Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Cari fratelli e sorelle,
la liturgia di questa diciannovesima domenica del tempo ordinario […] è tutta orientata verso il futuro, verso il cielo, dove la Vergine Santa ci ha preceduti nella gioia del paradiso. In particolare, la pagina evangelica, proseguendo il messaggio di domenica scorsa, invita i cristiani a distaccarsi dai beni materiali in gran parte illusori, e a compiere fedelmente il proprio dovere con una costante tensione verso l'alto. Il credente resta desto e vigilante per essere pronto ad accogliere Gesù quando verrà nella sua gloria. Attraverso esempi tratti dalla vita quotidiana, il Signore esorta i suoi discepoli, cioè noi, a vivere in questa disposizione interiore, come quei servi della parabola che sono in attesa del ritorno del loro padrone. "Beati quei servi - Egli dice - che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli" (Lc 12, 37). Dobbiamo dunque vegliare, pregando e operando il bene.
È vero, sulla terra siamo tutti di passaggio, come opportunamente ci ricorda la seconda lettura dell'odierna liturgia, tratta dalla Lettera agli Ebrei. Essa ci presenta Abramo in abito di pellegrino, come un nomade che vive in una tenda e sosta in una regione straniera. A guidarlo è la fede. "Per fede - scrive l'autore sacro - Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava (Eb 11, 8). La sua vera meta era infatti "la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso" (11, 10). La città a cui si allude non è in questo mondo, ma è la Gerusalemme celeste, il paradiso. Era ben consapevole di ciò la primitiva comunità cristiana che si considerava quaggiù "forestiera" e chiamava i suoi nuclei residenti nelle città "parrocchie", che significa appunto colonie di stranieri [in greco pàroikoi] (cfr 1Pt 2, 11). In questo modo i primi cristiani esprimevano la caratteristica più importante della Chiesa, che è appunto la tensione verso il cielo. L'odierna liturgia della Parola vuole pertanto invitarci a pensare "alla vita del mondo che verrà", come ripetiamo ogni volta che con il Credo facciamo la nostra professione di fede. Un invito a spendere la nostra esistenza in modo saggio e previdente, a considerare attentamente il nostro destino, e cioè quelle realtà che noi chiamiamo ultime: la morte, il giudizio finale, l'eternità, l'inferno e il paradiso. E proprio così noi assumiamo la responsabilità per il mondo e costruiamo un mondo migliore.
La Vergine Maria, che dal cielo veglia su di noi, ci aiuti a non dimenticare che qui, sulla terra, siamo solo di passaggio, e ci insegni a prepararci ad incontrare Gesù che "siede alla destra di Dio Padre Onnipotente: di là verrà a giudicare i vivi e i morti".
[Papa Benedetto, Angelus 12 agosto 2007]
45. Ricevendo il Pane di vita, i discepoli di Cristo si dispongono ad affrontare, con la forza del Risorto e del suo Spirito, i compiti che li attendono nella loro vita ordinaria. In effetti, per il fedele che ha compreso il senso di ciò che ha compiuto, la celebrazione eucaristica non può esaurirsi all'interno del tempio. Come i primi testimoni della risurrezione, i cristiani convocati ogni domenica per vivere e confessare la presenza del Risorto sono chiamati a farsi nella loro vita quotidiana evangelizzatori e testimoni. L'orazione dopo la comunione e il rito di conclusione — benedizione e congedo — vanno, sotto questo profilo, riscoperti e meglio valorizzati, perché quanti hanno partecipato all'Eucaristia sentano più profondamente la responsabilità ad essi affidata. Dopo lo scioglimento dell'assemblea, il discepolo di Cristo torna nel suo ambiente abituale con l'impegno di fare di tutta la sua vita un dono, un sacrificio spirituale gradito a Dio (cfr Rm 12, 1). Egli si sente debitore verso i fratelli di ciò che nella celebrazione ha ricevuto, non diversamente dai discepoli di Emmaus i quali, dopo aver riconosciuto « alla frazione del pane » il Cristo risuscitato (cfr Lc 24, 30-32), avvertirono l'esigenza di andare subito a condividere con i loro fratelli la gioia dell'incontro con il Signore (cfr Lc 24, 33-35).
[Papa Giovanni Paolo II, Dies Domini]
Nell’odierna pagina evangelica (cfr Lc 12,32-48), Gesù richiama i suoi discepoli alla continua vigilanza. Perché? Per cogliere il passaggio di Dio nella propria vita, perché Dio continuamente passa nella vita. E indica le modalità per vivere bene questa vigilanza: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese» (v. 35). Questa è la modalità. Anzitutto «le vesti strette ai fianchi», un’immagine che richiama l’atteggiamento del pellegrino, pronto per mettersi in cammino. Si tratta di non mettere radici in comode e rassicuranti dimore, ma di abbandonarsi, di essere aperti con semplicità e fiducia al passaggio di Dio nella nostra vita, alla volontà di Dio, che ci guida verso la meta successiva. Il Signore sempre cammina con noi e tante volte ci accompagna per mano, per guidarci, perché non sbagliamo in questo cammino così difficile. Infatti, chi si fida di Dio sa bene che la vita di fede non è qualcosa di statico, ma è dinamica! La vita di fede è un percorso continuo, per dirigersi verso tappe sempre nuove, che il Signore stesso indica giorno dopo giorno. Perché Lui è il Signore delle sorprese, il Signore delle novità, ma delle vere novità.
E poi – la prima modalità era “le vesti strette ai fianchi” – poi ci è richiesto di mantenere «le lampade accese», per essere in grado di rischiarare il buio della notte. Siamo invitati, cioè, a vivere una fede autentica e matura, capace di illuminare le tante “notti” della vita. Lo sappiamo, tutti abbiamo avuto giorni che erano vere notti spirituali. La lampada della fede richiede di essere alimentata di continuo, con l’incontro cuore a cuore con Gesù nella preghiera e nell’ascolto della sua Parola. Riprendo una cosa che vi ho detto tante volte: portate sempre un piccolo Vangelo in tasca, nella borsa, per leggerlo. È un incontro con Gesù, con la Parola di Gesù. Questa lampada dell’incontro con Gesù nella preghiera e nella sua Parola ci è affidata per il bene di tutti: nessuno, dunque, può ritirarsi intimisticamente nella certezza della propria salvezza, disinteressandosi degli altri. È una fantasia credere che uno possa da solo illuminarsi dentro. No, è una fantasia. La fede vera apre il cuore al prossimo e sprona verso la comunione concreta con i fratelli, soprattutto con coloro che vivono nel bisogno.
E Gesù, per farci capire questo atteggiamento, racconta la parabola dei servitori che attendono il ritorno del padrone quando torna dalle nozze (vv. 36-40), presentando così un altro aspetto della vigilanza: essere pronti per l’incontro ultimo e definitivo col Signore. Ognuno di noi si incontrerà, si troverà in quel giorno dell’incontro. Ognuno di noi ha la propria data dell’incontro definitivo. Dice il Signore: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; … E, se giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!» (vv. 37-38). Con queste parole, il Signore ci ricorda che la vita è un cammino verso l’eternità; pertanto, siamo chiamati a far fruttificare tutti i talenti che abbiamo, senza mai dimenticare che «non abbiamo qui la città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (Eb 13,14). In questa prospettiva, ogni istante diventa prezioso, per cui bisogna vivere e agire su questa terra avendo la nostalgia del cielo: i piedi sulla terra, camminare sulla terra, lavorare sulla terra, fare il bene sulla terra, e il cuore nostalgico del cielo.
Noi non possiamo capire davvero in cosa consista questa gioia suprema, tuttavia Gesù ce lo fa intuire con la similitudine del padrone che trovando ancora svegli i servi al suo ritorno: «si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli» (v. 37). La gioia eterna del paradiso si manifesta così: la situazione si capovolgerà, e non saranno più i servi, cioè noi, a servire Dio, ma Dio stesso si metterà a nostro servizio. E questo lo fa Gesù fin da adesso: Gesù prega per noi, Gesù ci guarda e prega il Padre per noi, Gesù ci serve adesso, è il nostro servitore. E questa sarà la gioia definitiva. Il pensiero dell’incontro finale con il Padre, ricco di misericordia, ci riempie di speranza, e ci stimola all’impegno costante per la nostra santificazione e per costruire un mondo più giusto e fraterno.
La Vergine Maria, con la sua materna intercessione, sostenga questo nostro impegno.
[Papa Francesco, Angelus 11 agosto 2019]
19a Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [10 Agosto 2025]
*Prima lettura dal Libro della Sapienza (18, 6-9)
Il primo versetto ci introduce immediatamente nell’atmosfera: l’autore si abbandona a una meditazione sulla “notte della liberazione pasquale”, la notte dell’uscita d’Israele dall’Egitto, guidato da Mosè. Di anno in anno Israele celebra il pasto pasquale per rivivere il mistero della liberazione operata da Dio in quella notte memorabile (Es 12,42). Celebrare per rivivere: il verbo “celebrare” non significa semplicemente commemorare, ma “fare memoria” lasciare cioè che Dio agisca nuovamente, il che implica lasciarsi trasformare in profondità. Ancora oggi, quando il padre di famiglia, durante il pasto pasquale, inizia il proprio figlio al significato della festa, non gli dice: “Il Signore ha agito a favore dei nostri padri”, ma: “Il Signore ha agito a mio favore, quando sono uscito dall’Egitto» (Es 13,8). E i commenti dei rabbini confermano: “In ogni generazione, ciascuno deve considerarsi come se fosse uscito dall’Egitto”. La celebrazione della notte pasquale racchiude tutte le dimensioni dell’Alleanza sia l’azione di grazie per la liberazione compiuta da Dio come pure l’impegno di fedeltà ai comandamenti. Liberazione, dono della Legge e alleanza sono un unico evento come Dio comunicò a Mosè, e tramite lui al popolo, ai piedi del Sinai (Es 19,4-6). Nelle poche righe del Libro della Sapienza ci vengono qui proposte le due dimensioni: anzitutto l’azione di grazie: “La notte (della liberazione) fu preannunciata ai nostri padri perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà” (v.6). Si parla qui dei giuramenti, che sono le promesse di Dio al suo popolo: una discendenza, una terra, una vita felice in quella terra (Gen 15,13-14; 46,3-4). “Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici. Difatti come punisti gli avversari, così glorificasti noi chiamandoci a te” (v.7). Questa è la lezione: scegliendo l’oppressione e la violenza, gli Egiziani hanno provocato da sé la propria rovina. Il popolo oppresso, invece, ha ricevuto la protezione di Dio. La seconda dimensione della celebrazione della notte pasquale è l’impegno personale e comunitario: “I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacri lodi dei padri” (v.9). L’autore metta in parallelo: la pratica del culto “offrivano sacrifici in segreto”, e l’impegno di solidarietà fraterna “si imposero concordi di condividere successi e pericoli”. La Legge d’Israele ha sempre unito la celebrazione dei doni di Dio e la solidarietà tra i membri del popolo dell’Alleanza. Anche Gesù opererà lo stesso legame: “fare memoria di lui” significa, con un solo gesto, celebrare l’Eucaristia e mettersi al servizio dei fratelli, come lui stesso fece la sera del Giovedì Santo, lavando i piedi ai discepoli.
*Salmo responsoriale (32/33, 1.12, 18-19, 20.22)
“Esultate, o giusti, nel Signore; per gli uomini retti è bella la lode”. Fin dal primo versetto sappiamo di essere nel Tempio di Gerusalemme, nel contesto di una liturgia di rendimento di grazie. Attenzione: “giusti” e “uomini retti” non indicano atteggiamenti di orgoglio o autocompiacimento, ma l’atteggiamento umile di chi si inserisce nel progetto di Dio perché nella Bibbia la giustizia (per noi sarebbe santità) non è una qualità morale bensì un dono. “Beata la nazione che ha il Signore come Dio, il popolo che egli ha scelto come sua eredità” (v.12. L’Alleanza è il progetto di Dio cioè la scelta libera con cui ha voluto affidare a un popolo il suo mistero. È naturale, quindi, rendere grazie per questo dono. Non si tratta di un orgoglio arrogante, ma di una legittima fierezza, la consapevolezza dell’onore che Dio gli ha fatto scegliendolo per una missione ed è la fierezza nostra di essere incorporati col battesimo al suo popolo in missione nel mondo. La fiducia nasce dalla fede e il versetto seguente esprime in un altro modo questa esperienza della fede:”L’occhio del Signore è chi su lo teme, su chi spera nel suo amore”(v.18) Splendida definizione del “timore di Dio” in senso biblico: non paura, ma fiducia totale e interessante è l’accostamento delle due parti del versetto: “chi lo teme” e “chi spera nel suo amore”. Il timore di Dio è, in realtà, fiducia nell’amore di Dio, non timore servile, ma risposta d’amore come dice il Salmo 102/103: “Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono”. L’unico vero modo per rispettare Dio è amarlo come appare chiaramente nella professione di fede d’Israele: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza” (Dt 6,4). Torno sul versetto centrale: “L’occhio del Signore è chi su lo teme, su chi spera nel suo amore”. Dio ha vegliato su Israele come un padre durante il cammino nel deserto. Liberati dall’Egitto gli ebrei, senza l’ntervento divino, non sarebbero sopravvissuti né al passaggio del Mare, né alle prove del deserto. Al roveto ardente,il Signore aveva promesso a Mosè di accompagnare il suo popolo verso la libertà e ha mantenuto la promessa. Quando leggiamo “il Signore” si tratta sempre del famoso tetragramma YHWH, che gli ebrei non pronunciano per rispetto e che significa: “Io sono, io sarò con voi, in ogni istante della vostra vita.”, in fondo si tratta del respiro dell’essere umano. Il salmista continua: “Per liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame” (v.19) che richiama il Libro del Deuteronomio dove si dice che il Signore ha vegliato sul suo popolo “come sulla pupilla del suo occhio”. Il salmo prosegue: “il Signore è nostro aiuto e nostro scudo. Su di noi sia il tuo amore, Signore come date noi speriamo” (vv20. 22) Una fiducia non sempre facile e Israele ha oscillato tra fiducia e ribellione, attratto costantemente da idoli. Questo salmo è in fondo una chiamata alla fede salda. Chi l’ ha composto conosce bene le incertezze del suo popolo. Per questo invita a ritrovare la certezza della fede, l’unica in grado di generare felicità duratura. E ha composto questo salmo di ventidue versetti come le lettere dell’alfabeto ebraico, per indicare che la Legge è un tesoro che guida la vita dall’A alla Z.
*Seconda lettura dalle Lettera agli Ebrei (11,1-2.8-19)
“Per fede”: questa espressione ritorna come un ritornello nel capitolo 11 della Lettera agli Ebrei e l’autore arriva perfino a dire che il tempo gli manca per elencare tutti i credenti dell’Antico Testamento, la cui fede ha permesso al progetto di Dio di compiersi. Il testo che ci viene proposto questa domenica si concentra solo su Abramo e Sara, modelli di vera fede. Tutto è cominciato per loro con la prima chiamata di Dio (Gn 12): “Esci dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, e va’ verso il paese che io ti indicherò”. E Abramo obbedì, ci dice il testo, nel senso più bello del termine: obbedire nella Bibbia significa libera sottomissione di chi accetta di fidarsi perché sa che quando Dio ordina è per il suo bene e per la sua liberazione sapendo che Dio vuole soltanto il nostro bene, la nostra felicità. Abramo partì verso un paese che doveva ricevere in eredità: credere, significa vivere tutto ciò che possediamo come un dono di Dio. Partì senza sapere dove andava: se si sapesse dove si va, non ci sarebbe più bisogno di credere. Credere è fidarsi senza capire e senza sapere tutto; accettare che la strada non è quella da noi prevista o desiderata perché sia Dio a deciderla. Sia fatta la tua volontà, non la mia , disse molto tempo dopo Gesù, che a sua volta si fece obbediente, come dice san Paolo, fino alla morte di croce (Fil 2). “Per fede anche Sara, sebbene fuori dell’età (90 anni), potè diventare madre”. E’ vero che all’inizio rise a un annuncio così incredibile, ma poi lo accolse come una promessa e si fidò ascoltando la risposta del Signore al suo riso: “C’è forse qualcosa di troppo difficile per il Signore? – disse Dio – Al tempo stabilito ritornerò da te, e Sara avrà un figlio” (Gn 18,14). E ciò che era impossibile umanamente si realizzò. Un’altra donna, Maria, secoli più tardi, ascoltò l’annuncio della nascita del figlio della promessa, e accettò credendo che nulla è impossibile a Dio (Lc 1). Per fede Abramo affrontò la prova incredibile di offrire in sacrificio Isacco, ma anche lì, benché non comprendesse, sapeva che l’ordine di Dio era dato per amore: era il cammino della promessa, un cammino oscuro, ma sicuro. Dal punto di vista umano, la promessa di una discendenza e la richiesta del sacrificio di Isacco sono in netta contraddizione, ma Abramo, il credente, proprio perché aveva ricevuto la promessa di una discendenza per mezzo di Isacco, può arrivare fino al punto di offrirlo in sacrificio perché crede che Dio non può rinnegare la sua promessa. Alla domanda di Isacco: Padre, vedo il fuoco e la legna… ma dov’è l’agnello per l’olocausto?, Abramo risponde con tutta sicurezza: Dio provvederà, figlio mio. Il cammino della fede è oscuro, ma è sicuro. E non mentiva neppure quando disse ai suoi servi, lungo la strada: Rimanete qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin là per adorare e poi torneremo da voi. Non sapeva quale lezione Dio volesse dargli sull’interdizione dei sacrifici umani, non conosceva l’esito della prova, ma si fidava. Secoli dopo, Gesù, il nuovo Isacco, credette che poteva risuscitare dai morti, e fu esaudito, come dice la Lettera agli Ebrei. Abbiamo qui una straordinaria lezione di speranza! E’ la fede a salvarci e l’autore della Lettera agli Ebrei commenta che il progetto salvifico si compie grazie a chi crede e lascia che la promessa possa compiersi attraverso di lui.
NOTA In ebraico, il verbo credere è aman (da cui deriva il nostro «amen»),termine che implica solidità, fermezza; credere significa “tenersi saldi”, avere fiducia fino in fondo, anche nel dubbio, nello scoraggiamento o nell’angoscia.
*Dal Vangelo secondo Luca (12, 32 – 48)
Questo testo inizia con una parola di speranza che dovrebbe darci tutto il coraggio possibile:
“Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto darvi il Regno.” In altre parole: questo Regno, è certo, vi è stato donato; credetelo anche se le apparenze sembrano dire il contrario. Ma Gesù non si ferma qui: descrive subito le esigenze che derivano da questa promessa. Perché “a chi fu dato molto, molto sarà richiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più”. L’unico pensiero dominante nel cuore del credente è la realizzazione della promessa di Dio che libera da ogni altra preoccupazione:
“Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.” Gesù spiega ciò che si aspetta da noi con tre brevi parabole: la prima è quella dei servi che attendono il ritorno del loro padrone; la seconda, più breve, paragona il suo ritorno all’arrivo inaspettato di un ladro; la terza descrive l’arrivo del padrone e il giudizio che pronuncia sui suoi servi. La parola chiave è “servizio”: Dio ci fa l’onore di prenderci al suo servizio, di renderci suoi collaboratori. Più tardi, san Pietro — che ha ben compreso il messaggio di Gesù — dirà ai cristiani dell’Asia Minore: “Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certi credono, ma usa pazienza verso di voi, non volendo che qualcuno si perda, ma che tutti giungano alla conversione” (2 Pt 3,9). E arriva persino a dire: “Voi che attendete affrettate la venuta del giorno di Dio» (2 Pt 3,12). Sta a noi la responsabilità di “affrettare” l’avvento del Regno di Dio, come diciamo nel Padre nostro: “Venga il tuo Regno!” Verrà tanto più rapidamente quanto più crederemo e ci impegneremo. Così, ogni nostro sforzo, anche il più modesto, in modo misterioso, è collaborazione all’avvento del Giorno di Dio: “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tuti i suoi averi”. “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli.”A ben vedere questo si realizza ogni domenica a Messa: il Signore ci invita alla sua mensa ed è lui stesso a nutrirci rinnovandoci l’energia necessaria per continuare il nostro servizio.
+ Giovanni D’Ercole
Anime sagge, o pazze
(Mt 25,1-13)
Il tema non è quello della vigilanza morale, bensì puntuale: prima o poi tutti i battezzati in Cristo si addormentano (v.5).
E l’ambiente non sembra dei migliori: lo sposo ritarda, le ragazze sono assopite, alcune senz’olio e le altre... acide.
Ma a volte siamo come pazzi che vanno a costruire case sulla sabbia: alla prima fiumana crolla tutto.
L’entusiasmo c’era, la sintonia col Signore e la sua voglia di abbracciare e trasmettere pienezza di essere... forse no.
Manca una dimensione di profondità, o di speranza viva che anima le motivazioni e lubrifica l’energia, nell'impulso alla missione.
È l’esito di coloro che sembrano aver accolto le Beatitudini di tutto punto, ma non le fanno proprie...
Non per il fatto che non adempiono bene il ruolo - una mansione - ma perché non mettono in relazione l’ascolto con la pratica non distratta, squisitamente evangelica.
Alimentare la torcia è promuovere la vita!
E l’Appello, il momento opportuno, giunge improvviso; non si allestisce attraverso una scelta generale o formale che evolve senza correlazioni, binari personali, attenzione agli eventi e capacità di corrispondere.
Qui la relazione di Fede non è olio che si possa prestare.
Esistono anime ansiose o perfezioniste che si precipitano a intervenire, ma difettano di percezione. Vi sono cuori timorosi e paralizzati: devono acquisire flessibilità.
Alcuni fissano i momenti “no” e non sanno trasformarli in occasioni di risveglio, ovvero guariscono troppo tardi. Altri dipendono dalla stagione o vivono di adrenalina e difettano di consapevolezza.
Qualcuno deve rallentare e raccogliersi, ritrovare se stesso e la leggerezza vocazionale istintiva, la propria parte infinita - ma evitando strategie puerili.
Altri che già hanno accolto il divino, avrebbero bisogno di svegliarsi dal torpore, per mettere in moto la luce sapiente e innata che possiedono nelle inclinazioni profonde.
C’è chi ha necessità di gettare zavorre, divenire più sottile nell’udire e nel porgersi, o meno dirigista; altri prepararsi all’Incontro in una dimensione più relazionale e visibile.
Ci sono persone che devono complicarsi la vita per poi semplificare [senza disperdere] divenendo infine più nitide; altre e forse più, imparare a donare. Così via.
Quindi... meglio alcuni con la luce che tutti al buio. Le azioni e il rischio per la sapienza, l’amore e la completezza di vita costruiscono la Persona e il suo dialogo.
Spesso s’immagina di aver provveduto alla propria pratica con Dio iscrivendosi nei registri parrocchiali, senza però elaborarne l’impegno.
Ma chi non edifica né comunica vita non ha nulla a che fare con Dio stesso (v.12).
In tal guisa, anche la crisi potrà avere un senso evolutivo; nel non sentirsi assoluti, nella logica delle opzioni, nella personalizzazione, nell’Incontro imprevisto e differente.
Soglia di ogni Esodo, verso la Libertà e la Festa.
Quando la polizia nazista bussò alla porta del Monastero delle Carmelitane di Echt, Edith era pronta. Non aveva perso il senso dell’invito a Nozze.
[S. Teresa Benedetta della Croce, 9 agosto]
La distrazione in sala d’attesa, o una crisi dal senso evolutivo
(Mt 25,1-13)
Il tema non è quello della vigilanza morale, bensì puntuale: prima o poi tutti i battezzati in Cristo si addormentano (v.5).
E l’ambiente non sembra dei migliori: lo sposo ritarda, le ragazze sono assopite, alcune senz’olio e le altre... acide.
Ma a volte siamo come pazzi che vanno a costruire case sulla sabbia: alla prima fiumana crolla tutto.
L’entusiasmo c’e, la sintonia col Signore e la sua voglia di abbracciare e trasmettere pienezza di essere... forse no.
Manca una dimensione di profondità, o di speranza viva che anima le motivazioni e lubrifica l’energia, nell'impulso alla missione.
È l’esito di coloro che sembrano aver accolto le Beatitudini di tutto punto, ma non le fanno proprie...
Non per il fatto che non adempiono bene il ruolo - una mansione - ma perché non mettono in relazione l’ascolto con la pratica non distratta, squisitamente evangelica.
Alimentare la torcia è promuovere la vita!
Ma come concentrarsi e non offuscarla, anzi sbloccarla, e non lasciarsi suggestionare dai monili, tirarla fuori dal cassetto; orientarla bene - in favore locale e universale, proprio, e di tutti?
L’Appello, il momento opportuno, giunge improvviso. Non si allestisce attraverso una scelta generale o formale che evolve senza correlazioni, senza binari personali, senza attenzione agli eventi e capacità di corrispondere.
Insomma: la relazione di Fede non è olio che si possa prestare.
Come in un rapporto d’Amore, ciascuno ha bisogno istante per istante di un nuovo personale equilibrio - potenziato nella fusione.
Esistono anime ansiose o perfezioniste che si precipitano a intervenire, ma difettano di percezione. Vi sono cuori timorosi e paralizzati: devono acquisire flessibilità.
Alcuni fissano i momenti “no” e non sanno trasformarli in occasioni di risveglio; o guariscono troppo tardi. Altri dipendono dalla stagione o vivono di adrenalina, e difettano di consapevolezza.
Qualcuno deve rallentare e raccogliersi, ritrovare se stesso e la leggerezza vocazionale istintiva, la propria parte infinita - ma evitando strategie puerili.
Altri che già hanno accolto il divino, avrebbero bisogno di svegliarsi dal torpore, per mettere in moto la luce sapiente, innata, che possiedono nelle inclinazioni profonde.
Qualcuno ha necessità di gettare zavorre, divenire più sottile nell’udire e nel porgersi, o meno dirigista; altri, prepararsi all’Incontro in una dimensione più relazionale e visibile.
Ci sono persone che non possono non complicarsi la vita, per poi semplificare [senza disperdere] divenendo infine più nitide; altre e forse più, imparare a donare. Così via.
Quindi... per armonizzare e rinvigorire l’organismo naturale, passionale e vocazionale, meglio alcuni con la luce che tutti al buio - bloccati in sala d’attesa, persi per sempre.
Gesù non predilige gli assopiti in una spiritualità vuota senza unicità - ovvero gli avvinti dall’istinto di autoprotezione. Esso non ricerca prima le proprie risorse, ciò che già trova in sé; bensì quel che ottiene fuori, o vien dato a richiesta, mendicato da altri.
L’ascolto insolito - forse indebito - e personale, nonché le azioni intraprendenti, il rischio per la saggezza, l’amore, lo stimolo alla completezza di essere, costruiscono la Persona e il suo dialogo vero.
I conformismi non producono svolte; permangono nel contorno torpido.
La folla indistinta senza convivialità delle differenze - se mediocre, priva di picchi esplorativi, eccezioni - spinge in panchina ogni Chiamata irripetibile.
Spesso s’immagina di aver provveduto alla propria pratica con Dio iscrivendosi nei registri parrocchiali, senza elaborarne l’impegno sino in fondo. Forse per timore del rischio o di fatiche impreviste.
Poi qualche zelante manierista assume anche atteggiamenti proni di apparenza [un tempo si diceva] “papista” e [finta] ortodossia - o viceversa, sofisticate, à la page.
Astrazioni disincarnate, che allo Sposo non interessano.
Colui che neppure lavora su di sé, ovviamente secondo il carattere delle proprie inclinazioni vocazionali, non edifica né comunica vita.
Non arricchisce né rallegra l’esistenza anche sommaria, dei tempi di stanchezza nell’attesa. Infine, non ha nulla a che fare con Dio (v.12).
Il paradigma di questo Richiamo alto e forte del Vangelo è la terapia che può rigenerare il mondo soggiogato da omologazioni esterne, affinché vada Altrove - e non rinunci alla dimensione del Mistero che lo suscita.
Appello fuori del tempo per la Chiesa stessa, affinché non si accontenti di schemi, modelli, ricette standard, o di rimettere le cose a posto in modo abitudinario.
Né si blocchi nei rapporti malati, nelle nomenclature d’appoggio qualunquista; strepitoso o museale. E in tal guisa si ritrovi fuori della Festa, disorientata, sopraffatta; senza neppure aver attivato se stessa, umanizzando.
Come ricorda l’enciclica Fratelli Tutti al n.33 [riprendendo un’omelia di Papa Francesco a Skopje]:
«Ci siamo nutriti con sogni di splendore e grandezza e abbiamo finito per mangiare distrazione [perdendo] il gusto e il sapore della realtà».
Ma anche la crisi potrà avere un senso evolutivo: nell’accettare di sbagliare, nella presa di coscienza delle imperfezioni.
Nel non sentirsi assoluti; nella logica delle opzioni, nella personalizzazione, nell’Incontro imprevisto e differente.
Soglia di ogni Esodo verso la Libertà e la Festa.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Hai perso il senso dell’invito a Nozze? O semplicemente preferisci varcare indenne la soglia del Banchetto?
Esiste un Incontro che ritieni possa destare la tua vita, o l’abitudine di attendere si è tramutata in una abitudine di non attendere più nulla?
Per non ricadere
«Le Letture bibliche dell’odierna liturgia […] ci invitano a prolungare la riflessione sulla vita eterna […]. Su questo punto è netta la differenza tra chi crede e chi non crede, o, si potrebbe ugualmente dire, tra chi spera e chi non spera. Scrive infatti san Paolo ai Tessalonicesi: «Non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza» ( 1 Ts 4,13). La fede nella morte e risurrezione di Gesù Cristo segna, anche in questo campo, uno spartiacque decisivo. Sempre san Paolo ricorda ai cristiani di Efeso che, prima di accogliere la Buona Notizia, erano «senza speranza e senza Dio nel mondo» ( Ef 2,12). Infatti, la religione dei greci, i culti e i miti pagani, non erano in grado di gettare luce sul mistero della morte, tanto che un’antica iscrizione diceva: « In nihil ab nihilo quam cito recidimus», che significa: «Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo». Se togliamo Dio, se togliamo Cristo, il mondo ripiomba nel vuoto e nel buio. E questo trova riscontro anche nelle espressioni del nichilismo contemporaneo, un nichilismo spesso inconsapevole che contagia purtroppo tanti giovani.
Il Vangelo di oggi è una celebre parabola, che parla di dieci ragazze invitate ad una festa di nozze, simbolo del Regno dei cieli, della vita eterna (Mt 25,1-13). E’ un’immagine felice, con cui però Gesù insegna una verità che ci mette in discussione; infatti, di quelle dieci ragazze: cinque entrano alla festa, perché, all’arrivo dello sposo, hanno l’olio per accendere le loro lampade; mentre le altre cinque rimangono fuori, perché, stolte, non hanno portato l’olio. Che cosa rappresenta questo “olio”, indispensabile per essere ammessi al banchetto nuziale? Sant’Agostino (cfr Discorsi 93, 4) e altri antichi autori vi leggono un simbolo dell’amore, che non si può comprare, ma si riceve come dono, si conserva nell’intimo e si pratica nelle opere. Vera sapienza è approfittare della vita mortale per compiere opere di misericordia, perché, dopo la morte, ciò non sarà più possibile. Quando saremo risvegliati per l’ultimo giudizio, questo avverrà sulla base dell’amore praticato nella vita terrena (cfr Mt 25,31-46). E questo amore è dono di Cristo, effuso in noi dallo Spirito Santo. Chi crede in Dio-Amore porta in sé una speranza invincibile, come una lampada con cui attraversare la notte oltre la morte, e giungere alla grande festa della vita».
[Papa Benedetto, Angelus 6 novembre 2011]
Il Vangelo di oggi è una celebre parabola, che parla di dieci ragazze invitate ad una festa di nozze, simbolo del Regno dei cieli, della vita eterna (Mt 25,1-13). E’ un’immagine felice, con cui però Gesù insegna una verità che ci mette in discussione; infatti, di quelle dieci ragazze: cinque entrano alla festa, perché, all’arrivo dello sposo, hanno l’olio per accendere le loro lampade; mentre le altre cinque rimangono fuori, perché, stolte, non hanno portato l’olio. Che cosa rappresenta questo «olio», indispensabile per essere ammessi al banchetto nuziale? Sant’Agostino (cfr Discorsi 93, 4) e altri antichi autori vi leggono un simbolo dell’amore, che non si può comprare, ma si riceve come dono, si conserva nell’intimo e si pratica nelle opere. Vera sapienza è approfittare della vita mortale per compiere opere di misericordia, perché, dopo la morte, ciò non sarà più possibile. Quando saremo risvegliati per l’ultimo giudizio, questo avverrà sulla base dell’amore praticato nella vita terrena (cfr Mt 25,31-46). E questo amore è dono di Cristo, effuso in noi dallo Spirito Santo. Chi crede in Dio-Amore porta in sé una speranza invincibile, come una lampada con cui attraversare la notte oltre la morte, e giungere alla grande festa della vita.
A Maria, Sedes Sapientiae, chiediamo di insegnarci la vera sapienza, quella che si è fatta carne in Gesù. Lui è la Via che conduce da questa vita a Dio, all’Eterno. Lui ci ha fatto conoscere il volto del Padre, e così ci ha donato una speranza piena d’amore. Per questo, alla Madre del Signore la Chiesa si rivolge con queste parole: “Vita, dulcedo, et spes nostra”. Impariamo da lei a vivere e morire nella speranza che non delude.
[Papa Benedetto, Angelus 6 novembre 2011]
1. Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo (cfr Gal 6,14).
Le parole di San Paolo ai Galati, che poc'anzi abbiamo ascoltato, ben si addicono all'esperienza umana e spirituale di Teresa Benedetta della Croce, che oggi solennemente viene iscritta nell'albo dei santi. Anche lei può ripetere con l'Apostolo: Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo.
La croce di Cristo! Nella sua costante fioritura l'albero della Croce porta sempre rinnovati frutti di salvezza. Per questo, alla Croce guardano fiduciosi i credenti, traendo dal suo mistero di amore coraggio e vigore per camminare fedeli sulle orme di Cristo crocifisso e risorto. Il messaggio della Croce è così entrato nel cuore di tanti uomini e di tante donne cambiandone l'esistenza.
Un esempio eloquente di questo straordinario rinnovamento interiore è la vicenda spirituale di Edith Stein. Una giovane donna in cerca della verità, grazie al lavorio silenzioso della grazia divina, è diventata una santa ed una martire: è Teresa Benedetta della Croce, che quest'oggi dal cielo ripete a tutti noi le parole che hanno segnato la sua esistenza: "Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce di Gesù Cristo".
2. Il primo maggio 1987, nel corso della mia visita pastorale in Germania, ho avuto la gioia di proclamare Beata, nella città di Colonia, questa generosa testimone della fede. Oggi, a undici anni di distanza, qui a Roma, in Piazza San Pietro, mi è dato di presentare solennemente come Santa davanti a tutto il mondo questa eminente figlia d'Israele e figlia fedele della Chiesa.
Come allora, così quest'oggi ci inchiniamo dinanzi alla memoria di Edith Stein, proclamando l'invitta testimonianza da lei resa durante la vita e soprattutto con la morte. Accanto a Teresa d'Avila ed a Teresa di Lisieux, quest'altra Teresa va a collocarsi fra lo stuolo di santi e sante che fanno onore all'Ordine carmelitano.
Carissimi Fratelli e Sorelle, che siete convenuti per questa solenne celebrazione, rendiamo gloria a Dio per l'opera da lui compiuta in Edith Stein.
3. Saluto i numerosi pellegrini venuti a Roma, con un particolare pensiero per i membri della famiglia Stein, che hanno voluto essere con noi per questa lieta circostanza. Un saluto cordiale va anche alla rappresentanza della Comunità carmelitana, la quale è diventata la "seconda famiglia" per Teresa Benedetta della Croce.
Rivolgo, poi, il mio benvenuto alla delegazione ufficiale della Repubblica Federale di Germania, guidata del Cancelliere Federale uscente, Helmut Kohl, che saluto con deferente cordialità. Saluto, inoltre, i rappresentanti dei Länder Nordrhein-Westfalen e Rheinland-Pfalz, come anche il Primo Sindaco della Città di Colonia.
Anche dalla mia patria è venuta una delegazione ufficiale guidata dal Primo Ministro Jerzy Buzek. Rivolgo ad essa un cordiale saluto.
Una speciale menzione voglio poi riservare ai pellegrini delle diocesi di Breslavia (Wroclaw), di Colonia, Münster, Spira, Kraków e Bielsko-Zywiec, presenti con i loro Vescovi e sacerdoti. Essi si uniscono alla numerosa schiera di fedeli venuti dalla Germania, dagli Stati Uniti d'America e dalla mia patria, la Polonia.
4. Cari Fratelli e Sorelle! Perché ebrea, Edith Stein fu deportata insieme con la sorella Rosa e molti altri ebrei dei Paesi Bassi nel campo di concentramento di Auschwitz, ove insieme con loro trovò la morte nelle camere a gas. Di tutti facciamo oggi memoria con profondo rispetto. Pochi giorni prima della sua deportazione la religiosa, a chi le offriva di fare qualcosa per salvarle la vita, aveva risposto: "Non lo fate! Perché io dovrei essere esclusa? La giustizia non sta forse nel fatto che io non tragga vantaggio dal mio battesimo? Se non posso condividere la sorte dei miei fratelli e sorelle, la mia vita è in un certo senso distrutta".
Nel celebrare d'ora in poi la memoria della nuova Santa, non potremo non ricordare di anno in anno anche la Shoah, quel piano efferato di eliminazione di un popolo, che costò la vita a milioni di fratelli e sorelle ebrei. Il Signore faccia brillare il suo volto su di loro e conceda loro la pace (cfr Nm 6,25 s.).
Per amor di Dio e dell'uomo ancora una volta io levo un grido accorato: mai più si ripeta una simile iniziativa criminale per nessun gruppo etnico, nessun popolo, nessuna razza, in nessun angolo della terra! E' un grido che rivolgo a tutti gli uomini e le donne di buona volontà; a tutti coloro che credono all'eterno e giusto Iddio; a tutti coloro che si sentono uniti in Cristo, Verbo di Dio incarnato. Tutti dobbiamo trovarci in questo solidali: è in gioco la dignità umana. Esiste una sola famiglia umana. Questo ha ribadito la nuova Santa con grande insistenza: "Il nostro amore verso il prossimo - scriveva - è la misura del nostro amore a Dio. Per i cristiani - e non solo per loro - nessuno è «straniero». L'amore di Cristo non conosce frontiere".
5. Cari Fratelli e Sorelle! L'amore di Cristo fu il fuoco che incendiò la vita di Teresa Benedetta della Croce. Prima ancora di rendersene conto, essa ne fu completamente catturata. All'inizio il suo ideale fu la libertà. Per lungo tempo Edith Stein visse l'esperienza della ricerca. La sua mente non si stancò di investigare ed il suo cuore di sperare. Percorse il cammino arduo della filosofia con ardore appassionato ed alla fine fu premiata: conquistò la verità, anzi ne fu conquistata. Scoprì, infatti, che la verità aveva un nome: Gesù Cristo, e da quel momento il Verbo incarnato fu tutto per lei. Guardando da carmelitana a questo periodo della sua vita, scrisse ad una benedettina: "Chi cerca la verità, consapevolmente o inconsapevolmente cerca Dio".
Pur essendo stata educata nella religione ebraica dalla madre, Edith Stein a quattordici anni "si era consapevolmente e di proposito disabituata alla preghiera". Voleva contare solo su se stessa, preoccupata di affermare la propria libertà nelle scelte della vita. Alla fine del lungo cammino le fu dato di giungere ad una constatazione sorprendente: solo chi si lega all'amore di Cristo diventa veramente libero.
L'esperienza di questa donna, che ha affrontato le sfide di un secolo travagliato come il nostro, diventa esemplare per noi: il mondo moderno ostenta la porta allettante del permissivismo, ignorando la porta stretta del discernimento e della rinuncia. Mi rivolgo specialmente a voi, giovani cristiani, in particolare ai numerosi ministranti convenuti in questi giorni a Roma: guardatevi del concepire la vostra vita come una porta aperta a tutte le scelte! Ascoltate la voce del vostro cuore! Non restate alla superficie, ma andate al fondo delle cose! E quando sarà il momento, abbiate il coraggio di decidervi! Il Signore attende che voi mettiate la vostra libertà nelle sue mani misericordiose.
6. Santa Teresa Benedetta della Croce giunse a capire che l'amore di Cristo e la libertà dell'uomo s'intrecciano, perché l'amore e la verità hanno un intrinseco rapporto. La ricerca della verità e la sua traduzione nell'amore non le apparvero in contrasto; essa, anzi, capì che si richiamavano a vicenda.
Nel nostro tempo la verità viene scambiata spesso con l'opinione della maggioranza. Inoltre è diffusa la convinzione che ci si debba servire della verità anche contro l'amore o viceversa. Ma la verità e l'amore hanno bisogno l'una dell'altro. Suor Teresa Benedetta ne è testimone. La "martire per amore", che donò la sua vita per gli amici, non si fece superare da nessuno nell'amore. Allo stesso tempo ella cercò con tutta se stessa la verità, della quale scriveva: "Nessuna opera spirituale viene al mondo senza grandi travagli. Essa sfida sempre l'uomo intero".
Suor Teresa Benedetta della Croce dice a noi tutti: Non accettate nulla come verità che sia privo di amore. E non accettate nulla come amore che sia privo di verità! L'uno senza l'altra diventa una menzogna distruttiva.
7. La nuova Santa ci insegna, infine, che l'amore per Cristo passa attraverso il dolore. Chi ama davvero non si arresta di fronte alla prospettiva della sofferenza: accetta la comunione nel dolore con la persona amata.
Consapevole di ciò che comportava la sua origine ebraica, Edith Stein ebbe al riguardo parole eloquenti: "Sotto la croce ho compreso la sorte del popolo di Dio... Infatti, oggi conosco molto meglio ciò che significa essere la sposa del Signore nel segno della Croce. Ma poiché è un mistero, con la sola ragione non potrà mai essere compreso".
Il mistero della Croce pian piano avvolse tutta la sua vita, fino a spingerla verso l'offerta suprema. Come sposa sulla Croce, Suor Teresa Benedetta non scrisse soltanto pagine profonde sulla "scienza della croce", ma fece fino in fondo il cammino alla scuola della Croce. Molti nostri contemporanei vorrebbero far tacere la Croce. Ma niente è più eloquente della Croce messa a tacere! Il vero messaggio del dolore è una lezione d'amore. L'amore rende fecondo il dolore e il dolore approfondisce l'amore.
Attraverso l'esperienza della Croce, Edith Stein poté aprirsi un varco verso un nuovo incontro col Dio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe, Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Fede e croce le si rivelarono inseparabili. Maturata alla scuola della Croce, ella scoprì le radici alle quali era collegato l'albero della propria vita. Capì che era molto importante per lei "essere figlia del popolo eletto e di appartenere a Cristo non solo spiritualmente, ma anche per un legame di sangue".
8. "Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità" (Gv 4,24).
Carissimi Fratelli e Sorelle, con queste parole il divino Maestro s'intrattenne con la Samaritana presso il pozzo di Giacobbe. Quanto egli donò alla sua occasionale ma attenta interlocutrice lo troviamo presente anche nella vita di Edith Stein, nella sua "salita al Monte Carmelo". La profondità del mistero divino le si rese percettibile nel silenzio della contemplazione. Man mano che, lungo la sua esistenza, essa maturava nella conoscenza di Dio, adorandolo in spirito e verità, sperimentava sempre più chiaramente la sua specifica vocazione a salire sulla Croce con Cristo, ad abbracciarla con serenità e fiducia, ad amarla seguendo le orme del suo diletto Sposo: Santa Teresa Benedetta della Croce ci viene additata oggi come modello a cui ispirarci e come protettrice a cui ricorrere.
Rendiamo grazie a Dio per questo dono. La nuova Santa sia per noi un esempio nel nostro impegno a servizio della libertà, nella nostra ricerca della verità. La sua testimonianza valga a rendere sempre più saldo il ponte della reciproca comprensione tra ebrei e cristiani.
Tu, Santa Teresa Benedetta della Croce, prega per noi! Amen.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia per la canonizzazione di Edith Stein, 11 ottobre 1998]
Mt 25,1-13 ci indica la condizione per entrare nel Regno dei cieli, e lo fa con la parabola delle dieci vergini: si tratta di quelle damigelle che erano incaricate di accogliere e accompagnare lo sposo alla cerimonia delle nozze, e poiché a quel tempo era usanza celebrarle di notte, le damigelle erano dotate di lampade.
La parabola dice che cinque di queste vergini sono sagge e cinque stolte: infatti le sagge hanno portato con sé l’olio per le lampade, mentre le stolte non l’hanno portato. Lo sposo tarda ad arrivare e tutte si addormentano. A mezzanotte viene annunciato l’arrivo dello sposo; allora le vergini stolte si accorgono di non avere l’olio per le lampade, e lo chiedono a quelle sagge. Ma queste rispondono che non possono darlo, perché non basterebbe per tutte. Mentre dunque le stolte vanno in cerca dell’olio, arriva lo sposo; le vergini sagge entrano con lui nella sala del banchetto e la porta viene chiusa. Le cinque stolte ritornano troppo tardi, bussano alla porta, ma la risposta è: «Non vi conosco» (v. 12), e rimangono fuori.
Che cosa vuole insegnarci Gesù con questa parabola? Ci ricorda che dobbiamo tenerci pronti all’incontro con Lui. Molte volte, nel Vangelo, Gesù esorta a vegliare, e lo fa anche alla fine di questo racconto. Dice così: «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (v. 13). Ma con questa parabola ci dice che vegliare non significa soltanto non dormire, ma essere preparati; infatti tutte le vergini dormono prima che arrivi lo sposo, ma al risveglio alcune sono pronte e altre no. Qui sta dunque il significato dell’essere saggi e prudenti: si tratta di non aspettare l’ultimo momento della nostra vita per collaborare con la grazia di Dio, ma di farlo già da adesso. Sarebbe bello pensare un po’: un giorno sarà l’ultimo. Se fosse oggi, come sono preparato, preparata? Ma devo fare questo e questo … Prepararsi come fosse l’ultimo giorno: questo fa bene.
La lampada è il simbolo della fede che illumina la nostra vita, mentre l’olio è il simbolo della carità che alimenta, rende feconda e credibile la luce della fede. La condizione per essere pronti all’incontro con il Signore non è soltanto la fede, ma una vita cristiana ricca di amore e di carità per il prossimo. Se ci lasciamo guidare da ciò che ci appare più comodo, dalla ricerca dei nostri interessi, la nostra vita diventa sterile, incapace di dare vita agli altri, e non accumuliamo nessuna scorta di olio per la lampada della nostra fede; e questa – la fede – si spegnerà al momento della venuta del Signore, o ancora prima. Se invece siamo vigilanti e cerchiamo di compiere il bene, con gesti di amore, di condivisione, di servizio al prossimo in difficoltà, possiamo restare tranquilli mentre attendiamo la venuta dello sposo: il Signore potrà venire in qualunque momento, e anche il sonno della morte non ci spaventa, perché abbiamo la riserva di olio, accumulata con le opere buone di ogni giorno. La fede ispira la carità e la carità custodisce la fede.
La Vergine Maria ci aiuti a rendere la nostra fede sempre più operante per mezzo della carità; perché la nostra lampada possa risplendere già qui, nel cammino terreno, e poi per sempre, alla festa di nozze in paradiso.
[Papa Francesco, Angelus 12 novembre 2017]
The first constitutive element of the group of Twelve is therefore an absolute attachment to Christ: they are people called to "be with him", that is, to follow him leaving everything. The second element is the missionary one, expressed on the model of the very mission of Jesus (Pope John Paul II)
Il primo elemento costitutivo del gruppo dei Dodici è dunque un attaccamento assoluto a Cristo: si tratta di persone chiamate a “essere con lui”, cioè a seguirlo lasciando tutto. Il secondo elemento è quello missionario, espresso sul modello della missione stessa di Gesù (Papa Giovanni Paolo II)
Isn’t the family just what the world needs? Doesn’t it need the love of father and mother, the love between parents and children, between husband and wife? Don’t we need love for life, the joy of life? (Pope Benedict)
Non ha forse il mondo bisogno proprio della famiglia? Non ha forse bisogno dell’amore paterno e materno, dell’amore tra genitori e figli, tra uomo e donna? Non abbiamo noi bisogno dell’amore della vita, bisogno della gioia di vivere? (Papa Benedetto)
Thus in communion with Christ, in a faith that creates charity, the entire Law is fulfilled. We become just by entering into communion with Christ who is Love (Pope Benedict)
Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore (Papa Benedetto)
From a human point of view, he thinks that there should be distance between the sinner and the Holy One. In truth, his very condition as a sinner requires that the Lord not distance Himself from him, in the same way that a doctor cannot distance himself from those who are sick (Pope Francis))
Da un punto di vista umano, pensa che ci debba essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato (Papa Francesco)
The life of the Church in the Third Millennium will certainly not be lacking in new and surprising manifestations of "the feminine genius" (Pope John Paul II)
Il futuro della Chiesa nel terzo millennio non mancherà certo di registrare nuove e mirabili manifestazioni del « genio femminile » (Papa Giovanni Paolo II)
And it is not enough that you belong to the Son of God, but you must be in him, as the members are in their head. All that is in you must be incorporated into him and from him receive life and guidance (Jean Eudes)
E non basta che tu appartenga al Figlio di Dio, ma devi essere in lui, come le membra sono nel loro capo. Tutto ciò che è in te deve essere incorporato in lui e da lui ricevere vita e guida (Giovanni Eudes)
This transition from the 'old' to the 'new' characterises the entire teaching of the 'Prophet' of Nazareth [John Paul II]
Questo passaggio dal “vecchio” al “nuovo” caratterizza l’intero insegnamento del “Profeta” di Nazaret [Giovanni Paolo II]
The Lord does not intend to give a lesson on etiquette or on the hierarchy of the different authorities […] A deeper meaning of this parable also makes us think of the position of the human being in relation to God. The "lowest place" can in fact represent the condition of humanity (Pope Benedict)
Il Signore non intende dare una lezione sul galateo, né sulla gerarchia tra le diverse autorità […] Questa parabola, in un significato più profondo, fa anche pensare alla posizione dell’uomo in rapporto a Dio (Papa Benedetto)
don Giuseppe Nespeca
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