(Mt 25,31-46)
Il celebre brano del Giudizio presenta il Risorto ‘veniente’ (v.31) come «Figlio dell’uomo» ossia sviluppo autentico e completo del progetto divino sull’umanità: il suo genere di “verdetto” ne consegue.
Dio abbraccia la condizione di limite delle sue creature, quindi il comportamento che realizza la nostra vita non riguarda l’atteggiamento religioso in sé, ma quello che abbiamo avuto verso i nostri simili.
In tutte le credenze antiche l’anima del defunto veniva soppesata su base notarile e giudicata secondo il saldo positivo o negativo.
A parere dei rabbini, la misericordia divina interveniva a favore solo nel momento in cui le opere buone e cattive si bilanciavano.
Gesù non parla d’un tribunale che proclama sentenze negative immutabili sull’intera persona, ma dei suoi tratti umanizzanti.
«Vita dell’Eterno» (v.46 testo greco) allude a un genere di vita non biologico ma relazionale e di completezza di essere, che possiamo già sperimentare.
Si tratta di episodi in cui è affiorato il nostro DNA genuino, l’Oro che ci abita: quando abbiamo saputo corrispondere ai bisogni non di Dio, ma della vita stessa e dei nostri fratelli.
Sono i momenti in cui siamo stati ascoltatori profondi della natura, speranza e vocazione di tutti - sensibili alle necessità altrui. Opportunità che ci hanno consentito di avvicinare la condizione umana a quella celeste.
Comparando le ‘opere’ dichiarate “paradigma” con quelle degli elenchi di altre religioni - persino nell’antico Egitto - notiamo la differenza del v.36: «ero in prigione e siete venuti da me» (vv.39.43).
La differenza è notevole proprio sotto il criterio della Giustizia divina: essa sorvola le considerazioni forensi, perché crea giustizia dove non c’è.
Il Padre pone vita in ogni caso, perché non è buono [come si crede in tutte le persuasioni devote] ma esclusivamente buono.
I ‘giusti’ - poi - neppure si sono accorti di aver fatto chissà cosa: hanno corrisposto spontaneamente alla loro natura di figli (v.39).
Hanno avuto simpatia per la ‘carne’ nella sua realtà - valutandola famigliare. Hanno amato con e come Gesù, in Lui.
Gli altri invece, tutti presi da formalismi che a Dio non interessano, risultano sorpresi del fatto che il Padre non sia tutto lì dove lo avevano immaginato - stretto nelle sentenze della giustizia ordinaria: «Quando ti abbiamo visto [...] in prigione e non ti abbiamo servito?» (v.44).
La vocazione a venire incontro ci porta spontaneamente a trasgredire le divisioni: legaliste, di retribuzione, o pregiudizi e genere di culto.
Questa la Salvezza eminente, di peso - che si annida nell’aspetto diretto e genuino, non tanto nei propositi organizzati; né ha consistenza alcuna su base di opinioni.
Ci realizziamo nel corrispondere alla chiamata istintiva che sorge dalla nostra stessa impronta essenziale (altruista) anche minima, malconsiderata, o eccentrica e malferma - non straordinaria.
Senza condizioni troppo esteriori, essa si riconosce disseminata nell’anima e nella pienezza benefica divinizzante del «Figlio dell’uomo».
Insegnamento ultimo di Gesù: Giudizio insigne, globale e tutto umano; non responso a concetto e rendiconto.
Resta singolare l’identificazione di Gesù coi piccoli: la sua Persona ha un senso centrale, ‘senza distinzione’ fra amici e controlegge.
Qui l’uomo è un Soggetto diverso, ben più ricco - saldo in se stesso, ma che si dilata nel Tu divino e umano, anche indigente.
[Lunedì 1.a sett. Quaresima, 10 marzo 2025]