Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Nell’ascoltare la parola “elemosina”, la vostra sensibilità di giovani amanti della giustizia e desiderosi di un’equa distribuzione della ricchezza potrebbe sentirsi ferita e offesa. Mi sembra di poterlo intuire. D’altra parte, non crediate di essere soli nell’avvertire una simile reazione interiore; essa è in sintonia con l’innata fame e sete di giustizia che ogni uomo reca con sé. Anche i profeti dell’Antico Testamento, quando rivolgono al Popolo d’Israele l’invito alla conversione ed alla vera religione indicano la riparazione delle ingiustizie verso i deboli e gli indifesi, quale via maestra per il ripristino di un genuino rapporto con Dio (cf. Is 58,6-7). Eppure la pratica dell’elemosina viene raccomandata in tutto il testo sacro, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento: dal Pentateuco ai Libri Sapienziali, dal libro degli Atti alle Lettere Apostoliche. Ebbene, attraverso uno studio dell’evoluzione semantica della parola, sulla quale si sono formate incrostazioni meno genuine, noi dobbiamo ritrovare il significato vero dell’elemosina e soprattutto la volontà e la gioia di fare l’elemosina.
Parola greca, elemosina significa etimologicamente compassione e misericordia. Diverse circostanze e influssi di una mentalità riduttiva hanno svisato e sconsacrato in certo modo il suo primigenio significato, riducendolo talvolta a quello di un atto senza spirito e senza amore.
Ma l’elemosina, in se stessa, va intesa essenzialmente come atteggiamento dell’uomo che avverte il bisogno degli altri, che vuol partecipare agli altri il proprio bene. Chi vorrà dire che non ci sarà sempre un altro, che abbia bisogno di aiuto, anzitutto spirituale, di sostegno, di conforto, di fraternità, di amore? Il mondo è sempre troppo povero di amore.
Così definita, l’elemosina è atto di altissimo valore positivo, della cui bontà non è permesso dubitare, e che deve trovare in noi una disponibilità fondamentalmente di cuore e di spirito, senza della quale non esiste vera conversione a Dio.
Anche se non disponiamo di ricchezze e di capacità concrete per sovvenire ai bisogni del prossimo, non possiamo sentirci dispensati dall’aprire il nostro animo alle sue necessità e dall’alleviarle nella misura del possibile. Ricordatevi dell’obolo della vedova, che gettò nel tesoro del tempio solo due spiccioli, ma insieme tutto il suo grande amore: “Essa, infatti, nella sua miseria aveva dato tutto quanto aveva per vivere” (Lc 21,4).
[Papa Giovanni Paolo II, Discorso ai ragazzi 28 marzo 1979]
«Religione dell’apparire» o «strada dell’umiltà»? Nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta martedì 11 ottobre, Papa Francesco ha indicato una scelta decisiva per la vita di ogni cristiano: anche nel «fare il bene», infatti, si può incorrere in un pericoloso fraintendimento, che è quello di mettere avanti noi stessi e non «la redenzione che Gesù ci ha dato». L’obiettivo è quello di affermare «la nostra libertà interiore» mostrandoci al mondo come realmente siamo nel nostro cuore, senza facili o furbesche operazioni di «maquillage» esteriore.
La riflessione del Pontefice è partita proprio dal concetto di libertà. Lo spunto è venuto dalla prima lettura del giorno (Galati, 5, 1-6), nella quale l’apostolo Paolo Invita a «stare saldi e non lasciarsi imporre di nuovo il giogo della schiavitù, cioè di essere liberi: liberi nella religione, liberi nell’adorazione a Dio». Ecco il primo insegnamento: «mai perdere la libertà». Ma quale libertà? «La libertà cristiana — ha spiegato il Papa — soltanto viene dalla grazia di Gesù Cristo, non dalle nostre opere, non dalle nostre cosiddette “giustizie”, ma dalla giustizia che il Signore Gesù Cristo ci ha dato e con la quale ci ha ricreato». Una giustizia, ha aggiunto, «che viene proprio dalla Croce».
Su questo argomento insiste anche il passo del Vangelo proposto dalla liturgia (Luca, 11, 37-41). Qui si legge di Gesù che rimprovera un fariseo, un dottore della legge. Lo rimprovera perché, ha ricordato il Papa, «questo fariseo invita Gesù a pranzo e Gesù non fa le abluzioni, cioè non si lava le mani»: non compie dunque quelle pratiche «che erano abitudini nella legge antica». Di fronte a certe rimostranze, il Signore afferma: «Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto ma il vostro interno è pieno di avidità e di cattiveria». Un concetto, ha fatto notare Francesco, che Gesù «ripete tante volte nel Vangelo» mettendo in guardia certa gente con parole chiare: «Il vostro interno è cattivo, non è giusto, non è libero. Siete schiavi perché non avete accettato la giustizia che viene da Dio». Che è poi «la giustizia che ci ha dato Gesù».
In un altro passo si legge che Gesù, dopo aver esortato alla preghiera, insegna anche come si debba fare: «Nella tua stanza, che nessuno ti veda, così soltanto il tuo Padre ti vede». L’invito, quindi è a «non pregare per apparire», per farsi vedere, come faceva quel fariseo che — narra sempre il Vangelo — davanti all’altare del tempio diceva: «Dio, grazie, Signore, perché non sono peccatore». Quelli che agivano così, ha commentato il Pontefice, erano proprio delle «facce toste» e «non avevano vergogna».
Di contro a certi atteggiamenti, c’è il suggerimento dato da Gesù stesso e che il Papa ha così sintetizzato: «Quando fate del bene e date l’elemosina non fatelo per essere ammirati. La tua mano destra non sappia cosa fa la sinistra. Fatelo di nascosto. E quando fate penitenza, digiuno, per favore guardatevi dalla malinconia, non siate malinconici perché tutto il mondo sappia che state facendo penitenza». In sostanza: quello che importa «è la libertà che ci ha dato la redenzione, che ci ha dato l’amore, che ci ha dato la ri-creazione del Padre». È una libertà interiore, che porta a fare «il bene di nascosto, senza far suonare la tromba»: infatti, «la strada della vera religione è la stessa strada di Gesù: l’umiltà, l’umiliazione». Tanto che Gesù — ha ricordato il Pontefice citando la lettera di Paolo ai Filippesi — «umiliò se stesso, svuotò se stesso». E ha aggiunto: «È l’unica strada per togliere da noi l’egoismo, la cupidigia, la superbia, la vanità, la mondanità».
Di fronte a questo modello troviamo invece l’atteggiamento di coloro che Gesù rimprovera: «gente che segue la religione del maquillage: l’apparenza, l’apparire, fare finta di sembrare, ma dentro...». Per loro, ha sottolineato il Papa, Gesù usa «un’immagine molto forte: “Voi siete sepolcri imbiancati, belli al di fuori ma dentro pieni di ossa di morti e marciume”». Al contrario, «Gesù ci chiama, ci invita a fare il bene con umiltà», perché altrimenti si cade in un fraintendimento pericoloso: «Tu puoi fare tutto il bene che vuoi, ma se non lo fai umilmente, come ci insegna Gesù, questo bene non serve, perché un bene che nasce da te stesso, dalla tua sicurezza, non dalla redenzione che Gesù ci ha dato». Una redenzione che, ha detto Francesco, arriva attraverso «la strada dell’umiltà e delle umiliazioni»: infatti «non si arriva mai all’umiltà senza le umiliazioni». Tant’è che «vediamo Gesù umiliato in croce».
Ecco allora l’esortazione che ha concluso l’omelia: «Chiediamo al Signore di non stancarci di andare su questa strada, di non stancarci di respingere questa religione dell’apparire, del sembrare, del fare finta di...». L’impegno dev’essere invece quello di procedere «silenziosamente, facendo il bene, gratuitamente come noi gratuitamente abbiamo ricevuto la nostra libertà interiore».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 12/10/2016]
Nulla di esteriore, quello di Dio sulla terra
(Lc 11,29-32)
La corrispondenza umana non cresce col moltiplicarsi dei segnali da capogiro. Dio non costringe i poco convinti, né surclassa con prove; così guadagna un patrimonio d’Amore.
La sua Chiesa autentica, senza strepiti né posizioni persuasive - apparentemente insignificante - è raccolta tutta in intima unità col suo Signore.
La regina del mezzogiorno cercava soluzioni accattivanti a curiosità enigmatiche, ma le poteva conoscere dentro la sua anima e nella vita.
Incarnazione: non ci sono altri segni validi che gli accadimenti e le nuove relazioni con se stessi e gli altri - le quali porgono la Persona stessa e inaudita del Risorto, senza involucri.
L’Eterno non è più la pura trascendenza dei giudei, né la vetta della sapienza del mondo antico: il Segno emozionante di Dio è la vicenda di Gesù vivo in noi.
Confidiamo in Cristo, quindi niente droghe spirituali che c’illudano di felicità.
È il senso della nuova Creazione: abbandono allo Spirito, ma tutto concreto (non di maniera) e che procede trascinando la realtà alternativa.
Egli è Segno unico, che scioglie dai molti surrogati della religione delle paure, delle pastoie, dei ruoli consolidati che vorrebbero imprigionarlo in un “alleato” facitore di miracoli seducenti; immediatamente risolutivi.
Alcuni membri di comunità sembrava volessero inquadrare il Messia nello schema delle normali attese sacrali e scenografiche.
Già se la intendevano e si mostravano stufi...
In questi “veterani” di Lc non c’era cifra alcuna di conversione all’idea del Figlio di Dio come Servitore, fiducioso nei sogni senza prestigio.
In loro? Nessuna traccia d’idea nuova - né cambio di passo che segnasse tramonto della società plateale, disumanizzante, cui erano abituati.
C’è sempre chi rimane legato a una ideologia di potere. Quindi non vuole aprire gli occhi se non per farsi catturare i sensi in modo banale.
A costoro il Signore non riserva mai conferme impressionanti - che sarebbero la paradossale convalida dei convincimenti antichi.
Unico ‘segnale’ è la sua Chiesa vivente e lo stesso Risorto che pulsa in tutti coloro che lo prendono sul serio; ad es. nei recuperi, risanamenti e rivalutazioni impossibili.
Ma nessun fulmine a scorciatoia.
Guidati dall’Amico invisibile, saremo una sola umanità inventiva ‘nel Maestro’.
La nostra testimonianza libera e vivificante rialimenterà una esperienza di Fede rigeneratrice, singolarmente incisiva.
Assai più dei miracoli, gli appelli della nostra essenza e della realtà faranno riconoscere il richiamo e l’agire di Dio negli uomini e nella trama della storia.
Il Padre vuole che i suoi figli producano ben altri sbalordimenti e prodigi di bontà divino-umana che visioni e sentimentalismi, o magie.
Unico «segno» di salvezza è Cristo in noi, senza cuciture isteriche; immagine e somiglianza dell’umanità nuova.
Per l’autentica ‘conversione’: potenza nativa - e nulla di esteriore.
[Lunedì 28.a sett. T.O. 14 ottobre 2024]
Nulla di esteriore
(Lc 11,29-32)
Gesù si scontra con l’incredulità. Essa viene da vari accecamenti e partiti presi, o (soprattutto nei discepoli) nasce da disattenzione.
Il Signore si allontana da chi lo mette alla prova e da coloro che rifiutano ciò ch’è donato da Dio, pretendendo di fissare come debba agire.
Il Figlio dell’uomo rispetta ogni persona che lo segue, ma fa comprendere che le decisioni e ancor prima la mancanza di percezione acuta impediscono l’Incontro e la redenzione della vita.
In tale ottica, i credenti non vivono per “dimostrare”. Cristo stesso non ci aspetta in manifestazioni subliminali e mirabolanti, ma sulla sponda d’una spiritualità terrestre.
Il Valore non ha bisogno di applausi (arma a doppio taglio) - maschera della proposta artificiosa, e della vita inautentica.
La corrispondenza umanizzante non cresce col moltiplicarsi dei segnali da capogiro.
Dio non costringe i poco convinti, né surclassa con prove; così guadagna un patrimonio d’Amore nella crescita.
La sua Chiesa autentica, senza strepiti né posizioni persuasive - apparentemente insignificante - è raccolta tutta in intima unità col suo Primogenito: potenza nativa, portentosa e rigeneratrice - solida e reale.
La regina del mezzogiorno cercava soluzioni accattivanti a curiosità enigmatiche, ma le poteva conoscere dentro la sua anima e nella vita.
Incarnazione: non ci sono altri segni validi che gli accadimenti e le nuove relazioni - con se stessi e gli altri - le quali porgono la Persona stessa e inaudita del Risorto [quello senza involucri].
L’Eterno non è più la pura trascendenza dei giudei, né la vetta della sapienza del mondo antico.
Il segno dell’Altissimo è la vicenda di Gesù vivo in noi. Essa apre la strada emozionante che conduce verso il Padre.
Confidiamo in Cristo, quindi niente droghe spirituali che c’illudano di felicità.
È il senso della nuova Creazione: nell’abbandono allo Spirito - ma tutto concreto (non di maniera) e che procede trascinando la realtà alternativa.
La sua Persona è segnale unico, che scioglie dai molti surrogati della religione delle paure, delle pastoie, dei ruoli consolidati.
Tare che vorrebbero imprigionarlo in “alleato” facitore di miracoli seducenti e immediatamente risolutivi.
Qualcuno in semplice purificatore del tempio o in un personaggio da mulino bianco - e così noi, se ci lasciamo manipolare.
Infatti, i leaders religiosi cui Gesù si rivolge sono quelli di ritorno nelle sue comunità!
Si trattava di giudaizzanti i quali volevano inquadrare il Messia nello schema delle normali attese cui erano stati da sempre abituati.
O già se la intendevano e si mostravano stufi...
In questi “veterani” non c’era cifra alcuna di conversione all’idea del Figlio di Dio come Servitore, fiducioso nei sogni senza prestigio.
In loro? Nessuna traccia d’idea nuova - né cambio di passo che segnasse tramonto della società plateale, disumanizzante, e anche sacrale - dell’esterno.
Ai leaders popolari talora sfugge il significato dell’unico Segno vivo: Gesù Alimento della vita.
Per causa loro, non dei lontani, il Signore «geme nello spirito» [cf. Mc 8,12 testo greco] - ancora oggi, rattristato da tanta cecità.
La vita è infatti preclusa a chi non sa spostare lo sguardo.
Subito dopo Lc (12,1) si riferisce infatti al pericolo dell’ideologia dominante che faceva perdere alle stesse guide la percezione obiettiva degli accadimenti.
Un «lievito» grossolano ma radicato nell’esperienza penosa della gente; che stimolava gonfiori persino nei discepoli, contaminandoli.
Ai primi della classe poteva sembrare che Gesù fosse un leader come Mosè, per il fatto che aveva appena alimentato il popolo affamato nel deserto [cf. Mt 15,32-39; Mc 8,1-9].
Ma il rifiuto è netto: in specie Mc (8,12) lo rende acuto sottolineando il senso di sofferenza del Maestro.
Quindi come anche Mt e Lc nell’episodio appunto di Giona - il suo radicale, perentorio diniego.
Per salvare il popolo bisognoso di tutto non c’è altra via che partire da dentro.
Poi procedere verso una pienezza di essere che dilaga, ci approva, e sfociando consente di spezzare la vita in favore dei fratelli.
Non c’è scappatoia.
Unicamente la comunione con la sorgente celata del proprio Sé eminente e il dialogo rispettoso e fattivo con gli altri, salva da una mentalità di gruppo chiuso.
In tal guisa, nessun club è ammesso - che rivendicasse l’esclusiva monopolista su Dio e sulle anime (Lc 9,49-50) con esplicita pretesa a disciplinare le moltitudini.
La comunità del Risorto aborrisce la concezione competitiva della stessa vita religiosa, se riflesso sacrale del mondo imperiale e d’una società che angustia e amareggia l’esistenza dei piccoli.
Sarebbe una vita malata nella ricerca di prestigio purchessia, anche solo apparente.
Viceversa, nelle realtà fraterne «il più piccolo tra tutti, questi è grande» (Lc 9,48).
Quindi bisogna assolutamente evitare che nei fedeli s’insinui una mentalità piramidale e dello scarto.
Spirito di competizione che poi inesorabilmente finisce per cercare rifugio nel miracolismo ipocrita, surrogato della vita di Fede.
Lo stesso fa il Maestro per educare i membri di Chiesa che restano [alcuni tuttora] affetti da senso di superiorità nei confronti delle folle e degli estranei.
Sentimento di popolo eletto e privilegiato (Lc 9,54-55) che si stava infiltrando persino nelle comunità primitive.
A chi non vuole aprire gli occhi se non per farsi catturare i sensi da fenomeni tutti da discernere - perché malgrado il credo ufficiale che professa rimane legato a una ideologia di potere - il Signore non riserva mai conferme impressionanti venute «dal cielo» (Lc 11,16) che ne sarebbero la paradossale convalida.
Unico segnale è e sarà la sua Chiesa vivente: “vittoria” del Risorto, che pulsa in tutti coloro che lo prendono sul serio.
Senza gerarchie fisse - sotto la guida infallibile della Chiamata e della Parola - i figli sanno reinterpretare, anche in modo inedito.
Tale il prodigio, incarnato nelle mille vicende della storia, della vita personale e comunitaria; nei recuperi, risanamenti e rivalutazioni impossibili.
L’autentico Messia non elargisce alcuna esibizione cosmica.
Nessun festival che obblighi gli spettatori a chinare il capo, a cospetto di tanta gloria sconvolgente e degnazione - come se fosse un dittatore celeste.
E nessun fulmine a scorciatoia.
Nel corso dei secoli le Chiese sono cadute spesso in questa tentazione “apologetica”, tutta interna alle devozioni dall’impulso arido: cercare segni meravigliosi e sbandierarli per mettere a tacere gli avversari.
Stratagemmi per un banale tentativo di chiudere la bocca a coloro che chiedono non esperienze di parapsicologia, bensì testimonianze poco avvizzite e senza trucco o escamotage: di concreta disalienazione.
Niente male, questa nostra attività di liberazione in favore degli ultimi, e che tiene duro; non avvinghiata all’idea d’un arruffapopolo dagli aspetti trionfalistici o consolatori.
Preferiamo l’onda del Mistero.
Aneliamo essere guidati da una energia sconosciuta, che ha in serbo un obbiettivo non artificioso - condotti dall’Amico eminente ma intimo e nascosto. Esclusivo in noi.
Saremo una sola umanità nel Maestro, sulla Via giusta e che ci appartiene. Anche percorrendo sentieri interrotti e incompleti, persino di smarrimento.
A commento del Tao Tê Ching (i) il maestro Ho-shang Kung scrive:
«L’eterno Nome vuol essere come l’infante che ancora non ha parlato, come il pulcino che ancora non s’è sgusciato.
La perla luminosa sta dentro l’ostrica, la bella gemma sta in mezzo alla roccia: per quanto all’interno esso risplenda, all’esterno esso è stolto e insipiente».
Tutto ciò è forse valutato “incoscienza” e “inconcludenza”... ma porta ciò che siamo - esprimendo un altro modo di vedere il mondo.
In noi stessi e dentro il Richiamo dei Vangeli abbiamo una potenza fresca, che approva il percorso differente dall’immediatamente normale e dal vistoso lampante.
Un Appello che è incanto, delizia e splendore, perché ci attiva rimettendo in discussione.
Verbo che non ragiona secondo gli schemi.
Istanza accorata, che non si fa impressionare dalle cose eccezionali, dalle recite che soffocano l’anima in ricerca di senso e autenticità.
Genuina Meraviglia, impulso indomabile annidato nella dimensione di pienezza umana, e che non si arrende: vuole esprimersi nella sua trasparenza e farsi realtà.
Una sorta d’Infante intimo: si muove in modo giudicato “astruso”, ma rimette le cose a posto, dentro e fuori.
La testimonianza libera e vivificante, attenta e sempre personalmente geniale, sarà innata e inedita, graffiante, inventiva senz’accorgimenti, imprevedibile e affatto conformista.
Essa farà scaturire e incessantemente rialimenterà una esperienza di Fede convinta, singolare, incisiva - malgrado possa apparire perdente e non di successo, poco onorevole e insensazionale.
Assai più dei miracoli, le suppliche della nostra essenza e della realtà faranno riconoscere il richiamo e l’agire di Dio negli uomini e nella trama della storia.
Inviti che possono germinare altri sbalordimenti e prodigi di bontà divino-umana, che visioni parossistiche condite di nevrosi e sentimentalismi vuoti o magie.
Unico segno di salvezza è Cristo in noi - senza cuciture, né grandi gesti isterici.
Persona immagine e somiglianza dell’umanità nuova; manifestazione del potere di Dio sulla terra.
Per l’autentica conversione: nulla di esteriore.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Di che genere è la tua ricerca di prove?
In cosa si discosta il tuo Segno che fa credere dagli espedienti, da atti di forza, o da quello che altri vorrebbero che diffondessi?
2) Il libro di Giona ci annuncia l’avvenimento di Gesù Cristo – Giona è una prefigurazione della venuta di Gesù. Il Signore stesso ci dice questo nel Vangelo del tutto chiaramente.
Richiesto dai giudei di dar loro un segno che lo riveli apertamente come il Messia, risponde, secondo Matteo: "Nessun segno sarà dato a questa generazione se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra" (Mt12,39s).
La versione di Luca delle parole di Gesù è più semplice: "Questa generazione [...] cerca un segno ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona. Poiché come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione" (Lc 11,29s). Vediamo due elementi in entrambi i testi: lo stesso Figlio dell’uomo, Cristo, l’inviato di Dio, è il segno. Il mistero pasquale indica Gesù come il Figlio dell’uomo, egli è il segno in e attraverso il mistero pasquale.
Nel racconto veterotestamentario proprio questo mistero di Gesù traspare del tutto chiaramente.
Nel primo capitolo del libro di Giona si parla di una triplice discesa del profeta: egli scende al porto di Giaffa; scende nella nave; e nella nave egli si mette nel luogo più riposto. Nel suo caso, però, questa triplice discesa è una tentata fuga davanti a Dio. Gesù è colui che scende per amore, non per fuggire, ma per giungere nella Ninive del mondo: scende dalla sua divinità nella povertà della carne, dell’essere creatura con tutte le sue miserie e sofferenze; scende nella semplicità del figlio del carpentiere, e scende nella notte della croce, infine persino nella notte dello Sheòl, il mondo dei morti. Così facendo egli ci precede sulla strada della discesa, lontano dalla nostra falsa gloria da re; la via della penitenza, che è via verso la nostra stessa verità: via della conversione, via che ci allontana dall’orgoglio di Adamo, dal volere essere Dio, verso l’umiltà di Gesù che è Dio e per noi si spoglia della sua gloria (Fil 2,1-10). Come Giona, Gesú dorme nella barca mentre la tempesta infuria. In un certo senso nell’esperienza della croce egli si lascia gettare in mare e così placa la tempesta. I rabbini hanno interpretato la parola di Giona "Gettatemi in mare" come offerta di sé del profeta che voleva con questo salvare Israele: egli aveva timore davanti alla conversione dei pagani e al rifiuto della fede da parte di Israele, e per questo – così dicono – voleva farsi gettare in mare. Il profeta salva in quanto egli si mette al posto degli altri. Il sacrificio salva. Questa esegesi rabbinica è diventata verità in Gesù.
[Papa Benedetto card. Ratzinger, Lectio in s. Maria in Traspontina, 24 gennaio 2003; in “30Giorni” febbraio 2003]
4. In effetti Gesù invita al discernimento in rapporto alle parole ed opere, che testimoniano l'imminente avvento del Regno del Padre. Anzi, Egli indirizza e concentra tutti i segni nell'enigmatico "segno di Giona". E con ciò rovescia la logica mondana tesa a cercare segni che confermino il desiderio di autoaffermazione e di potenza dell'uomo. Come sottolinea l'apostolo Paolo, "mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani" (1 Cor 1,22-23).
Come primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), Cristo per primo ha vinto in se stesso la "tentazione" diabolica di servirsi di mezzi mondani per realizzare la venuta del Regno di Dio. Ciò è avvenuto dal momento delle prove messianiche nel deserto alla sarcastica sfida rivoltagli mentre era inchiodato alla croce: "Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!" (Mt 27,40). In Gesù crocifisso avviene come una trasformazione e concentrazione dei segni: è Lui stesso il "segno di Dio", soprattutto nel mistero della sua morte e resurrezione. Per discernere i segni della sua presenza nella storia, occorre liberarsi d'ogni mondana pretesa ed accogliere lo Spirito che "scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio" (1 Cor 2,10).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 23 settembre 1998]
Ecco la sindrome di Giona, che «colpisce quelli che non hanno lo zelo per la conversione della gente, cercano una santità — mi permetto la parola — una santità di tintoria, cioè tutta bella, tutta ben fatta ma senza lo zelo che ci porta a predicare il Signore». Il Papa ha ricordato che il Signore «davanti a questa generazione, malata della sindrome di Giona, promette il segno di Giona». E ha aggiunto: «Nell’altra versione, quella di Matteo, si dice: ma Giona è stato nella balena tre notti e tre giorni... Il riferimento è a Gesù nel sepolcro, alla sua morte e alla sua risurrezione. E questo è il segno che Gesù promette: contro l’ipocrisia, contro questo atteggiamento di religiosità perfetta, contro questo atteggiamento di un gruppo di farisei».
Per rendere più chiaro il concetto il vescovo di Roma si è riferito a un’altra parabola del Vangelo «che rappresenta bene quello che Gesù vuole dire. È la parabola del fariseo e del pubblicano che pregano nel tempio (Luca 14, 10-14). Il fariseo è talmente sicuro davanti all’altare che dice: ti ringrazio Dio che non sono come tutti questi di Ninive e neppure come quello che è là! E quello che era là era il pubblicano, che diceva soltanto: Signore abbi pietà di me che sono peccatore».
Il segno che Gesù promette «è il suo perdono — ha precisato Papa Francesco — tramite la sua morte e la sua risurrezione. Il segno che Gesù promette è la sua misericordia, quella che già chiedeva Dio da tempo: misericordia voglio e non sacrifici». Dunque «il vero segno di Giona è quello che ci dà la fiducia di essere salvati dal sangue di Cristo. Ci sono tanti cristiani che pensano di essere salvati solo per quello che fanno, per le loro opere. Le opere sono necessarie ma sono una conseguenza, una risposta a quell’amore misericordioso che ci salva». Le opere da sole, senza questo amore misericordioso, non sono sufficienti.
Dunque «la sindrome di Giona colpisce quelli che hanno fiducia solo nella loro giustizia personale, nelle loro opere». E quando Gesù dice «questa generazione malvagia», si riferisce «a tutti quelli che hanno in sé la sindrome di Giona». Ma c’è di più: «La sindrome di Giona — ha affermato il Papa — ci porta all’ipocrisia, a quella sufficienza che crediamo di raggiungere perché siamo cristiani puliti, perfetti, perché compiamo queste opere osserviamo i comandamenti, tutto. Una grossa malattia, la sindrome di Giona!». Mentre «il segno di Giona» è «la misericordia di Dio in Gesù Cristo morto e risorto per noi, per la nostra salvezza».
«Ci sono due parole nella prima lettura — ha aggiunto — che si collegano con questo. Paolo dice di se stesso che è apostolo, non perché ha studiato, ma è apostolo per chiamata. E ai cristiani dice: siete voi chiamati da Gesù Cristo. Il segno di Giona ci chiama». La liturgia odierna, ha concluso il Pontefice, ci aiuti a capire e a fare una scelta: «Vogliamo seguire la sindrome di Giona o il segno di Giona?».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 15.10.13]
(Mc 10,17-30)
Ereditare la Vita dell’Eterno
Per realizzarci non è sufficiente accentuare o perfezionare, bisogna fare un Balzo; non basta un passetto in più.
Si parte dalla percezione d’una ferita interiore che smuove (v.17) alla ricerca di quel Bene che ‘unifica’ e dà senso alla vita.
Gesù fa riflettere su ciò che è da considerare «Insigne» [così il testo greco: vv.17-18].
Non è un magistero per i lontani, bensì per noi: «Uno ti manca!» [v.21] - come se volesse sottolineare: «l’Uno, il Tutto ti manca: non hai quasi niente!».
La vita “normale” procede, ma non c’è stupore.
Mancano troppe cose: la sfida del ‘di più’ personale, la cura altrui, il confronto con la drammaticità del reale: non c’è Unità; scarseggia la Presenza autentica che lancia l’amore nello spirito di avventura.
Non si tratta di avere un’idea, uno spunto in aggiunta a quanto già possediamo, continuando a esserne schiavi.
Non basta migliorare situazioni di relazione che conosciamo a memoria, facendosi approvare fin dal primo passo.
Il passaggio dalla religiosità alla Fede che ‘porta’ il nostro destino vocazionale e piena realizzazione si gioca su una penuria di appoggi - in sistemi caotici di correlazione.
Per essere felici non vale “normalizzarsi”, perché l’anima esige la sfida di cieli inesplorati.
Acque che non abbiamo sondato: lati di noi stessi, degli altri e della realtà che non abbiamo fatto emergere, e ancora forse non stiamo nemmeno scrutando.
Bisogna avventurarsi nei tratti basali e straordinari che oggi chiamano anche nel giorno dopo giorno; non attendere assicurazioni.
E il punto di partenza può anche essere l’accento del dubbio, una sana inquietudine dell’anima - il pericolo stesso... tipico dei testimoni critici.
Non tacitiamo il nostro essere malsicuro, né il senso d’insoddisfazione per una esistenza senza scossoni: sono feconde sospensioni, che ci attiveranno.
Sentirsi completo, realizzato, felice? Bisogna che sguardo e cuore cedano, non siano già occupati.
È assolutamente necessario lasciar andare le certezze dalla mente e dalla propria mano.
L’azzardo è il temerario investire tutto per un ‘altro regno’ - dove affiorano energie, si esplorano differenti rapporti; si tenta di sublimare i beni in matrice di vita [anche altrui: v.21].
Il nostro Nucleo rimane inquieto se non infonde corrispondenze che sorvolino l’antico dominatore: i possedimenti, che fanno ristagnare.
Le Radici profonde vogliono modificare il vettore dell’io paludoso e situato - “come si deve”, ben inserito o autoreferenziale - affinché dilati comprendendo il Tu e il tutto reale (vv.28-30).
È la Nascita della donna e dell’uomo nuovi; madri e padri dell’umanizzazione.
Ciò che sfiora la condizione divina. In grado persino di rovesciare le posizioni (v.31).
È la Genesi nell’autenticità delle energie cosmiche e delle potenze interiori, che stanno preparando tappe di crescita - altrove.
Via via si crea il calore e la reciprocità d’un rapporto comprensivo, lo scopo d’Amore in ciò che intraprendiamo o rifacciamo; come il tepore amico d’una Presenza non frigida.
Viviamo il discrimine colmo d’ebbrezza da cui non si torna indietro, perché ci colloca nella Vita stessa dell’Eterno (v.17). L’Uno che manca (v.21).
Mentre mi adopero per rimettermi in discussione o in favore degli altri, affiorano le risorse prima celate che neppure sapevo.
Con stupore faccio esperienza d’una realtà che passo passo si dischiude... nonché del Padre che provvede a me (v.27).
In tale estensione, impariamo a riconoscere il [nuovo decisivo] Soggetto del cammino spirituale: il disegno di Dio nell’Essere stesso.
Sogno che conduce… e malgrado le traversie, le tempeste emotive, i nostri contorcimenti, si rivela via via Somigliante.
Come innato: schietto, genuino, limpido; inconfutabile, smagliante, scorrevole.
Lasciare tutto e sperimentare il rovesciamento
(Mc 10,28-31)
Secondo mentalità corretta - tipica dell’ebraismo - per ricevere l’eredità divina bastava osservare i comandamenti (vv.17-20).
Ma non è con la sicurezza a monte che si può fare esodo per incontrare l’Unico (v.21) nel cuore; né la Chiesa può starsene al sicuro col contributo materiale dei ricchi (v.26).
Il cammino dell’amore e il rischio educativo suppongono la via della sobrietà avventurosa, senza la quale non è possibile incidere sui compartimenti stagni del pensiero e della società
Al contrario delle devozioni, la vita di Fede non richiede l’offerta a Dio di un sacrificio modesto o rassegnato, ma l’abbandono al futuro che Viene.
In tal guisa - facendo permanere i discepoli nell’energia d’intrapresa, l’esperienza credente non lascerà più nessuno a capo chino. Perché qui si scambiano le carte (v.31).
La Presenza del Regno fraterno e concreto - «in mezzo» - rovescia i ruoli e le ottiche, come le posizioni abitudinarie fra donne e uomini, giovani e vecchi, o nuovi e veterani (v.31).
Inseriti nella Chiesa che ode l’appello a “uscire”, smuoviamo il nostro Nucleo dalle tortuosità dei ripiegamenti.
Ed ecco il Centuplo del Padre in tutto (vv.28-30). Eccetto una cosa: perché siamo chiamati a essere sullo stesso piano.
Non ci sarà nessun cento per uno di «padri» [nel senso antico] ossia di controllori condizionanti (vv.29-30) che dettino il loro binario e ritmo, come a dei sottoposti.
Una vita di obblighi o attaccamenti blocca la creatività. Appiccicarsi un idolo, lasciarsi plagiare o intimidire, ancorarsi alla paura di problemi o preoccupazioni, è creare una camera buia.
Sentirsi programmabili, già progettati senza un di più... subire i pareri ordinari o conformisti... esclude il vettore della Novità sconosciuta, e tutta personale.
Chi si lascia inibire dall’etica esclusiva, dal dover stare con se stessi e gli altri secondo cliché di prestigio assodato e così via, edifica una dimora artificiale, che non è ‘casa sua’ né la ‘tenda del mondo’.
E pur nel passo della missione, congetturando addirittura di riuscire a prevedere le eccentricità feconde o le avventure globali, rattrappiamo l’anima, ci spaventiamo dei possibili conflitti.
Ma nel timore non si coglie ciò ch’è davvero ‘nostro e altrui’: quanto si palesa solo durante un processo, che diviene santo nell’esodo da se stessi e nella qualità di rapporti creativi.
In fondo, dietro la ritrosia a ‘esserci’ in Cristo e nelle relazioni che si spingono oltre il dovuto e già pensato, non si cela altro che il timore di perdere l’attenzione altrui o la reputazione.
Ma per Via si fa esperienza intima di un diverso Interruttore dentro, che aiuta ad esprimerci e affrontare le vicende dove non tutto sia già a posto.
Così, deponendo passo passo le paure di essere sgridati, e che la vita possa crollare proprio a causa delle nostre scelte ideali.
Via i retroscena.
Sono le nuove Genesi sotto uno stimolo d’inedito e sconosciuto a permettere di spostare l’attenzione dal calcolo alla luminosità del cuore, dal cervello all’occhio, dal ragionamento alla percezione.
Tolti i lacciuoli artificiosi del voler venire a capo delle situazioni [anzitempo e per forza] impareremo ad accogliere tutti i lati, e la vita andrà di suo, dilatando di onda in onda.
Non siamo più minorenni: abbiamo una Speranza piena - non moderata.
[28.a Domenica T.O. B (Mc 10,17-30) 13 ottobre 2024]
Ereditare la Vita dell’Eterno
(Mc 10,17-27)
Cosa ci sfugge, malgrado la convinzione e il coinvolgimento? Per quale alto motivo abbiamo fatto alcune scelte comportamentali?
Anche se dedicassimo anni d’impegno al cammino spirituale in religione, ci accorgeremmo che infine non manca solo la ciliegina sulla torta, ma l’Uno globale.
Non è sufficiente accentuare o perfezionare le cose buone, bisogna fare un Balzo; non basta un passetto (anche alternativo) in più.
Paradossalmente si parte dalla percezione d’una ferita interiore che smuove (v.17) alla ricerca di quel Bene che unifica e dà senso alla vita.
Gesù fa riflettere su ciò che è da considerare «Insigne» (così il testo greco: vv.17-18).
Non è un magistero per i lontani, bensì per noi: «Uno ti manca!» - come se volesse sottolineare: «Ti manca il Tutto, non hai quasi niente!».
La vita normale procede, ma il cammino di fiducia difetta. Non c’è stupore.
Il nostro andare non si consolida né qualifica adeguandosi all’ambiente circostante, aggiungendo patrimonio a patrimonio e scansando peccatucci, o - soprattutto - le incognite.
Mancano troppe cose: la sfida del di più personale, la cura altrui, il confronto con la drammaticità del reale: non c’è unità, scarseggia la Presenza autentica che lancia l’amore nello spirito di avventura.
Non si tratta di avere uno spunto in aggiunta a quanto già possediamo, continuando a esserne schiavi (i titoli, il capitale o il soldo che ci danno ordini come padroni; promettono, garantiscono, lusingano).
Non basta migliorare situazioni di relazione che conosciamo a memoria, facendosi approvare fin dal primo passo - né limitarsi ad approfondire pie curiosità saziando la gola spirituale.
Il passaggio dalla religiosità alla Fede che porta il nostro destino vocazionale e piena realizzazione si gioca su una penuria di appoggi - in sistemi caotici di correlazione.
Per essere felici non vale “normalizzarsi” né rimanere persone perbene, devote, perché l’anima esige la sfida di cieli inesplorati; acque che non abbiamo sondato: lati di noi stessi, degli altri e della realtà che non abbiamo fatto emergere, e ancora forse non stiamo nemmeno scrutando.
Bisogna avventurarsi nei tratti basali e straordinari che oggi chiamano anche nel giorno dopo giorno; non attendere assicurazioni.
E il punto di partenza può anche essere l’accento del dubbio, una sana inquietudine dell’anima - il pericolo stesso... tipico dei testimoni critici.
Non tacitiamo il nostro essere malsicuro, né il senso d’insoddisfazione per una esistenza comune, senza scossoni: sono feconde sospensioni, che (quando pronti) ci attiveranno.
Sentirsi completo, realizzato, felice? Bisogna che sguardo e cuore cedano, non siano già occupati.
È assolutamente necessario lasciar andare le certezze dalla mente e dalla propria mano.
L’azzardo non è macerazione di sé o delle linee portanti della propria personalità - ma il temerario investire tutto per un altro regno, dove affiorano energie, si esplorano differenti rapporti, e si tenta di sublimare i beni in matrice di vita (anche altrui: v.21).
Dopo che un senso d’incompletezza o persino l’infermità spirituale ci hanno spinti a una ricca sintonia con i codici dell’anima e condotti a tu per tu con Gesù (v.17) da Lui comprendiamo il segreto della Gioia.
Il nostro Nucleo rimane inquieto se non infonde corrispondenze che sorvolino - appunto - l’antico dominatore: i possedimenti, che fanno ristagnare.
Malgrado le garanzie promesse, essi rimangono stitici, privi di senso. Anzi, bloccandoci nella dipendenza fanno regredire quasi nel pre-umano - scippando la delizia delle relazioni aperte, nel rispetto di sé.
Le Radici profonde vogliono modificare il vettore dell’io paludoso e situato - “come si deve”, ben inserito o autoreferenziale - affinché dilati comprendendo il Tu e il tutto reale (vv.28-30).
È la Nascita della donna e dell’uomo nuovi, padri e madri dell’umanizzazione (in una comunità viva, che accetta la convivialità delle differenze). Ciò che sfiora la condizione divina.
In grado persino di rovesciare le posizioni (v.31). Segno escatologico e della Chiesa genuina, Nido e Focolare vero.
È la Genesi nell’autenticità delle energie cosmiche e delle potenze interiori, che stanno preparando tappe di crescita - altrove.
Via via si crea il calore e la reciprocità d’un rapporto comprensivo, lo scopo d’Amore in ciò che intraprendiamo o rifacciamo; come il tepore amico d’una Presenza non frigida.
Viviamo un discrimine colmo d’ebbrezza da cui non si torna indietro, perché ci colloca nella Vita stessa dell’Eterno (v.17). L’Uno che manca (v.21).
Mentre mi adopero per rimettermi in discussione o in favore degli altri, affiorano le risorse prima celate e che neppure sapevo.
Con stupore faccio esperienza d’una realtà che passo passo si dischiude... nonché di un Padre che provvede a me (v.27).
In tale estensione, impariamo a riconoscere il (nuovo decisivo) Soggetto del cammino spirituale: il Disegno di Dio nell’essere stesso.
Sogno che conduce… e malgrado le traversie, le tempeste emotive, i nostri contorcimenti, si rivela via via somigliante, come innato: schietto, genuino, limpido; inconfutabile, smagliante, scorrevole.
Inseriti nella Comunità che ode l’appello a “uscire”, ci smuoviamo dalle tortuosità dei ripiegamenti; ed ecco il Centuplo del Padre in tutto (vv.28-30).
Eccetto una cosa: siamo chiamati a essere Fratelli, sullo stesso piano. Non ci sarà nessun cento per uno di “padri” (nel senso antico), ossia di controllori condizionanti (vv. 29-30) che dettino il loro binario e ritmo, come a dei sottoposti.
Allora saremo nel nostro Centro, non perché identificati nel ruolo, bensì cesellati in modo stupefacente da sfaccettature d’Ignoto.
Una vita di attaccamenti blocca la creatività. Appiccicarsi un idolo, lasciarsi plagiare o intimidire, ancorarsi alla paura di problemi o pre-occupazioni è come creare una camera buia.
Sentirsi programmabili, già progettati senza un di più... subire i pareri ordinari o conformisti... esclude il vettore della Novità personale.
Chi si lascia inibire edifica una dimora artificiale, che non è casa sua, né la tenda del mondo.
Congetturando di riuscire a prevedere le avventure globali ci rattrappiamo, spaventiamo; non si coglie ciò ch’è davvero nostro e altrui: è quanto si palesa durante un processo - che diviene santo nell’esodo da se stessi e nella qualità di rapporti creativi.
Come ha detto il pontefice Francesco a Dublino: «Docili allo Spirito e non basati su piani tattici».
Sono le nuove genesi (sotto uno stimolo d’inedito e sconosciuto) a permettere di spostare l’attenzione dal calcolo alla luminosità dell’anima, dal cervello all’occhio, dal ragionamento alla percezione.
Cosa devo «fare» (v.17)? Accogliere il Dono del diverso e delle differenze - persino nei miei stessi volti interiori, anche opposti; che completano.
Trasaliremo dell’Uno che manca, ma che ci raggiunge. Non si fabbrica, ma si riceve, si «eredita» (v.17) gratuitamente dal reale che preme.
«Dov’è l’Insigne per me?». Per diventare ciò che autenticamente siamo nell’elezione della nostra sacra Sorgente bisogna abbandonarsi alle cose, alle situazioni, persino agli ospiti emotivi inusitati - trattandoli con dignità, così come sono.
Dentro questo nuova terra c’è il segreto di quell’elevatezza che si staglia sui dilemmi, per ciascuno.
Con tutto il suo carico di stimolanti sorprese e appelli a rifiorire in pienezza umanizzante, il Buono sta nell’accogliere qualcosa che non so già cos’è o sarà, ma Viene.
«L’Unico ti manca!» - e il modo migliore per stimarne il contatto è una scommessa, matrice di vita: trasformare i beni (di ogni genere) in vita e relazione.
Lasciare tutto e sperimentare il rovesciamento
(Mc 10,28-31)
Secondo mentalità corretta - tipica dell’ebraismo - per ricevere l’eredità divina bastava osservare i comandamenti (vv.17-20).
La proposta di Gesù non punta sullo scambio dei favori (automatismo farisaico): ha respiro, e poggia sul gratis; aiuta la libertà - è più ampia, senza zavorre.
Per questo... inclina verso la povertà ecclesiale. Sia il benestante che il convincimento degli apostoli vanno liberati dall’idolo dell’opulenza (forza paludosa).
Segno che la mentalità “interna” alle comunità andava raddrizzata, già d’allora: non è con la sicurezza a monte che si può fare esodo per incontrare l’Unico (v.21) nel cuore; né la Chiesa può starsene al sicuro col contributo materiale dei ricchi (v.26).
Il cammino dell’amore e il rischio educativo suppongono la via della sobrietà avventurosa, senza la quale non è possibile incidere sui compartimenti stagni del pensiero e della società.
Al contrario delle devozioni, la vita di Fede non richiede l’offerta a Dio di un sacrificio modesto o rassegnato, ma l’abbandono al futuro che viene.
Anche per una questione di sostanza, esso ci costringerà a spostare lo sguardo e riattiverà incessantemente.
Così facendo permanere i discepoli nell’energia d’intrapresa, finalmente non lascerà più nessuno a capo chino. Perché qui si scambiano le carte (v.31).
Egli non vuole scipparci di nulla: la sua Presenza amica è un fermento consistente, che vuole realizzare l’assoluto in ciascuno di noi.
Il distacco dalle cose per espandere e rallegrare la qualità del percorso è germe d’un nuovo sacro, d’un altro volto dell’umanità e del mondo.
L’esistenza concreta che scaturisce dalla proposta di Fede supera ogni modello religioso, ed estende perfino la comunità, creando una famiglia senza confini - tutti fratelli e sorelle, senza dirigenti a vita.
Non siamo più minorenni: abbiamo una Speranza piena - non moderata.
Solo la condivisione dei beni si ergerà: frutto di provvidenza e dono sistematico - e non vi saranno bisognosi, anzi avanzerà per altri ancora (ideale già di Dt 15 - senza più steccati culturali).
E nessun calcolo di contraccambio: perché non si parte dall’egoismo o dal tornaconto di club dalle belle maniere (e dall’avido possesso).
Ovvio, Cristo sarà la scelta dei poveri, che da sempre sognano un rovesciamento della piramide (v.31).
Al tempo di Gesù la vita della gente era infatti marcata - tratto a tratto - da una duplice sottomissione: la politica di Erode e la schiavitù religiosa.
Il sistema di sfruttamento e repressione era capillare e ben organizzato, e anche le autorità religiose avevano astutamente trovato un modus vivendi remunerativo ben introdotto nei gangli dell’impero.
Tutto ciò a prezzo della disgregazione della vita comunitaria e famigliare (sfaccettature dell’antica comunione di clan, ora vessata da problemi di sopravvivenza materiale e maggiore individualismo).
In un contesto di collasso sociale, moltissimi erano costretti a tirare avanti in una condizione di emarginati ed esclusi.
Ma nelle assemblee di Gesù l’atteggiamento d’inclusione verso gli emarginati, deboli e malfermi, le caratterizzava e faceva spiccare (via via preferire) nei confronti di tutti gli altri gruppi.
A quel tempo non mancavano diverse sette - anche ben motivate - che desideravano mostrare un modello di vita alternativo alla spietatezza della realtà corrente.
Però ad es. gli Esseni erano legalisti e puristi, e vivevano separati; così anche i Farisei, tradizionalisti che avevano abominio della gente “contaminata”.
Persino gli Zeloti mal sopportavano la folla debole e indecisa.
I considerati ignoranti, maledetti (per essere non in grado di adempiere le prescrizioni di legge) e in peccato, erano viceversa benvenuti nelle comunità cristiane.
Proprio i senza peso forzosamente esclusi perfino dal clan a motivo delle necessità economiche, trovavano lì finalmente rifugio, tepore, ascolto, comprensione, aiuto.
Il Maestro stesso aveva esplicitamente ordinato di scegliere l’anti-ambizione e l’esproprio personale in favore dei malati e deboli; di tutti coloro che erano rimasti indietro.
La semplicità di vita faceva il paio con la sobrietà nella missione.
Il Signore consigliava infatti agl’inviati di testimoniare fiducia radicale nell’ospitalità (offerta da tanti nuovi “famigliari”).
Senso di adattamento e misura nell’essenziale erano il carattere irrinunciabile dell’evangelizzazione.
I veri testimoni di Cristo, anche oggi e col passare del tempo, s’accontentano del provvisorio - tipico dei pellegrini - e non bramano migliori sistemazioni future, passando di casa in casa (Mc 6,10).
In tutto ciò i credenti dimostrano la Presenza del Regno fraterno e concreto, in mezzo - che rovescia i ruoli e le ottiche, come le posizioni abitudinarie fra donne e uomini, giovani e vecchi, o nuovi e veterani (v.31).
Inseriti nella Fraternità che ode l’appello a “uscire”, smuoviamo dalle tortuosità dei ripiegamenti; ed ecco il Centuplo del Padre in tutto (vv.28-30).
Eccetto una cosa: siamo chiamati a essere sullo stesso piano. Non ci sarà nessun cento per uno di «padri» (nel senso antico), ossia di controllori condizionanti (vv. 29-30) che dettino il loro binario e ritmo, come a dei sottoposti.
Allora saremo nel nostro Centro, non perché identificati nel ruolo, bensì cesellati in modo stupefacente dalle sfaccettature del Mistero che tocca, a partire da dentro.
Una vita di attaccamenti blocca la creatività. Appiccicarsi un idolo, lasciarsi plagiare o intimidire, ancorarsi alla paura di problemi o preoccupazioni è come creare una camera buia.
Sentirsi programmabili, già progettati senza un di più... subire i pareri ordinari o conformisti... esclude il vettore della Novità sconosciuta e tutta personale.
Chi si lascia inibire dall’etica esclusiva edifica una dimora artificiale, che non è casa sua, né la tenda del mondo.
Congetturando di riuscire a prevedere le eccentricità feconde o addirittura le avventure globali, ci rattrappiamo, spaventiamo.
Nel timore non si coglie ciò ch’è davvero nostro e altrui: quanto si palesa solo durante un processo, che diviene santo nell’esodo da se stessi e nella qualità di rapporti creativi.
Come ha detto il pontefice Francesco a Dublino: «Docili allo Spirito e non basati su piani tattici» che bloccano la vita.
Sono le nuove genesi sotto uno stimolo d’inedito e sconosciuto a permettere di spostare l’attenzione dal calcolo alla luminosità dell’anima, dal cervello all’occhio, dal ragionamento alla percezione.
Spiritualità vuota, o dei beni-Relazione
Dalle usanze coi limiti alla Spiritualità dei beni-Relazione
(Mt 19,16-22)
Al tempo di Gesù si viveva un momento di collasso sociale e disgregazione della dimensione comunitaria della vita - nel passato più legata alla famiglia, al clan e alla comunità.
La politica di Erode garantiva all’Impero il controllo della situazione: una realtà di massimo sfruttamento e grave repressione economica e civile.
Le imposizioni religiose assicuravano persino l’asservimento delle coscienze - e le autorità spirituali si facevano volentieri garanti di questa più occulta forma di schiavitù.
La condizione di sottomissione totale (civile e religiosa) del popolo tendeva ovunque a sminuire il senso della fraternità interpersonale e di gruppo.
Non mancavano severe condizioni di esclusione sociale e cultuale, che accentuavano lo smarrimento della gente, emarginata, priva di dimora e di riferimenti - persino religiosi.
Alcuni movimenti tentavano di ritessere le lacerazioni e proporre forme di vita condivisa, certo - ma accomunate da un’idea di decontaminazione tormentosa [Esseni, Farisei, Zeloti].
Gesù sceglie la strada d’un riscatto vitale decisivo, rispetto alle ideologie della riscoperta del purismo ascetico e di costume, tradizionalista nazionalista fondamentalista.
Per un radicale compimento dello spirito della Legge bisognava andare oltre le dottrine. Esse eccitano alcuni, eppure non cancellano il nostro senso intimo di vuoto.
La comunità dei figli non si tiene nei ‘limiti’, e non vive separata; così non accentua i tormenti d’imperfezione, o la percezione d’incompiutezza, né le emarginazioni - bensì le accoglie.
Non si sente messa in pericolo dal contatto con le realtà che il legalismo esterno della devozione antica considerava pericolose e maledette o in peccato. Trepida per esse.
La Chiesa riconosce il valore delle povertà esistenziali: non gli basta cercare “cose buone” senza ‘fuoco’ dentro.
Confessa la ricchezza non di tutto ciò che risulta già riconoscibile e statico, bensì delle nuove posizioni e dei rapporti difformi, che aprono il presente e spalancano visioni creative di futuro.
La Fede insomma non è un credere popolaresco identificato e in grado di accreditare ruoli, mansioni e personaggi - e i loro vantaggi, da cui tutti dovrebbero dipendere [!].
Né la dimensione-ricchezza può fare ancora rima con differenziazione-sicurezza.
Ai vv.18-19 Gesù non enumera comandamenti che farebbero vivere l’interlocutore [come si diceva un tempo] ‘più da presso’ a ‘Dio solo’, ma i criteri che ci portano vicino e accanto a sorelle e fratelli.
L’onore riservato al Padre non è una delle tante forme di amore competitivo: la soglia è il prossimo.
Il Dio delle religioni è un ragazzino capriccioso che pretende il pezzo grande della torta, a merenda: ma il Figlio non c’inganna con le idee più infantili delle credenze diffuse.
Neppure cita i primi comandamenti, identificativi del Signore eccelso del suo popolo.
Le nostre mani abbracciano il senza-tempo nell’amore concreto.
Esse innescano i dinamismi che annientano i tormenti dei minimi, e così in modo impensabile aiutano a farci riscoprire il senso e la gioia di vivere - lasciando rinascere il mondo, assai più che con le solite forme assicurative (sacralizzanti titoli e livelli economici acquisiti).
La vita consapevole non ha a che fare con usanze e cliché [che producono alibi] ma con un’altra serenità e gioia: lo stupore dell’inconsueto e di nuovi gradi, posti, stati, relazioni, situazioni.
Non esiste altra ricchezza che possa riempire le nostre giornate, mentre non c’è che tristezza (v.22) nei vecchi legami senza umanità. Essi calano tutti noi in una realtà mentale ed emotiva artificiosa.
Distaccarsi dal calcolo immediato sembra una scelta assurda, campata per aria e destinata male, ma è viceversa la mossa vincente che apre le porte alla Vita nuova del Regno e alla Felicità, cui si accede appunto quando i beni materiali vengono trasformati in Relazione.
Non conosciamo disciplina religiosa che tenga [e che riesca a sfidare il tempo, le nostre emozioni].
Solo il rischio per la Vita completa - nostra, di tutti - fa da molla alla volontà e spinge a piena dedizione.
Dice il Tao (xiii): «A chi di sé fa pregio a pro del mondo, si può affidare il mondo; a chi di sé ha cura a pro del mondo, si può confidare il mondo».
E il maestro Ho-shang Kung commenta: «Se facessi sì da non tenere alla mia persona, avrei in me la spontaneità del Tao: mi solleverei con leggerezza innalzandomi fino alle nubi, entrerei e uscirei là dove non sono interstizi, porrei lo spirito in comunicazione col Tao. Allora quale sventura avrei?».
Liberiamoci dalla pletora di obbiettivi sbagliati, che schiacciano i nostri percorsi, rendendoli paludosi. Riflettiamo bene anche noi, dunque, su «ciò ch’è insigne» (v.17).
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Grazie alle guide spirituali hai imparato a cogliere la tua vita a partire dalla Bontà di Dio, o a cullarti e accontentarti di quanto c’è?
Nella Chiesa hai trovato realizzato il criterio di Gesù, il forte desiderio di Bene anche altrui, in grado d’indicare un percorso? O più attenzione alle cose della terra?
Cari fratelli e sorelle!
Quattro nuovi Santi vengono oggi proposti alla venerazione della Chiesa universale: Rafael Guízar y Valencia, Filippo Smaldone, Rosa Venerini e Théodore Guérin. I loro nomi saranno ricordati per sempre. Per contrasto, viene subito da pensare al "giovane ricco", di cui parla il Vangelo appena proclamato. Questo giovane è rimasto anonimo; se avesse risposto positivamente all'invito di Gesù, sarebbe diventato suo discepolo e probabilmente gli Evangelisti avrebbero registrato il suo nome. Da questo fatto si intravede subito il tema della Liturgia della Parola di questa domenica: se l'uomo ripone la sua sicurezza nelle ricchezze di questo mondo non raggiunge il senso pieno della vita e la vera gioia; se invece, fidandosi della parola di Dio, rinuncia a se stesso e ai suoi beni per il Regno dei cieli, apparentemente perde molto, in realtà guadagna tutto. Il Santo è proprio quell'uomo, quella donna che, rispondendo con gioia e generosità alla chiamata di Cristo, lascia ogni cosa per seguirlo. Come Pietro e gli altri Apostoli, come Santa Teresa di Gesù che oggi ricordiamo, e innumerevoli altri amici di Dio, anche i nuovi Santi hanno percorso questo esigente, ma appagante itinerario evangelico ed hanno ricevuto "il centuplo" già nella vita terrena insieme con prove e persecuzioni, e poi la vita eterna.
Gesù, dunque, può veramente garantire un'esistenza felice e la vita eterna, ma per una via diversa da quella che immaginava il giovane ricco: non cioè mediante un'opera buona, una prestazione legale, bensì nella scelta del Regno di Dio quale "perla preziosa" per la quale vale la pena di vendere tutto ciò che si possiede (cfr Mt 13, 45-46). Il giovane ricco non riesce a fare questo passo. Malgrado sia stato raggiunto dallo sguardo pieno d'amore di Gesù (cfr Mc 10, 21), il suo cuore non è riuscito a distaccarsi dai molti beni che possedeva. Ecco allora l'insegnamento per i discepoli: "Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!" (Mc 10, 23). Le ricchezze terrene occupano e preoccupano la mente e il cuore. Gesù non dice che sono cattive, ma che allontanano da Dio se non vengono, per così dire, "investite" per il Regno dei cieli, spese cioè per venire in aiuto di chi è nella povertà.
Comprendere questo è frutto di quella sapienza di cui parla la prima Lettura. Essa - ci è stato detto - è più preziosa dell'argento e dell'oro, anzi della bellezza, della salute e della stessa luce, "perché non tramonta lo splendore che ne promana" (Sap 7, 10). Ovviamente, questa sapienza non è riducibile alla sola dimensione intellettuale. È molto di più; è "la Sapienza del cuore", come la chiama il Salmo 89. È un dono che viene dall'alto (cfr Gc 3, 17), da Dio, e si ottiene con la preghiera (cfr Sap 7, 7). Essa infatti non è rimasta lontana dall'uomo, si è fatta vicina al suo cuore (cfr Dt 30, 14), prendendo forma nella legge della Prima Alleanza stretta tra Dio e Israele mediante Mosè. Nel Decalogo è contenuta la Sapienza di Dio. Per questo Gesù afferma nel Vangelo che per "entrare nella vita" è necessario osservare i comandamenti (cfr Mc 10, 19). È necessario, ma non sufficiente! Infatti, come dice San Paolo, la salvezza non viene dalla legge, ma dalla Grazia. E San Giovanni ricorda che la legge l'ha data Mosè, mentre la Grazia e la Verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo (cfr Gv 1, 17). Per giungere alla salvezza bisogna dunque aprirsi nella fede alla grazia di Cristo, il quale però a chi gli si rivolge pone una condizione esigente: "Vieni e seguimi" (Mc 10, 21). I Santi hanno avuto l'umiltà e il coraggio di rispondergli "sì", e hanno rinunciato a tutto per essere suoi amici. Così hanno fatto i quattro nuovi Santi, che oggi particolarmente veneriamo. In essi ritroviamo attualizzata l'esperienza di Pietro: "Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito" (Mc 10, 28). Il loro unico tesoro è in cielo: è Dio.
Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci aiuta a comprendere la figura di San Rafael Guízar y Valencia, Vescovo di Veracruz nell'amata nazione messicana, come un esempio di colui che ha lasciato tutto per "seguire Gesù". Questo Santo fu fedele alla parola divina, "viva ed efficace", che penetra nel più profondo dello spirito (cfr Eb 4, 12). Imitando Cristo povero rinunciò ai suoi beni e non accettò mai i doni dei potenti, oppure li ridonava subito. Per questo ricevette "cento volte tanto" e poté così aiutare i poveri, anche nelle "persecuzioni" senza tregua (cfr Mc 10, 30). La sua carità vissuta in grado eroico fece sì che lo chiamassero il "Vescovo dei poveri". Nel suo ministero sacerdotale e poi episcopale, fu un instancabile predicatore di missioni popolari, il modo più adeguato a quel tempo per evangelizzare le genti, usando il suo Catechismo della dottrina cristiana. Essendo la formazione dei sacerdoti una delle sue priorità, riaprì il seminario, che considerava "la pupilla dei suoi occhi" e per questo era solito dire: "A un Vescovo possono mancare la mitra, il pastorale e persino la cattedrale, ma non può mancargli il seminario, poiché dal seminario dipende il futuro della sua Diocesi". Con questo profondo senso di paternità sacerdotale affrontò nuove persecuzioni ed esilî, ma garantendo sempre la preparazione degli studenti. Che l'esempio di San Rafael Guízar y Valencia sia una chiamata per i fratelli Vescovi e sacerdoti a considerare come fondamentale nei programmi pastorali, oltre allo spirito di povertà e dell'evangelizzazione, la promozione delle vocazioni sacerdotali e religiose, e la loro formazione secondo il cuore di Gesù!
San Filippo Smaldone, figlio del Meridione d'Italia, seppe trasfondere nella sua vita le migliori virtù proprie della sua terra. Sacerdote dal cuore grande, nutrito di costante preghiera e di adorazione eucaristica, fu soprattutto testimone e servo della carità, che manifestava in modo eminente nel servizio ai poveri, in particolare ai sordomuti, ai quali dedicò tutto se stesso. L'opera che egli iniziò prosegue grazie alla Congregazione delle Suore Salesiane dei Sacri Cuori da lui fondata, e che è diffusa in diverse parti d'Italia e del mondo. Nei sordomuti San Filippo Smaldone vedeva riflessa l'immagine di Gesù, ed era solito ripetere che, come ci si prostra davanti al Santissimo Sacramento, così bisogna inginocchiarsi dinanzi ad un sordomuto. Raccogliamo dal suo esempio l'invito a considerare sempre indissolubili l'amore per l'Eucaristia e l'amore per il prossimo. Anzi, la vera capacità di amare i fratelli ci può venire solo dall'incontro col Signore nel sacramento dell'Eucaristia.
Santa Rosa Venerini è un altro esempio di fedele discepola di Cristo, pronta ad abbandonare tutto per compiere la volontà di Dio. Amava ripetere: "Io mi trovo tanto inchiodata nella divina volontà, che non m'importa né morte, né vita: voglio vivere quanto egli vuole, e voglio servirlo quanto a lui piace e niente più" (Biografia Andreucci, p. 515). Da qui, dal suo abbandono in Dio, scaturiva la lungimirante attività che svolgeva con coraggio a favore dell'elevazione spirituale e dell'autentica emancipazione delle giovani donne del suo tempo. Santa Rosa non si accontentava di fornire alle ragazze un'adeguata istruzione, ma si preoccupava di assicurare loro una formazione completa, con saldi riferimenti all'insegnamento dottrinale della Chiesa. Il suo stesso stile apostolico continua a caratterizzare ancor oggi la vita della Congregazione delle Maestre Pie Venerini, da lei fondata. E quanto attuale ed importante è anche per l'odierna società il servizio che esse svolgono nel campo della scuola e specialmente della formazione della donna!
"Andate e vendete tutto ciò che avete e offrite il ricavato ai poveri... poi venite, seguitemi". Nel corso della storia della Chiesa queste parole hanno ispirato innumerevoli cristiani a seguire Cristo in una vita di povertà radicale, confidando nella Divina Misericordia. Fra questi generosi discepoli di Cristo c'è stata una donna francese che senza riserve ha risposto alla chiamata del divino Maestro. Madre Théodore Guérin entrò nella Congregazione delle Suore della Provvidenza nel 1823 e si dedicò all'opera di insegnamento nelle scuole. Poi, nel 1839, i suoi Superiori le chiesero di recarsi negli Stati Uniti per dirigere una comunità nell'Indiana. Dopo un lungo viaggio per terra e per mare, le sei suore arrivarono a St. Mary-of-the-Woods. In mezzo alla foresta trovarono un'umile cappella di legno. Si inginocchiarono di fronte al Santissimo Sacramento e resero grazie, chiedendo a Dio di guidarle nella nuova fondazione. Con grande fiducia nella Divina Provvidenza, Madre Théodore superò molte sfide e perseverò nell'opera che il Signore l'aveva chiamata a compiere. Quando morì, nel 1856, le suore gestivano scuole e orfanotrofi in tutto lo Stato dell'Indiana. Come ella stessa affermò: "Quanto bene è stato fatto dalle Suore di Saint Mary-of-the-Wood! Quanto bene ulteriore potranno fare se resteranno fedeli alla loro santa vocazione!".
Madre Théodore Guérin è una bella figura spirituale e un modello di vita cristiana. Fu sempre disponibile per le missioni che la Chiesa le affidava, e trovava la forza e l'audacia per metterle in pratica nell'Eucaristia, nella preghiera e in un'infinita fiducia nella Divina Provvidenza. La sua forza interiore la portava a rivolgere un'attenzione particolare ai poveri, e soprattutto ai bambini.
Cari fratelli e sorelle, rendiamo grazie al Signore per il dono della santità, che quest'oggi rifulge nella Chiesa con singolare bellezza. Gesù invita anche noi, come questi Santi, a seguirlo per avere in eredità la vita eterna. La loro esemplare testimonianza illumini e incoraggi specialmente i giovani, perché si lascino conquistare da Cristo, dal suo sguardo pieno d'amore. Maria, Regina dei Santi, susciti nel popolo cristiano uomini e donne come San Rafael Guízar y Valencia, San Filippo Smaldone, Santa Rosa Venerini e Santa Théodore Guérin, pronti ad abbandonare tutto per il Regno di Dio; disposti a far propria la logica del dono e del servizio, l'unica che salva il mondo. Amen!
[Papa Benedetto, Canonizzazione di Quattro Beati, 15 ottobre 2006]
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
«And therefore, it is rightly stated that he [st Francis of Assisi] is symbolized in the figure of the angel who rises from the east and bears within him the seal of the living God» (FS 1022)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
This is where the challenge for your life lies! It is here that you can manifest your faith, your hope and your love! [John Paul II at the Tala Leprosarium, Manila]
È qui la sfida per la vostra vita! È qui che potete manifestare la vostra fede, la vostra speranza e il vostro amore! [Giovanni Paolo II al Lebbrosario di Tala, Manila]
The more we do for others, the more we understand and can appropriate the words of Christ: “We are useless servants” (Lk 17:10). We recognize that we are not acting on the basis of any superiority or greater personal efficiency, but because the Lord has graciously enabled us to do so [Pope Benedict, Deus Caritas est n.35]
Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili » (Lc 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono [Papa Benedetto, Deus Caritas est n.35]
A mustard seed is tiny, yet Jesus says that faith this size, small but true and sincere, suffices to achieve what is humanly impossible, unthinkable (Pope Francis)
Il seme della senape è piccolissimo, però Gesù dice che basta avere una fede così, piccola, ma vera, sincera, per fare cose umanamente impossibili, impensabili (Papa Francesco)
Hypocrisy: indeed, while they display great piety they are exploiting the poor, imposing obligations that they themselves do not observe (Pope Benedict)
Ipocrisia: essi, infatti, mentre ostentano grande religiosità, sfruttano la povera gente imponendo obblighi che loro stessi non osservano (Papa Benedetto)
Each time we celebrate the dedication of a church, an essential truth is recalled: the physical temple made of brick and mortar is a sign of the living Church serving in history (Pope Francis)
Ogni volta che celebriamo la dedicazione di una chiesa, ci viene richiamata una verità essenziale: il tempio materiale fatto di mattoni è segno della Chiesa viva e operante nella storia (Papa Francesco)
As St. Ambrose put it: You are not making a gift of what is yours to the poor man, but you are giving him back what is his (Pope Paul VI, Populorum Progressio n.23)
Non è del tuo avere, afferma sant’Ambrogio, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene (Papa Paolo VI, Populorum Progressio n.23)
Here is the entire Gospel! Here! The whole Gospel, all of Christianity, is here! But make sure that it is not sentiment, it is not being a “do-gooder”! (Pope Francis))
Qui c’è tutto il Vangelo! Qui! Qui c’è tutto il Vangelo, c’è tutto il Cristianesimo! Ma guardate che non è sentimento, non è “buonismo”! (Papa Francesco)
Christianity cannot be, cannot be exempt from the cross; the Christian life cannot even suppose itself without the strong and great weight of duty [Pope Paul VI]
Il Cristianesimo non può essere, non può essere esonerato dalla croce; la vita cristiana non può nemmeno supporsi senza il peso forte e grande del dovere [Papa Paolo VI]
don Giuseppe Nespeca
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