Il suo Appello era stato lasciato cadere nel vuoto.
Le tante e vistose “foglie” del rito devotissimo non celebravano una vita di accoglienza e comprensione, bensì tendevano proprio a nascondere le bacche amare d’uno stile in nulla conforme al progetto divino.
Ci chiediamo: quanto tempo abbiamo a disposizione per emendarci e non regredire, vivendo appieno il presente? L’azione di governo del Padre è punitiva o solo responsabile e vivificante?
Nella parabola del fico sterile apprendiamo: unica condizione che può mutare una storia d’infertilità e squallore - nonché il pericolo del formalismo - è il tempo ancora necessario per assimilare la Parola.
Processo in avanti, legato all’imprevedibile modalità in cui il Richiamo vitale del Seme e il particolare protendersi delle sue radici s’intreccia alla terra dell’anima, quindi trabocca in relazione agli accadimenti.
Appello che non cessa; nel cui riverbero si elabora e rafforza il cambiamento di mentalità che introduce nel reciproco ospitale delle convivialità e nel disegno di liberazione per un mondo alternativo: il Regno di Dio.
Ormai in mano a una casta inutile e corrotta che aveva lasciato spegnere il rapporto vitale, i fili dell’ignorato disegno di Salvezza e Giustizia (nel senso anzitutto di autentiche posizioni Dio-uomo e rapporti giusti) vengono riannodati dall’intensità di relazione Padre-Figlio.
Dopo i tre anni di vita pubblica, c’è un “quarto anno” che si estende alla storia della Chiesa (vv.7-9).
Essa non vuole celare il rigoglio della vita ma farla sbocciare, e senza posa richiama una crescita fiorente; per un sentimento di Famiglia dal frutto dolcissimo, che non s’accontenta di pratiche esteriori.
Onde superare condizionamenti, sospetti, blocchi, insuccessi, c’è bisogno di respiro: si tratta di calcare una lunga via di esplorazioni.
Non esistono scorciatoie, né utili conversioni a U secondo il codice di autorità ufficiali, perennemente impegnate ad attenuare e omologare i picchi carismatici.
Gesù aveva infatti invitato le folle ad avere capacità di pensiero e giudizio autonomi (Lc 12,57: «Ora, perché non giudicate anche da voi stessi quel ch’è giusto?»).
Guai a farsi assoggettare, accettando l’omertà per calcolo o paura. Ne va della nostra dignità e della ricchezza missionaria cui Dio chiama.
Per questo motivo le autorità consideravano Gesù alla stregua d’un galileo: sovversivo e rivoltoso.
Egli subisce un’altra intimidazione da parte di mandatari dei capi religiosi (Lc 13,1). Sembra di assistere a una sceneggiata di prevaricazioni che forse conosciamo.
Come sottolinea l’enciclica Fratelli Tutti, il Signore sogna ancora un progetto «con grandi obiettivi, per lo sviluppo di tutta l'umanità (n.16)».
A tale scopo «abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai poteri economici che hanno bisogno di entrate veloci» (n.17).
La logica precipitosa - come pure la fretta epidermica della società degli eventi - crea sperequazioni, non solo in campo mercantile.
Insomma, tutto diventa opportunità di fioritura e terreno d’azione dell’Eterno, storia davvero nostra: magistero di teologia autentica e umanizzazione - se la vicenda del popolo si dispiega in cammino.
Nei processi che innescano una storia di redenzione secondo logica evangelica, la memoria del passato non estrania ma interpella: non fornisce banalmente inerti criteri indefettibili per giudicare il presente e ottenere ripercussioni o capacità di pronostico per il futuro.
Il credo dell’idealismo filosofico-religioso può essere un bozzolo in cui cullarsi, ma dalla Fede attenta e propulsiva scaturisce una vita d’amore anche imprevedibile, capace di recuperi inspiegabili: esige giudizio personale e nuova grinta in situazione.
Dannoso rispolverare e riadattare cose antiche o sogni unilaterali.
È necessario avere occhi aperti e insieme dare tempo, affinché superiamo i fatalismi del monoteismo arcaico, i sentimenti che confondono l’emotivismo intimista con la passione per le cose di Dio, i fondamentalismi riduzionisti e schematici, le illusioni di essere già a posto sul sentiero della conversione.
Il Dio della religione antica ha le sue pretese e non appare longanime. Il Padre di Gesù sa attendere. Tollera sia la cocciutaggine che le incaute accelerazioni.
Non s’irrita, non cede alla frenesia del colpo su colpo. Non si disinteressa, però non si lagna; né si vendica.
Propone soluzioni.
Ribadisce occasioni che sciolgano la dura tempra dei nostri idoli - per una evoluzione verso un rinnovato capolavoro di celestiale Pazienza.
Ha lo stile della mamma o comunque del genitore - parente stretto - che a furia di carezze e baci convince il ragazzino capriccioso affinché si nutra di quel cibo che lo farà crescere (con calma) e così superarsi.
In tal modo non provoca guai irreparabili - anzi ci sbalordirà.
Per una nuova Primavera, in cui il fico dia il suo irripetibile frutto zuccherino [mai già asciutto o essiccato] succoso e altamente energetico - prima delle molte foglie.
Affinché la fraternità non permanga «tutt’al più come un’espressione romantica» (FT, 109).
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come tuteli in Cristo il vissuto comunitario e le tue trasposizioni di Fede? Qual è il punto di omologazione nelle soddisfazioni, e dove collochi la tua Preziosità?
“Convertitevi, dice il Signore, il regno dei cieli è vicino” abbiamo proclamato prima del Vangelo […] che ci presenta il tema fondamentale di questo ‘tempo forte’ dell'anno liturgico: l'invito alla conversione della nostra vita ed a compiere degne opere di penitenza. Gesù, come abbiamo ascoltato, evoca due episodi di cronaca: una repressione brutale della polizia romana all’interno del tempio (cfr Lc 13,1) e la tragedia dei diciotto morti per il crollo della torre di Siloe (v. 4). La gente interpreta questi fatti come una punizione divina per i peccati di quelle vittime, e, ritenendosi giusta, si crede al riparo da tali incidenti, pensando di non avere nulla da convertire nella propria vita. Ma Gesù denuncia questo atteggiamento come un’illusione: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (vv. 2-3). Ed invita a riflettere su quei fatti, per un maggiore impegno nel cammino di conversione, perché è proprio il chiudersi al Signore, il non percorrere la strada della conversione di se stessi, che porta alla morte, quella dell’anima. In Quaresima, ciascuno di noi è invitato da Dio a dare una svolta alla propria esistenza pensando e vivendo secondo il Vangelo, correggendo qualcosa nel proprio modo di pregare, di agire, di lavorare e nelle relazioni con gli altri. Gesù ci rivolge questo appello non con una severità fine a se stessa, ma proprio perché è preoccupato del nostro bene, della nostra felicità, della nostra salvezza. Da parte nostra, dobbiamo rispondergli con un sincero sforzo interiore, chiedendogli di farci capire in quali punti in particolare dobbiamo convertirci.
La conclusione del brano evangelico riprende la prospettiva della misericordia, mostrando la necessità e l’urgenza del ritorno a Dio, di rinnovare la vita secondo Dio. Riferendosi ad un uso del suo tempo, Gesù presenta la parabola di un fico piantato in una vigna; questo fico, però, risulta sterile, non dà frutti (cfr Lc 13,6-9). Il dialogo che si sviluppa tra il padrone e il vignaiolo, manifesta, da una parte, la misericordia di Dio, che ha pazienza e lascia all’uomo, a tutti noi, un tempo per la conversione; e, dall’altra, la necessità di avviare subito il cambiamento interiore ed esteriore della vita per non perdere le occasioni che la misericordia di Dio ci offre per superare la nostra pigrizia spirituale e corrispondere all’amore di Dio con il nostro amore filiale.
[Papa Benedetto, omelia parrocchia s. Giovanni della Croce, 7 marzo 2010]
3. Ho parlato di fruttificazione, e mi soccorre anche in questo il Vangelo, allorché propone - lettura che abbiamo incontrato di recente nella sacra liturgia - la similitudine del fico sterile, che è minacciato di sradicamento (Lc 13,6-9). L’uomo deve fruttificare nel tempo, cioè durante la vita terrena, e non soltanto per sé, ma anche per gli altri, per la società di cui è parte integrante. Tuttavia questo suo operare nel tempo, proprio perché egli è “contenuto” nel tempo, non deve fargli né dimenticare né trascurare l’altra essenziale sua dimensione, di essere che è orientato verso l’eternità: l’uomo, dunque, deve fruttificare simultaneamente anche per l’eternità.
E se togliamo questa prospettiva all’uomo, egli rimarrà un fico sterile.
Da una parte, egli deve “riempire di sé” il tempo in maniera creativa, perché la dimensione ultraterrena non lo dispensa di certo dal dovere di operare responsabilmente ed originalmente, partecipando con efficacia ed in collaborazione con tutti gli altri uomini all’edificazione della società secondo le concrete esigenze del momento storico, in cui si trova a vivere. È, questo, il senso cristiano della “storicità” dell’uomo. D’altra parte, questo impegno di fede immerge il giovane in una contemporaneità, che porta in se stessa, in un certo senso, una visione contraria al cristianesimo.
Questa anti-visione presenta queste caratteristiche, che ricordo in modo sia pure sommario.
All’uomo d’oggi manca spesso il senso del trascendente, delle realtà soprannaturali, di qualche cosa che lo supera. L’uomo non può vivere senza qualche cosa che vada più in là, che lo superi. L’uomo vive se stesso se è consapevole di questo, se deve sempre superare se stesso, trascendere se stesso. Questa trascendenza è inscritta profondamente nella costituzione umana della persona.
Ecco, nella anti-visione, come ho detto, contemporanea, il significato dell’esistenza dell’uomo viene perciò ad essere “determinato” nell’ambito di una concezione materialistica in ordine ai vari problemi, quali ad esempio quelli della giustizia, del lavoro ecc...: di qui scaturiscono quei contrasti multiformi tra le categorie sociali o tra le entità nazionali, in cui si manifestano i vari egoismi collettivi. È necessario, invece, superare tale concezione chiusa e, in fondo, alienante, contrapponendo ad essa quel più vasto orizzonte che già la retta ragione ed ancor più la fede cristiana ci fanno intravvedere. Lì, infatti, i problemi trovano una soluzione più piena; lì la giustizia assume completezza ed attuazione in tutti i suoi aspetti; lì i rapporti umani, esclusa ogni forma di egoismo, vengono a corrispondere alla dignità dell’uomo, come persona sulla quale risplende il volto di Dio.
[Papa Giovanni Paolo II, ai giovani di Torino, 13 aprile 1980]
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Today, as yesterday, the Church needs you and turns to you. The Church tells you with our voice: don’t let such a fruitful alliance break! Do not refuse to put your talents at the service of divine truth! Do not close your spirit to the breath of the Holy Spirit! (Pope Paul VI)
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! (Papa Paolo VI)
Sometimes we try to correct or convert a sinner by scolding him, by pointing out his mistakes and wrongful behaviour. Jesus’ attitude toward Zacchaeus shows us another way: that of showing those who err their value, the value that God continues to see in spite of everything (Pope Francis)
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che continua a vedere malgrado tutto (Papa Francesco)
Deus dilexit mundum! God observes the depths of the human heart, which, even under the surface of sin and disorder, still possesses a wonderful richness of love; Jesus with his gaze draws it out, makes it overflow from the oppressed soul. To Jesus, therefore, nothing escapes of what is in men, of their total reality, in which good and evil are (Pope Paul VI)
Deus dilexit mundum! Iddio osserva le profondità del cuore umano, che, anche sotto la superficie del peccato e del disordine, possiede ancora una ricchezza meravigliosa di amore; Gesù col suo sguardo la trae fuori, la fa straripare dall’anima oppressa. A Gesù, dunque, nulla sfugge di quanto è negli uomini, della loro totale realtà, in cui sono il bene e il male (Papa Paolo VI)
People dragged by chaotic thrusts can also be wrong, but the man of Faith perceives external turmoil as opportunities
Un popolo trascinato da spinte caotiche può anche sbagliare, ma l’uomo di Fede percepisce gli scompigli esterni quali opportunità
O Lord, let my faith be full, without reservations, and let penetrate into my thought, in my way of judging divine things and human things (Pope Paul VI)
O Signore, fa’ che la mia fede sia piena, senza riserve, e che essa penetri nel mio pensiero, nel mio modo di giudicare le cose divine e le cose umane (Papa Paolo VI)
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
don Giuseppe Nespeca
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