don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Mercoledì, 23 Aprile 2025 09:17

2a Domenica di Pasqua

Seconda Domenica di Pasqua [27 Aprile 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. In questi giorni mentre preghiamo per il nostro papa Francesco partito per la casa del Padre, invochiamo insistentemente la luce dello Spirito Santo sulla Chiesa e in particolare sui cardinali che dovranno eleggere colui che il Signore ha scelto a guida della sua Chiesa dopo papa Francesco. 

 

*Prima Lettura Dagli Atti degli Apostoli (5,12-16) 

Ecco una presentazione della prima comunità cristiana che sembra quasi troppo bella per essere vera (Negli Atti degli Apostoli ci sono quattro riassunti della vita ai primordi della Chiesa At 2,42-47 il più noto e dettagliato; At 4,32-35 sottolinea la comunione dei beni; At 5,12-16 mette in luce i miracoli e la crescita; At 6, 7 sommario breve della diffusione del vangelo). Non dobbiamo però dedurne che tutto era perfetto perché nelle prossime domeniche vedremo ogni sorta di difficoltà: i primi cristiani erano uomini, non superuomini. Perché allora san Luca presenta questo quadro ideale? Perché intende incoraggiare anche noi a camminare nella stessa direzione: una comunità fraterna è condizione indispensabile per l’annuncio e la testimonianza del vangelo. Poiché gli apostoli seguivano il comando di Cristo, Il contagio del vangelo è stato irresistibile: “Sarete miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8) e niente è riuscito a impedire alla Chiesa nascente di svilupparsi. Nota san Luca che “tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone”. Siamo ancora a Gerusalemme, dato che la risurrezione di Cristo è vicina nel tempo, esattamente nel Tempio di Gerusalemme sotto il portico di Salomone (tutto il muro orientale del Tempio era in realtà un colonnato che costeggiava un largo corridoio coperto, luogo di passaggio e di incontro, accessibile a tutti non facendo parte della zona riservata ai soli Giudei). Dopo la morte e risurrezione di Gesù, gli apostoli, essendo e restando giudei, continuavano a frequentare il Tempio. Anzi, la loro fede giudaica si era  rafforzata avendo visto negli eventi pasquali realizzate le promesse dell’Antico Testamento. Solamente dopo e progressivamente avverrà la divisione tra cristiani e i giudei che non riconoscevano Gesù come il Messia, anche se già in questo testo se ne avverte un primo segnale: “nessuno degli altri osava associarsi a loro”, il che ci dice che i cristiani già formavano un gruppo distinto all’interno del popolo giudeo. Luca traccia qui un parallelo con gli inizi della predicazione di Gesù: “Anche la folla dalle città vicine a Gerusalemme accorreva portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti” ; nel vangelo aveva scritto la stessa cosa di Gesù: “Al calar del sole, tutti quelli che avevano malati affetti da varie infermità li conducevano a lui…. anche i demoni uscivano da molti” (Lc 4,40-41). Se insiste sulle guarigioni di Pietro e degli apostoli chiaro è il messaggio: continua l’opera del Messia attraverso gli apostoli e dice alla sua comunità: tocca a voi prendere il testimone degli apostoli perché il Cristo conta su di voi. Ed è interessante costatare che, grazie alla testimonianza degli apostoli, le folle non si univano agli apostoli, ma attraverso gli apostoli, al Signore: “Sempre più, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di di uomini e donne”. Si tratta di un dettaglio importante perché le conversioni non sono opera degli apostoli, ma di Cristo che agisce quando la comunità è formata di persone con “un cuore solo” e “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). San Pietro e gli altri apostoli non si presentavano come superuomini, anzi Pietro dirà a Cornelio, che si era inginocchiato davanti a lui: “Alzati. Anche io sono un uomo.” (At 10,26). Se nelle nostre comunità mancano segni e miracoli non sarà forse un invito a vivere sinceramente nell’amore di Cristo? 

 

*Salmo responsoriale (117 (118), 2-4, 22-24, 25-27a)

Torna il salmo 117 (118) cantato già nella Veglia pasquale e il giorno di Pasqua, e lo troviamo ogni domenica del tempo ordinario nell’Ufficio delle Lodi (Liturgia delle Ore). Per gli ebrei, questo salmo riguarda il Messia; noi cristiani vi riconosciamo il Messia atteso da tutto l’Antico Testamento, il vero re, il vincitore della morte. Come altri salmi anche questo va meditato in un duplice livello: nella prospettiva dell’attesa ebraica del Messia, e alla luce della fede dei convertiti in Cristo risorto. Per gli Ebrei è un salmo di lode che comincia con Alleluia, il cui significato è “lodate Dio” e che dà il tono all’insieme. Si tratta di ventinove versetti dove torna più di trenta volte la parola Signore (le famose quattro lettere del Nome di Dio in ebraico YHWH), o almeno Yah, che ne è la prima sillaba e sono tutte frasi, una vera litania, di lode per la grandezza, l’amore e l’opera di Dio verso il suo popolo. il salmo cantato accompagna un sacrificio di ringraziamento durante la festa delle Capanne, che dura otto giorni in autunno. Il rito più visibile per gli stranieri di questa festa avviene fuori dal Tempio. Durante l’intera settimana tutti abitano in capanne di frasche, le Capanne o Tabernacoli (Sukkot è il nome della festa), facendo memoria delle tende del deserto e dell’ombra protettrice di Dio nell’Esodo. Dentro il Tempio ci sono celebrazioni il cui punto comune è il rinnovamento dell’Alleanza (e durante le quali i pellegrini agitano dei rami anzi un mazzetto, il lulav, composto da una palma, un ramo di mirto, un ramo di salice e un cedro. Si svolge infine una grande processione attorno all’altare con in mano questi mazzi di lulav cantando salmi intervallati da Hosanna, che significa sia «Dio salva» o «Dio, salvaci». Ci sono riti di libagione d’acqua versata presso l’altare (cf Gv 7,37) e nelle sere precedenti l’ultimo giorno una grande illuminazione del cortile delle Donne nel Tempio con quattro candelabri dorati, alimentati con olio e stoppini ricavati da abiti sacerdotali dismessi e la luce così prodotta era così intensa che illuminava tutta Gerusalemme. E’ dunque una festa di fervore e gioia, che anticipa la venuta del Messia: si rende grazie per la salvezza già compiuta e si accoglie la salvezza che porterà il Messia che non tarderà a venire: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”). Quando Gesù si proclama  vera “luce del mondo” (Gv8,2) lo fa probabilmente dopo la conclusione della festa con la memoria viva di quel rito luminoso. Nei versetti scelti per l’odierna liturgia mancano tutti gli elementi della festa delle Capanne, ma non la gioia nei cuori dei credenti: “Questo è il giorno che ha fatto il Signore:, rallegriamoci in esso ed esultiamo …Dica Israele: Il suo amore è per sempre” . Per narrare la bontà del Signore lungo tutta la storia d’Israele, il salmo narra di un re che dopo una guerra spietata ha vinto e ringrazia Dio per averlo sostenuto: “Mi hanno spinto, mi hanno urtato per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto” (v.13), “Tutte le nazioni mi hanno circondato: nel nome del Signorele ho distrutte” (v.10), e ancora: “Non morirò, ma vivrò e annuncerò le opere del Signore” (v.17). In realtà, nella storia di questo re è narrata quella Israele che lungo la sua storia ha sfiorato l’annientamento ma il Signore l’ha risollevato, e ora canta nella festa delle Capanne: “Non morirò, ma vivrò e annuncerò le opere del Signore”. Israele sa di dover testimoniare le opere del Signore e da questa consapevolezza ha attinto la forza per sopravvivere a tutte le sue prove. La festa ebraica delle Capanne per noi cristiani trova un’eco nell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, la domenica delle Palme, ma soprattutto l’esultanza di questo salmo si addice al Risorto che gli evangelisti, ciascuno a suo modo, hanno presentato come il vero re (Matteo nella visita dei Magi, Giovanni, nel racconto della Passione). Meditando il mistero del Messia rifiutato e crocifisso, gli apostoli hanno scoperto un nuovo senso in questo salmo: Gesù è veramente “colui che viene nel nome del Signore”, pietra scartata dai costruttori, rifiutato dal suo popolo, Cristo è la pietra angolare di fondazione del nuovo Israele. Questo salmo era cantato a Gerusalemme in occasione di un sacrificio di ringraziamento e Gesù ha appena compiuto il sacrificio di ringraziamento per eccellenza: Egli è il nuovo Israele che rende grazie al Padre in un’eterna azione di grazie, iinaugurando tra Dio e l’umanità la nuova Alleanza in cui l’umanità è risposta d’amore all’amore del Padre.

Nota  La pietra angolare: su questa espressione, vedi il commento al salmo 117 (118) per la domenica di Pasqua.

 

*Seconda Lettura Dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (1, 9-11a.12-13.17-19)

Per sei domeniche consecutive leggeremo come seconda lettura brani dell’Apocalisse, una grande opportunità per familiarizzare con uno dei libri più affascinanti del Nuovo Testamento, apparentemente difficile e bisognoso d’un certo sforzo. “Apocalisse” significa rivelazione, svelamento nel senso di togliere un velo e Giovanni rivela il mistero della storia nascosto ai nostri occhi e poiché deve mostrarci ciò che non vediamo, il libro ci parla con delle visioni («vedere» o «guardare» è usato cinque volte solo nel brano di oggi). Nel comune sentire Apocalisse è sinonimo di catastrofe, pessimo fraintendimento, perché l’Apocalisse come l’intera Bibbia è una Buona Notizia. Nel loro genere letterario, le apocalissi, come l’intera Bibbia, comunicano l’amore di Dio e la vittoria definitiva dell’amore su ogni male. Per noi, che viviamo in un contesto culturale diverso, ci resta quasi impossibile percepire perché questo linguaggio simbolico e capire a chi l’autore si rivolge. In realtà egli usa il linguaggio delle visioni perché tutti i libri dello stesso genere sono nati in un periodo di forte persecuzione dei cristiani (tra il II secolo a.C. e il II secolo d.C. sono state scritte diverse apocalisse da autori diversi). Lo fa capire san Giovanni: “Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù”. A Patmos era in esilio, non in vacanza ed essendo in piena persecuzione, questo testo circolava di nascosto per confortare le comunità. Tema principale è la vittoria finale di coloro che erano oppressi: vi perseguitano e i vostri persecutori prosperano, ma non perdete coraggio perché Cristo ha vinto il mondo. Le forze del male non possono nulla contro di voi essendo già sconfitte e il vero re è Cristo. Giovanni l’afferma all’inizio: “Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù”. Per evitare che i persecutori capiscano si raccontano storie di altri tempi usando visioni fantasiose in modo da scoraggiare la lettura da parte dei non iniziati. Ad esempio, san Giovanni presenta malissimo Babilonia, che definisce la grande prostituta, ma si capisce che parla di Roma. Insomma, il messaggio di ogni Apocalisse è che le forze del male non prevarranno mai. Nell’odierna lettura la vittoria di Cristo è mostrata in questa visione grandiosa: è domenica, giorno del Signore,  rapito dallo Spirito Giovanni sente una voce potente come una tromba, e fra sette candelabri d’oro gli appare un essere di luce, un “figlio d’uomo”. Figlio dell’uomo è nel Nuovo Testamento un’espressione usata per indicare il Messia, il Cristo. Lui cade ai suoi piedi mentre lo ascolta: “Non temere! Io sono (cioè il nome stesso di Dio YHWH) il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo… e ho le chiavi della morte e degli inferi.”.  Si tratta di una visione che è per il servizio dei fratelli: “Scrivi le cose che hai visto”, cioè incoraggiali e sappi che passato, presente e futuro mi appartengono. Percepiamo qui la promessa di Cristo: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà (Gv 11,25).

 

Nota: Gli esegeti concordano nel ritenere Giovanni l’autore dell’Apocalisse scritta sotto il regno dell’imperatore Domiziano (81-96) anche se quest’imperatore non ha organizzato una persecuzione sistematica dei cristiani. La comunità di Giovanni vive però in un clima di insicurezza: egli stesso è esiliato e, nel corso del libro, si fa menzione di martiri. I cristiani si confrontano con le esigenze del culto imperiale promosso da Domiziano, e sembra che alcuni governatori locali abbiano mostrato particolare zelo. Inoltre, i cristiani incontrano l’opposizione dei Giudei rimasti ostili al cristianesimo. Questo sembra emergere anche dalle lettere alle sette Chiese. Ci sono inoltre altri esempi di Apocalissi. Nell’Antico Testamento, il libro di Daniele contiene un messaggio apocalittico scritto intorno al 165 a.C. da Daniele per incoraggiare i suoi fratelli perseguitati dal re greco Antioco Epifane. Anche lui non attacca direttamente il problema, ma narra le gesta eroiche di alcuni ebrei fedeli durante la persecuzione di Nabucodonosor, quattro secoli prima (VI secolo a.C.). Solo in apparenza è una lezione di storia ma per chi sa leggere tra le righe il messaggio è chiaro. Ecco infine un esempio di Apocalisse nella storia recente: al tempo del dominio russo sulla Cecoslovacchia, una giovane attrice ceca compose e rappresentò più volte nel suo Paese un dramma su Giovanna d’Arco: evidentemente, la storia di Giovanna che caccia gli Inglesi dalla Francia nel XV secolo non era la prima preoccupazione dei Cechi; e se lo scenario fosse finito nelle mani del potere occupante, non avrebbe compromesso nessuno. Ma per chi sapeva leggere tra le righe, il messaggio era evidente: quello che ha saputo fare una giovane ragazza di diciannove anni, con l’aiuto di Dio, possiamo farlo anche noi.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (20,19-31)  

“Shalom, pace a voi!” Questa è la prima parola che pronuncia Gesù risorto. I discepoli ricordavano l’ultima sua frase sulla croce: “Tutto è compiuto”, che chiude il racconto della Passione nel quarto vangelo (Gv 19,30). L’evangelista in quel momento comprese che il progetto di Dio era del tutto compiuto e con questa evidenza ci narra ora questa prima apparizione. Gerusalemme, nel nome stesso Yerushalaïm, porta la parola ebraica shalom e proprio qui Gesù annuncia e dona, cioè rende efficace, la sua pace: Shalom! Li saluta così per ben due volte e, ormai riconosciuto con Dio, questa parola non è un augurio, ma dono già realizzato: dicendo pace la dona e la compie.  È sempre urgente credere che Cristo risorgendo ci ha portato la pace anche se le situazioni concrete mostrano un mondo segnato da odio, violenza e guerre. Questo perché la pace c’è già ma non arriva con un colpo di bacchetta magica: deve nascere anzitutto nel cuore dei credenti e poi diffondersi attraverso la gioia che ebbero i discepoli “al vedere il Signore”. Gesù risorto appare sempre “il primo giorno della settimana” tanto che per i cristiani, questo giorno è diventato il primo giorno dei tempi nuovi. La settimana di sette giorni ricordava ai Giudei i sette giorni della creazione, mentre la nuova settimana legata alla risurrezione di Cristo è l’inizio della nuova creazione. Per questo, quando l’evangelista parla del primo giorno della settimana non fornisce solo una precisione cronologica, ma invita a capire che la domenica, dal latino dies dominicus, è giorno consacrato a Dio, giorno della nuova creazione nel quale il progetto della salvezza è compiuto. Proprio nel primo giorno della settimana, come aveva annunciato il profeta Ezechiele: “Metterò in voi il mio stesso Spirito”, Gesù “soffiò” sui discepoli e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”. Giovanni riprende volutamente il termine che troviamo in Genesi ( 2,7): (Dio insufflò nelle narici dell’uomo  plasmato con polvere  “un alito di vita”(nėšāmāh legato a rûah; in greco pnoē) e divenne essere vivente) e inaugura la nuova creazione insufflando sugli apostoli il suo Spirito (pneûma hágion), “il primo dono fatto ai credenti”, come ricorda la quarta preghiera eucaristica. Nella Bibbia lo Spirito è sempre dato per una missione e anche Gesù manda i discepoli ad annunciare al mondo l’unica indispensabile verità: Dio è Misericordia. Missione urgente perché l’uomo muore se non conosce la verità, come dice Gesù: “chi commette il peccato è schiavo del peccato” (Gv 8,34) perché non conosce l’amore di Dio. Non c’è altra missione che riconciliare gli uomini con Dio: tutto il resto deriva da questo. “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati”, potremmo tradurlo così: annunciate che i peccati sono perdonati e siate ambasciatori della riconciliazione universale. La missione che il Padre vi affida è urgente e indispensabile e se non andate, la novità della riconciliazione non sarà annunciata. In questo contesto la frase: “a coloro a cui non perdonerete non saranno perdonati”, potrebbe comprendersi in questo senso: se voi non portate i vostri fratelli a conoscere l’amore di Dio (se non perdonerete) loro vivranno fuori del suo amore (non saranno perdonati).   Quanta fiducia e quale responsabilità! Il progetto di Dio sarà definitivamente compiuto solo quando noi, a nostra volta, avremo compiuto la nostra missione: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Il primo peccato, che è alla radice di tutti gli altri, è non credere all’amore di Dio: perciò, vi mando, muovetevi senza indugio per annunciare a tutti  l’amore di Dio’.

Nota “Quel giorno, il primo giorno della settimana”: nella lettura ebraica del racconto della Creazione, questo primo giorno era chiamato «Giorno UNO» nel senso di «primo giorno» ma anche «giorno unico», perché in un certo senso racchiudeva tutti gli altri, come la prima spiga del raccolto annuncia tutta la mietitura… E il popolo ebraico attende ancora il Giorno Nuovo che sarà il giorno di Dio, quando rinnoverà la prima Creazione.

 

Oggi, Domenica della Divina Misericordia, vi propongo una preghiera che prendo dal libro del Santuario Santissima Trinità Misericordia di Maccio (Como). La Santissima Trinità è Misericordia infinita

“Santissima Trinità, Misericordia infinita, Misericordia, Luce imperscrutabile del Padre che crea; Misericordia, Volto e Parola del Figlio che si dona; Misericordia, Fuoco penetrante nello Spirito che dà vita; Santissima Trinità, Misericordia che salva nel dono unico del Trino suo essere, io confido e spero in te! Tu, che ti sei donata a noi, fa’ che noi ci doniamo tutti a te! Rendici testimoni del tuo Amore in Cristo nostro Redentore, fratello e nostro Re! Santissima Trinità, io confido in te!”

+Giovanni D’Ercole

Domenica, 20 Aprile 2025 19:51

Anche noi vogliamo «VederLo»

Domenica, 13 Aprile 2025 20:43

Triduo: Giovedì, Venerdì, Veglia di Pasqua

Triduo: Giovedì, Venerdì, Veglia di Pasqua

GIOVEDÌ SANTO [17 aprile 2025]

 

Carissimi Invio un testo per meditare il mistero del Giovedì sacerdotale, uno per contemplare il dono della Croce mistero di passione e di gloria per il Venerdì santo, e una nota che può interessare sulla Veglia pasquale di cui sarebbe importante recuperare il senso e valore teologico e pastorale.

Piuttosto che fornire come di consueto un commento per ogni lettura biblica, preferisco proporre una meditazione su Gesù che lava i piedi ai discepoli perché è un gesto che ci introduce nel cuore del mistero del Giovedì Santo. 

 

1. Eucaristia dono e servizio di amore

Punto di partenza è questo testo di sant’Agostino: “Surge et ambula: homo Christus tua vita est, Deus Christus patria tua est. Alzati e cammina: l’uomo Cristo è la tua vita, Cristo Dio è la tua patria (sant. Agostino, Discorso 375c)

Il quarto vangelo non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, ma approfondisce la testimonianza dei sinottici precisando che cosa Cristo voleva donarci nel mistero-sacramento eucaristico. Al posto delle parole dell’istituzione l’evangelista pone il racconto della lavanda dei piedi per indicare il senso e lo scopo del mistero eucaristico che è vivere nell’amore reciproco sull’esempio di Gesù. La lavanda dei piedi non sostituisce quindi il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia fatta da Matteo, Marco e Luca, ma intende presentarla come dono e servizio d’amore. Benedetto XVI invita a non fermarsi sulle differenze dei vangeli quando narrano l’ultima Cena: “per Giovanni, è Cena d’addio mentre per i sinottici è Cena Pasquale”. Scrive infatti che una cosa è evidente nell’intera tradizione: l’essenziale di questa cena di congedo non è stata l’antica Pasqua, ma Gesù ha rivelato in questo contesto la novità della sua Pasqua. Anche se il convito con gli apostoli non è stato una Cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la stretta connessione con la morte e la risurrezione di Cristo. Era la Pasqua di Gesù nella quale ha donato sé stesso e così ha veramente celebrato con loro la Pasqua. In questo modo non è stato negato l’antico, ma l’ha condotto al suo pieno compimento (cf. Gesù di Nazaret, II, p. 130). L’essenziale è fare costante memoria che quella sera Gesù celebrò la sua, la vera Pasqua. Ci aiuta a meglio focalizzare questa verità la liturgia con la sequenza “Lauda Sion” composta da san Tommaso d’Aquino in occasione della festa del Corpus Domini nel 1264: “Novae cenae novus rex, novae paschae novus lex, vetus transit observantia. La prima santa Cena è il banchetto del nuovo Re, nuova Pasqua, nuova legge e l’antico è giunto al termine”. Prosegue poi la sequenza: “Quod in cena Christus gessit - faciendum hoc espressit - in sui memoriam. Cristo lascia in sua memoria ciò che ha fatto nella cena - noi lo rinnoviamo”.

 

2. La forza dirompente della nuova Pasqua

La lavanda dei piedi ci aiuta proprio a comprendere la forza dirompente della “nuova Pasqua”. “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1).  Terminata la vita pubblica, Gesù lascia ai suoi avversari la “Pasqua dei giudei” e si prepara a celebrare la “sua” Pasqua con pochi prescelti e fra gli apostoli c’è il traditore. Che momento di grande sofferenza! Eppure Giovanni presenta quest’ora colma di dolore e tragicità come il momento atteso da Cristo, come “l’ora della gloria”. Scrive ancora Benedetto XVI che ciò che costituisce il contenuto di questa ora, Giovanni lo descrive con due parole: passaggio (metàbasis) ed amore (agàpe). Due parole che si interpretano e spiegano a vicenda; ambedue descrivono insieme la Pasqua di Gesù: croce e risurrezione, crocifissione come elevazione, come “passaggio” alla gloria di Dio, come un “passare” dal mondo al Padre. Il passaggio è una trasformazione perché Cristo reca con sé la sua carne, il suo essere uomo. Donando sé stesso sulla croce la trasforma, trasforma l’uccisione in dono d’amore sino al colmo, fino alla fine. Con questa espressione “sino alla fine” Giovanni rimanda in anticipo all’ultima parola di Gesù sulla croce: tutto è stato portato a termine, “è compiuto” (Gv 19, 30). Mediante il suo amore la croce, strumento di morte, diventa metabasis, trasformazione dell’essere uomo nell’essere partecipe della gloria di Dio. In questa trasformazione siamo tutti coinvolti e anche la nostra vita diventa “passaggio”, trasformazione.

Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto (cf Gv 13, 2-5). Con piena consapevolezza il Signore si accinge a compiere il grande e umile gesto della lavanda dei piedi. Sull’ultima Cena Giovanni non fornisce molti particolari, annota soltanto mentre cenavano, che è anche traducibile con “quando la cena era pronta”, oppure: “terminata la cena”. L’evangelista non è molto interessato ai dettagli di quel pasto e preferisce sorprenderci con la scelta inaspettata di Gesù. L’interruzione della cena per lavare i piedi è un fatto che disturba e stimola a riflettere per cercare le ragioni di tale scelta. 

 

2. Otto verbi per capire questo rito inusuale e imprevisto

La nostra attenzione è provocata a capire quel suo gesto meditando anche sulla sua minuziosa descrizione compiuta con ben otto verbi: “si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano, se lo cinse attorno alla vita, versò dell’acqua nel catino, cominciò a lavare i piedi, li asciugò, riprese le vesti” dopo di che si siede di nuovo pronto a spiegarne il significato. San Giovanni accumula i verbi senza ripetersi perché il gesto di Gesù rimanga impresso nella mente del lettore dato che intende mostrare che il vero amore si traduce sempre in azioni concrete di gratuito servizio. Ecco allora Gesù che si spoglia e si cinge di un grembiule ricordandoci ciò che leggiamo in san Luca: “Ecco io sto in mezzo voi come uno che serve” (22,27). Il deporre le vesti esprime simbolicamente anche l’imminente dono della vita. Facendo questo vuole coinvolgere, partendo da Pietro, tutti i discepoli e anche ciascun credente: quindi anche noi.

A una prima valutazione questo rito inusuale e imprevisto appare come un invito a lasciarci purificare sempre e di nuovo dall’acqua fresca e salutare della sua parola e del suo amore. Si tratta di un “segno” autorevole perché il gesto e le parole sono sostanziate dal dono di sé stesso fin oltre la morte. Poche ore dopo infatti mentre ormai esanime giace in croce, il colpo di lancia di un soldato farà uscire dal suo costato sangue insieme ad acqua (cf Gv19,34) mostrando il suo corpo trafitto quale dono totale oltre la morte. Le parole di Cristo sono molto più di una semplice comunicazione; sono piuttosto carne e sangue per la vita del mondo poiché Gesù stesso è il Verbo fatto carne (Gv1,14) e la sua parola è vita che si dona, presenza reale, pane che fa vivere. In ogni sacramento celebrato in fedeltà alla sua parola, Cristo s’inginocchia e purifica la nostra vita.

 

3. L’opera di Dio a favore dell’uomo parte dal basso

Nel lavare i piedi Gesù presenta il servizio vicendevole, ispirato dall’amore, come il tramite indispensabile per mantener viva la sua presenza nella nuova Comunità nella quale i discepoli avranno il compito di creare condizioni di libertà e di uguaglianza, ponendosi ognuno a servizio dell’altro. L’opera di Dio a favore dell’uomo non viene dall’alto come un’elemosina, ma parte dal basso per innalzare l’uomo al livello divino. Così fa Gesù, Il leader indiscusso, che abbandona il suo ruolo per mettersi al disotto dei suoi discepoli: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo diventando simile agli uomini” (Fil 2,6-7). Svuotò sé stesso (ekenosen): Cristo si è spogliato volontariamente della sua gloria divina per farsi servo, per entrare nella condizione umana con umiltà, debolezza e vulnerabilità, “obbediente fino alla morte”. 

Non facciamo fatica a capire Pietro che è disorientato, incapace di accettare quanto il Signore sta compiendo, anzi lo rifiuta del tutto. “Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!” (Gv 13,6-9). Pietro esprime perfettamente l’atteggiamento degli Undici che, dopo essere stati con lui per anni, pensano di conoscere tutto di Gesù. Pietro però, probabilmente interpretando il pensiero degli altri, non sa ancora dove il Maestro vuole arrivare amando “sino alla fine” e per questo Gesù gli ribadisce l’importanza del gesto perché tutti comprendano: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Nella sua azione educativa il divino Maestro prima insegna con i fatti, poi spiega a parole. Anzi, in verità, non spiega o spiega molto poco procedendo per affermazioni; non condanna, ma fa capire quanto è perdente chi pensa ed agisce come Pietro che non vuole lasciarsi lavare i piedi e quindi non avrà parte con lui.  Che dramma essere separati da Colui che ti ama “fino alla fine”!

Gesù però è paziente nell’attesa, sa che può essere lungo il tempo necessario per comprendere e mettere in pratica il suo vangelo. Osservando come educa Pietro possiamo imparare ad agire come lui desidera, restando alla sua scuola da discepoli umili e fedeli.

 

4. L’esempio di Cristo fonda e accompagna la nostra azione educativa

La lavanda dei piedi è per noi il modello da ben intteriorizzre e mettere in pratica. Questo perché siamo in presenza di un sacramentum che è al tempo stesso exemplum. Sacramentum cioè mistero di Cristo e forza che ci trasforma in una nuova forma di essere, rinvigorendoci con energia di vita nuova. Exemplum perché Cristo resta colui che si dona e sempre continuamente ci precede. La radice dell’etica cristiana non sta anzitutto nella nostra capacità morale, ma nel dono di Dio a noi. Sta nel dono gratuito di Dio la ragione per la quale l’atto centrale del nostro essere cristiani è l’Eucaristia: cioè gratitudine infinita per la vita nuova che la Santissima Trinità ci comunica con la  morte e risurrezione di Cristo. Ne consegue che il Mandatum Novum consiste nell’amare insieme a colui che ci ha amati per primo e mai prescindendo da questa verità. Come per Pietro, anche a ognuno di noi tocca imparare che la grandezza di Dio è diversa dalla nostra immagine di grandezza e che essa consiste proprio nel discendere, nell’umiltà del servizio, nella radicalità dell’amore fino alla totale spoliazione del proprio io. E questo va sempre di nuovo ribadito perché siamo costantemente tentati di cercare il Dio del potere e del successo, o addirittura dei compromessi, e non quello della Passione. E’ sempre faticoso e difficile, come osservava Benedetto XVI, rendersi conto che il Pastore viene come un Agnello immolato che si dona e, con questo stile, ci conduce al pascolo giusto.

Giovanni Papini, uno scrittore convertito del XX secolo, nella sua geniale e dallo stile vibrante e viscerale  “Vita di Cristo” mette in luce un collegamento tra la lavanda dei piedi e la missione degli apostoli. Egli scrive: «Gli Undici, al di là della sorda natura, avevano qualche diritto al beneficio della lavanda. Per settimane di mesi quei piedi avevano camminato le polverose, le fangose, le merdose strade della Giudea per seguire colui che dava la vita. E dopo la sua morte dovranno camminare, anni ed anni, su strade più lunghe, più malnote, in paesi de’ quali non sanno, oggi, neppure il nome. E la mota straniera lorderà, attraverso i calzari, i piedi di coloro che andranno, come pellegrini e forestieri a ripeter la chiamata del Crocifisso». Probabilmente Papini si collega ad Agostino che in modo più elegante e pacato, aveva presentato la lavanda dei piedi come un diritto e una necessità per tutti gli evangelizzatori. Per Agostino la lavanda, oltre ad essere un gesto esemplare per educare i discepoli, è anche un aiuto per gli apostoli nel loro compito di evangelizzatori. Scrive in proposito: «Quando noi, chiesa, annunciamo il vangelo, o Cristo, camminiamo sulla terra e ci sporchiamo i piedi per venire ad aprirti la porta [per farti entrare nel cuore delle persone che ci hai affidate]. Quando ti predichiamo, camminiamo con i piedi in terra per venire ad aprirti la porta. Lava i nostri piedi che...si sono sporcati camminando sulla terra per venire ad aprirti» (Omelia 57 su Gv).

 

5. Il Giovedì Santo occasione per purificare il servizio sacerdotale

In definitiva per noi sacerdoti il Giovedì Santo è occasione quanto mai propizia per domandare a Gesù di purificare il nostro servizio sacerdotale. Alla fine di faticose giornate di lavoro apostolico ci accorgiamo di esserci “sporcati i piedi” per aver dato troppa importanza a noi stessi così da rendere più difficile l’incontro di Cristo con le persone. Sentiamo risuonare in noi le sue parole: “Vi ho dato l’esempio perché come (kathòs) ho fatto io, facciate anche voi” (Gv13,13). Kathòs si può tradurre come, ma qui ha un significato speciale: indica un’azione che produce un effetto voluto ed è come se Gesù dicesse: facendo questo io rendo possibile anche a voi di agire come me nel servire i fratelli. Mentre i sinottici hanno trasmesso il suo comando “Fate questo in memoria di me”, riferendosi al gesto della “consacrazione” (Lc22,19; Mt26,26; Mc14,22), Giovanni ricorda che la nuova comunità dei suoi discepoli dovrà rendere presente il suo Signore anche nel servizio reciproco oltre che nel culto eucaristico: “Sapendo queste cose siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,17). Nel quarto vangelo troviamo scritte soltanto due beatitudini: questa è la prima rivolta direttamente agli apostoli presenti; l’altra sarà proclamata otto giorni dopo la risurrezione e riguarda specialmente i futuri discepoli: “Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno” (Gv 20, 29). Entrambe sono necessarie soprattutto per noi, sacerdoti, scelti da lui per proseguirne la missione: saremo beati solo se uniremo la pratica della carità alla saldezza della fede. 

In sintesi, il gesto di Cristo della lavanda dei piedi mostra in maniera visibile che l'amore deve tradursi in accoglienza fraterna, ospitalità e perdono conservando sempre lo stile e lo spirito del servizio da lui affidato agli apostoli, un ministero d’amore umile, gratuito fondato sempre su di lui. In definitiva si tratta di una vocazione a “lavare i piedi” nel cuore del mondo. 

Origene, vissuto tra il 185 e il 253/254, Padre della Chiesa di lingua greca, maestro di teologia spirituale e allegorica scrive in una sua omelia: «Gesù, vieni, ho i piedi sporchi. Per me fatti servo, versa l'acqua nel bacile; vieni, lavami i piedi. Lo so, è temerario quel che ti dico, ma temo la minaccia delle tue parole: Se non ti laverò, non avrai parte con me. Lavami dunque i piedi, perché abbia parte con te» (Omelia 5 su Isaia). E sant’Ambrogio, vescovo di Milano (339-397) e uno dei più importanti Padri della Chiesa latina, teologo dal taglio pastorale e spirituale, c’insegna a pregare così: «O mio signore Gesù, lasciami lavare i tuoi sacri piedi; te li sei sporcati da quando cammini nella mia anima... Ma dove prenderò l'acqua della fonte per lavarti i piedi? In mancanza di essa mi restano gli occhi per piangere: bagnando i tuoi piedi con le mie lacrime, fa' che io stesso rimanga purificato» (La penitenza, II, cap. 7). Infine, Jacques Dupont, monaco certosino, priore della certosa di Serra san Bruno e procuratore generale dell’ordine certosino (1993-2014), morto il 13 gennaio 2019 osserva: «Solo chi accetta di farsi lavare i piedi può farlo ad un altro senza atteggiamento di superiorità».

 

 

VENERDÌ SANTO [18 Aprile 2025]

Per quest’oggi ecco una riflessione su “La croce, unica speranza del mondo” 

1. Cronaca di una morte violenta

Ogni Venerdì Santo la liturgia ripropone la proclamazione della Passione di Cristo secondo san Giovanni. A ben vedere è in ultima analisi la cronaca di una morte violenta ed episodi del genere, all’epoca come a oggi, fanno parte della cronaca quotidiana. Uccisioni di criminali, persone vittime di attentati, gente innocente colpita da disgrazie, incidenti d’auto o sul lavoro con perdite di vite umane, disastri creati da calamità naturali come il recente devastante sisma in Myanmar, uno dei più forti registrati nel paese in oltre un secolo, persone uccise a causa della loro fede. Sono tutte notizie che si susseguono rapidamente e durano poco nel panorama rapido quotidiano della pubblica opinione. Al contrario la crocifissione di Gesù di Nazaret, avvenuta oltre due millenni fa, continua ad essere un evento vivo come se avviene oggi e questo perché la sua morte ha cambiato per sempre il volto della morte; anzi ha dato un nuovo significato e senso alla morte. Vale la pena allora fermarsi a meditare su questa morte che ha vinto per sempre la morte.

 

2. Dal tempio distrutto sgorga sangue e acqua

Un giorno Gesù a Gerusalemme, rispondendo a chi chiedeva con quale autorità cacciasse i mercanti dal tempio, rispose: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2, 19. 21), commenta l’evangelista Giovanni, ma i suoi interlocutori non capirono. Era in verità un segno anticipatore d’un altro evento che nel racconto della passione di Giovanni trova piena comprensione. A crocifissione compiuta, vedendo che era già morto, non spezzarono le gambe a Gesù come agli altri due crocifissi, ma “uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco e subito uscì sangue e acqua” (Gv19, 32-34). Si coglie qui il riferimento alla profezia di Ezechiele che parlava del futuro tempio di Dio, dal fianco del quale sgorga un filo d’acqua che diventa un ruscello, quindi un fiume navigabile e intorno a cui fiorisce ogni forma di vita (cf. Ez 47, 1 ss.). Quel tempio “distrutto” da cui sgorgano acqua e sangue è il cuore di Cristo trafitto, sorgente di un “fiume di acqua viva” (Gv 7, 38). Il cuore di Cristo già morto è vivo perché ha vinto la morte; il Cristo risorto dalla morte è vivo e anche il suo cuore vive in una nuova dimensione non fisica ma mistica. Facile pure il rimando all'Agnello che vive in cielo “immolato, ma in piedi” di cui parla l’Apocalisse (5, 6). Cristo è l’Agnello di Dio che si è sacrificato, ma ora vive risorto e glorificato “in piedi come immolato”. Il suo cuore trafitto é vivente, anzi “eternamente trafitto, proprio perché eternamente vivente”. In ogni Venerdì Santo, a conclusione della celebrazione della Passione di Cristo, dopo il suo “consummatum est - è compiuto” Gesù chinato il capo consegna lo spirito (Gv19,30). L’espressione “Consummatum est” (dal greco Τετέλεσται, Tetélestai) è densa di significato: è il compimento totale della missione di Gesù che ha portato a termine l’opera affidatagli dal Padre, realizzando le Scritture e il piano della salvezza.

 

3. Cristo consegna lo spirito 

L’espressione latina “tradidit spiritum” (Gv19, 30) nella versione greca originale del Nuovo Testamento in greco koinè “παρέδωκεν τ πνεμα” (parédōken tò pneûma) significa “egli consegnò”, “egli affidò”. È il verbo παραδίδωμι, che implica un atto volontario di consegna, mentre τ πνεμα (tò pneûma) = “lo spirito” può significare sia il respiro vitale sia, in senso più profondo, lo Spirito Santo. Tutto ciò si compie perché Gesù offre la sua vita liberamente per la salvezza dell’intera umanità. Da qui ha origine la saldezza della speranza dei cristiani che non teme ostacolo e resiste a ogni contrasto da allora fino alla fine del mondo: nonostante l’ammassarsi nel cuore degli uomini e nelle strutture nel mondo una mole crescente del male che fa sembrare l’umanità abitata da un “cuore di tenebra”, il sacrifico di Cristo fa palpitare nell’universo un cuore vivo di luce: il suo Cuore. “Ora si compie il disegno del Padre –dice un’antifona della Liturgia delle ore -, fare di Cristo il cuore del mondo”: proprio da questa certezza prende vigore l’ottimismo di noi cristiani. Illuminati dalla parola di Dio scrutiamo la realtà con il metro della saggezza dello Spirito e, certi della vittoria di Cristo, possiamo proclamare con la beata Giuliana di Norwich: “Il peccato è inevitabile, ma tutto sarà bene e tutto sarà bene e ogni specie di cosa sarà bene” (Giuliana di Norwich).

 

4. Stat crux dum volvitur orbis. “La Croce sta salda mentre il mondo gira”

I monaci certosini hanno adottato uno stemma che figura all’ingresso dei loro monasteri, come nei loro documenti ufficiali. In questo stemma è disegnato il globo terrestre, sormontato da una croce e contornato da questa frase: “Stat crux dum volvitur orbis”: resta immobile la croce tra gli sconvolgimenti del mondo. L’affermazione “Stat crux dum volvitur orbis” contiene una verità spirituale confortante: in mezzo al vortice del tempo, del caos, dell’instabilità del mondo, la Croce rimane l’unico punto fermo, l’asse attorno al quale ruota tutto. La Croce è veramente come l’albero maestro della nave nella tempesta del mondo e diversi autori cristiani hanno usato immagini navali proprio parlando della Croce: San Colombano (VI-VII sec.) scriveva: “Il mondo è come un mare in tempesta: se vuoi arrivare al porto, attacca il tuo sguardo al legno della Croce.” Origene (III sec.) commentando l’Arca di Noè, vede in essa un’immagine della salvezza e della Chiesa, e nel legno un riferimento alla Croce. Chi vi si aggrappa, non affonda nel diluvio del mondo. Sant’Ambrogio nella sua esegesi della vicenda di Noè e della traversata del Mar Rosso, parla della Croce come timone e vela della Chiesa: è la Croce che guida, orienta. In verità l’albero maestro, la struttura centrale che sostiene la vela di una nave, è figura perfetta della Croce perché tiene insieme la nave della vita: permette orientamento anche nella burrasca; essendo verticale, unisce terra e cielo e porta la vela dello Spirito, che soffia dove vuole (cf. Gv 3,8). “Stat Crux, dum volvitur orbis” ci ricorda che la Croce non è un simbolo di sconfitta, ma di stabilità, direzione e speranza. Anche se tutto gira, anche se la vita è scossa dalle onde, la Croce è il centro fermo del mondo, l’asse del senso  di tutta la storia. Lo scrittore giapponese Shusaku Endõ, nel suo romanzo “Silenzio “(Chinmoku, 1966), ambientato nel contesto delle persecuzioni del XVI secolo, mostra la croce come paradosso vivente: strumento di morte, ma anche emblema di salvezza e di pace. La Croce di Cristo è il “No” definitivo e irreversibile di Dio alla violenza, all’ingiustizia, all’odio, alla menzogna, a tutto ciò che chiamiamo “il male”. Al tempo stesso è il “Si” totale e irreversibile all’amore, alla verità, al bene. “No” chiaro al peccato e “Si” al peccatore: questo è lo stile della vita e dell’azione di Gesù durante tutta la sua vita e che ora consacra definitivamente con la sua morte. Di tutto ciò è dimostrazione vivente il buon ladrone, a cui Gesù morente promette il paradiso. Bisogna aver sempre chiara questa distinzione: il peccatore è creatura di Dio e conserva la sua dignità, nonostante tutti i propri traviamenti, mentre il peccato è frutto delle passioni e istinti e della “invidia del demonio” (Sap 2, 24) e per questo incarnandosi, il Verbo ha assunto tutto dell’uomo, eccetto il peccato. Davanti al Cristo crocifisso tutti, ma veramente tutti anche i più disperati, possono recuperare la fiducia e nessuno dica come Caino: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere il perdono” (Gen 4, 13). La croce di Cristo non “sta” contro il mondo, ma per il mondo: dà senso e persino valore a ogni tipo di sofferenza umana. All’anziano Nicodemo Gesù confida che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3, 17) e la croce proclama in maniera viva la vittoria finale dell’Amore. Non vince chi è dominatore degli altri, ma chi trionfa su sé stesso, non chi ferisce e fa soffrire, ma chi soffre anche ingiustamente e perdona.

 

 5. La Croce speranza certa nell’era digitale e volatile

La Croce di Cristo resta segno di speranza certa “dum volvitur orbis”. Il mondo, fin dalla sua origine, è segnato da costanti e mutevoli sconvolgimenti. Dalla primitiva età della pietra siamo ora all’era del digitale e del numerico, dove i dati numerici sono diventati il cuore della comunicazione, della conoscenza, dell’economia e persino della cultura. Domina così la digitalizzazione massiva: ogni informazione (testi, immagini, suoni, azioni) è convertita in dati numerici (bit), l’automazione e algoritmi. Dalla finanza alla salute, tutto è gestito da sistemi numerici e intelligenze artificiali per cui il dato numerico è il nuovo “petrolio”, usato per profilare, prevedere, influenzare, molte anzi quasi tutte le attività: comunicazione, lavoro, relazioni. Ci si muove ovunque in ambienti digitali non fisici e l’interconnessione globale, grazie a reti digitali, crea un mondo istantaneamente connesso, ma purtroppo estremamente fragile. L’uomo rischia di essere ridotto a dato, a comportamento misurabile. La verità è ciò che può essere quantificato, calcolato e controllato. La libertà è sotto minaccia dalla sorveglianza algoritmica e l’idea di transizione non basta più a descrivere la realtà in atto. All’idea di mutazione oggi si associa quella di frantumazione in una società “liquida” cui si associa l’acronimo VUCA (volatilità, incertezza, complessità, ambiguità), dove non esistono punti fermi, valori indiscussi. Il risultato è che purtroppo non c’è nulla di stabile a cui aggrapparsi: si ci perde nel “nulla” che non è solo assenza, ma un vuoto esistenziale che spesso si riempie di ansia, disorientamento, oppure con un’attività frenetica che serve solo a mascherarlo. L’oceano digitale resta una realtà complessa, per alcuni versi affascinante ma pericolosa: offre possibilità e rischi imprevisti, per questo richiede attenzione, prudenza e responsabilità. Padre Cantalamessa, in una sua predicazione del Venerdì Santo in San Pietro, ha così descritto la nostra era: “ Tutto è fluttuante, anche la distinzione dei sessi. Si è realizzata la peggiore delle ipotesi che il filosofo aveva previsto come effetto della morte di Dio, quella che l’avvento del super-uomo avrebbe dovuto impedire, ma che non ha impedito: “Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?” (F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125).  E aggiungeva l’ex predicatore della casa Pontificia: “È stato detto che “uccidere Dio è il più orrendo dei suicidi”, ed è quello che in parte stiamo vedendo. Non è vero che “dove nasce Dio, muore l’uomo” (J.-P. Sartre); è vero il contrario: dove muore Dio, muore l’uomo. Salvador Dalì ha dipinto un crocifisso che sembra una profezia di questa situazione. Una croce immensa, cosmica, con sopra un Cristo, altrettanto monumentale, visto dall’alto, con il capo reclinato verso il basso. Sotto di lui, però, non c’è la terra ferma, ma l’acqua. Il Crocifisso non è sospeso tra cielo e terra, ma tra il cielo e l’elemento liquido del mondo. Questa immagine tragica contiene però anche una consolante certezza: c’è speranza anche per una società liquida come la nostra perché sopra di essa “sta la croce di Cristo”.

 

6. O crux, ave spes unica 

In ogni Venerdì Santo la Chiesa proclama la sua speranza, consapevolmente certa, con le parole del poeta Venanzio Fortunato: “O crux, ave spes unica”, Salve, o croce, unica speranza del mondo. Il Figlio di Dio che si è fatto uomo è morto ma non è più nella tomba: è risorto. Il giorno di Pentecoste Pietro proclama con forza alla folla: “Voi l’avete crocifisso ma Dio l’ha risuscitato!” (Atti 2, 23-24), Colui che “era morto, ora vive nei secoli” (Ap 1, 18). La croce non “sta” immobile in mezzo agli sconvolgimenti del mondo come ricordo di un evento passato o come un semplice simbolo, ma resta ben piantata nella storia come un evento di oggi, anzi di ogni istante perché Cristo vive con noi. Abbiamo tutti qualcosa di quel cuore di pietra di cui parla il profeta Ezechiele: “Strapperò da loro il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne” (Ez 36, 26). Sì, è di pietra il cuore quando si chiude all’amore di Dio e diventa insensibile ai bisogni e alla sofferenza dei fratelli; quando si lascia sedurre dall’avidità di beni materiali ed è sordo al grido di chi non ha nemmeno un soldo per campare. Cuore di pietra è il mio quando mi lascio dominare dalle passioni e vivo di compromessi, falsità, violenza e impurità. S’indurisce il mio cuore, quando ripiegato su me stesso, m’impedisce di vivere per Cristo, che mi ha amato morendo per me. Il cuore mi fa tremare dinanzi alle tempeste improvvise che m’invadono e rischiano di precipitarmi nel buio della paura e dello scoraggiamento. In queste situazione può avvenire ciò che successe in contemporanea con la morte di Cristo: ”il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono” (Mt 27,51s.). Anche in situazioni complesse come questa emerge un invito al coraggio della speranza. In una liturgia del Venerdì Santo, il papa san Leone Magno esortava così i fedeli: “Tremi la natura umana di fronte al supplizio del Redentore, si spezzino le rocce dei cuori infedeli e quelli che erano chiusi nei sepolcri della loro mortalità vengano fuori, sollevando la pietra che gravava su di loro” (Sermo 66, 3; PL 54, 366).  Il cuore di carne preannunciato dai profeti, è il Cuore di Cristo trafitto sulla croce, “il Sacro Cuore” che continua a vivere nel nostro cuore quando lo riceviamo nell’Eucarestia. Annota l’arcivescovo Fulton Sheen: “Per il paradosso più straordinario della storia del mondo, crocifiggendo Cristo hanno dimostrato che Lui aveva ragione e loro avevano torto, e sconfiggendolo hanno perso. Uccidendolo lo hanno trasformato: per la potenza di Dio hanno cambiato la mortalità in immortalità…Lo hanno umiliato sul Calvario, ed Egli è stato esaltato e si è innalzato sopra un sepolcro vuoto. Hanno seminato il Suo corpo nel disonore ed è risorto nella gloria; Lo hanno seminato nella debolezza ed è risorto nella potenza. Nel togliergli la vita, Gli hanno dato Nuova Vita…Rifate l’uomo e rifarete il mondo! (Fulton J. Sheen, da “Justice and Charity”)

 

 

VEGLIA PASQUALE [19 Aprile 2025]

Spero possa esservi utile questa breve ricerca sulla Veglia Pasquale che rischia di perdere il suo significato e diventare quasi come la messa anticipata alla sera del sabato. Ma così non deve essere almeno per la Veglia di Pasqua.  

 

La Veglia pasquale nella storia 

La Veglia pasquale ha una storia bimillenaria, pur con vicende alterne nei tre periodi della sua vita. Ecco un suo rapido excursus storico per capirne sempre più il valore e l’importanza. La sua storia nella tradizione secolare della Chiesa, da un lato esprime una continuità celebrativa costante, non venendo mai a mancare, dall’altro subisce un’ampia oscillazione di orario, che la rende per lunghi secoli priva di coerenza tra il suo simbolismo e l’ora in cui avrebbe dovuto essere celebrata. 

 

1. Primo periodo: la grande notte di Veglia

Ecco le principali tappe: - Primo periodo (II – IV sec.): la Veglia pasquale è la celebrazione base della Chiesa, la grande notte di Veglia in onore del Signore. Da essa si svilupperà in seguito tutto l’Anno Liturgico, come da sua sorgente e spartiacque. La Veglia antica occupa tutta l’estensione della notte: dal lucernale dei vespri alle prime luci dell’alba, quando con l’Eucaristia si compirà il Mistero e si realizzarà l’incontro sacramentale col Risorto, che in quell’ora apparve ai primi testimoni. È la pannukia pasquale, nella quale sono proclamate le principali pagine scritturistiche, delineando così una ampia panoramica della storia della salvezza, che avrà in Cristo morto e risorto il suo vertice e il suo compimento. In essa si conclude anche l’istruzione battesimale dei catecumeni con la proclamazione dei grandi eventi biblici, che richiamano il mistero della rigenerazione. È così che il Battesimo trova nella Veglia il luogo più adatto: si tratta di morire e risorgere con Cristo nel mistero dei segni sacramentali. In tal modo la Pasqua del Signore diventa anche la Pasqua dei cristiani, che passano dalla morte del peccato alla vita della grazia. Fin dai primi tempi, quindi la Veglia pasquale ospita i tre elementi fondamentali, che costituiranno una costante permanente in tutti i secoli: la Parola profetica, i Sacramenti della Iniziazione, il Sacrificio eucaristico. Il giorno domenicale successivo sarà senza liturgia, in quanto tutto si è concentrato nella celebrazione notturna, così solenne e prolungata. Del resto prima del secolo IV tale giorno è lavorativo e non consente celebrazioni. 

 

2. Secondo periodo: la Veglio pasquale slitta al pomeriggio

Secondo periodo (sec. IV – XVI). Con la libertà religiosa la Veglia pasquale tende ad uscire sempre più dalla notte e slittare gradualmente nel pomeriggio del Sabato santo. Sul versante opposto l’Eucaristia solenne di Pasqua entra nel pieno giorno della domenica, ormai riconosciuta come festiva, originando una seconda e più solenne messa, quella ‘ del giorno’, mentre l’antica Messa della Veglia fa corpo con i riti notturni e scende con essi verso la vigilia. Inizialmente i Padri tendono ad assicurare che il popolo non sia congedato prima della mezzanotte, intesa come ora discriminante per l’autenticità e verità della stessa Veglia pasquale. Tuttavia, nella concreta celebrazione, l’orario si sposta sempre più al pomeriggio del Sabato santo, anche se permane la raccomandazione di non dimettere il popolo prima della mezzanotte e che il Gloria in excelsis non sia intonato prima del comparire delle prime stelle. Gradualmente la Veglia si fissa tra l’ora sesta e il Vespro e in tal modo viene recepita giuridicamente dal Messale di Pio V, che prevede che la Veglia inizi dopo l’ora Sesta e si concluda col Vespro. Tuttavia fin da san Pio V nella pratica, anche in seguito all’abolizione delle Messe vespertine (1566) la Veglia è di fatto celebrata al mattino del sabato santo. La prassi è recepita dal Cerimoniale dei Vescovi ed è definita nel Codice di diritto Canonico del 1917, che fisserà che il termine del digiuno pasquale col mezzogiorno del sabato santo. Con queste indicazioni la Veglia arriva fino alla sua grande riforma con Pio XII nel 1951. “Non si può negare che queste successive anticipazioni avevano creato, se non una incrinatura nella compagine  unitaria del Triduo sacro, almeno uno stridente contrasto fra il mistero del giorno e le formule liturgiche che lo esprimono e che vi si sono sovrapposte. Ciò malgrado, la Chiesa manteneva i suoi riti, i quali conservano sempre per i fedeli la loro ragione storica-commemorativa e tutto il loro valore di simbolo e di mistero” (Righetti, vol. II, p. 252). Finché i tre santi giorni (Giovedì, Venerdì e Sabato Santo) erano civilmente festivi - anche se i riti erano ormai da secoli celebrati in orario mattutino e incompatibile con le Ore relative ai Misteri ricordati - continuarono ad essere frequentati dai fedeli, ma quando nel 1642 il Papa Urbano VIII dovette riconoscere questi giorni come lavorativi non fu più possibile la partecipazione del popolo cristiano ai riti del Triduo pasquale, che finirono per essere celebrati unicamente dal clero, con un’assolvenza più giuridica che pastorale. - Terzo periodo (dal 1955 ad oggi). 

 

3. La Veglia pasquale torna al suo tempo

Con la riforma di Pio XII la Veglia pasquale ritorna al suo tempo conveniente con indicazioni precise, che ne garantiscono la coerenza celebrativa. Infatti il Decreto di restauro della Veglia pasquale, Dominicae Resurrectionis vigiliam (9 febbraio1951) al n. 9 afferma: “La solenne veglia pasquale si deve tenere all’ora competente, tale cioè che permetta di cominciare la messa solenne della stessa veglia verso la mezzanotte tra il sabato santo e la domenica di Risurrezione”. La fermezza di questa disposizione, che avrebbe assicurato una sicura riuscita in quanto ad orario alla celebrazione del solenne rito, è stata purtroppo stemperata, fin dall’inizio, nel medesimo decreto, da una concessione, che si rivelerà in seguito riduttiva del carattere notturno della Veglia, consentendo la sua celebrazione alla sera del Sabato santo. “Però dove, date le condizioni del luogo e dei fedeli, a giudizio dell’Ordinario, convenga anticipare l’ora della veglia pasquale, questa non si cominci prima del crepuscolo, mai comunque prima del tramonto del sole” (Idem n. 9). Tale disposizione influisce negativamente ancor oggi su una Veglia pasquale che di fatto non è mai stata notturna, ma semplicemente serale. Infatti, dalla prassi celebrativa risulta che già nei primi anni (1951-1955) nelle parrocchie si fa uso della facoltà di anticipare la Veglia alla sera. Con la riforma del Vaticano II e in particolare con l’Istruzione Paschalis Sollemnitatis del 16 gennaio 1988, si cerca di insistere maggiormente su una Veglia che sia veramente notturna e si afferma: “L’intera celebrazione della veglia pasquale si svolge di notte; essa quindi deve o cominciare dopo l’inizio della notte o terminare prima dell’alba della domenica’. Gli abusi e le consuetudini contrarie, che talvolta si verificano, così da anticipare l’ora della celebrazione della veglia pasquale nelle ore in cui di solito si celebrano le messe prefestive della domenica, non possono essere ammessi. Le motivazioni addotte da alcuni per anticipare la veglia pasquale, come ad es. l’insicurezza pubblica, non sono fatte valere nel caso della notte di Natale o per altri convegni che si svolgono di notte”. Tuttavia non si determina l’ora di mezzanotte come discriminante. Così in questa ulteriore incertezza la Veglia pasquale oggi tende a non decollare dal comodo orario serale. Come per la Messa di mezzanotte di Natale, anche per la Veglia Pasquale ha avuto grande influsso l’estensione del precetto festivo ai primi vespri, per cui la Veglia pasquale viene ritenuta legittima a partire dal tramonto del Sabato santo, come una messa ‘prefestiva’. Ciò non succedeva prima di questa disposizione, quando chi anticipava la Veglia alla sera sapeva anche che la Messa della notte assolveva il precetto, solo se celebrata dopo la mezzanotte. Per un efficace decollo della Veglia come celebrazione notturna, sarebbe oggi auspicabile una precisa indicazione di orario discriminante da parte dell’autorità della Chiesa, ritornando a stabilire in modo inequivocabile la mezzanotte come ora della liturgia eucaristica della Veglia stessa nella quale si entra col canto solenne del Gloria. Non si dovrebbero ammettere eccezioni, in quanto la Veglia si celebra solo nelle parrocchie o comunità ad esse assimilate, come atto corale, unico, e quindi irripetibile nella notte santa. Abbiamo visto come le concessioni in tal senso sono diventate la regola, perdendo di fatto la celebrazione notturna. 

 

4. La Domenica di risurrezione inizia a mezzanotte

Per di più il terzo giorno del Triduo pasquale, ossia la Domenica di risurrezione, non inizia all’ora dei vespri del Sabato santo, quasi fossero i primi vespri della domenica, come è norma per il sabato ordinario e le vigilie. Il tempo della Domenica di risurrezione inizia alla mezzanotte, in quanto il Sabato santo è giorno della medesima solennità, come anche il Venerdì santo. I tre santi giorni, infatti, hanno il medesimo grado di solennità. Si capisce allora che, nel rito romano, non è possibile trattare l’ora serale del Sabato santo come tempo già appartenente alla Domenica di risurrezione.

La mezzanotte viene presa come l’ora di riferimento per unire le due parti della Veglia pasquale: la liturgia della Parola e la liturgia sacramentale. L’ora della risurrezione non ci è riferita dalla Sacra Scrittura. Essa appartiene al mistero di Dio. La Chiesa esprime questa consapevolezza quando nell’Exultet canta: “O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi”. Per questo la tradizione liturgica sospinge la Chiesa a trascorre le ore notturne della notte santa nella veglia. Anzi la notte pasquale è, fin dall’antichità, una notte di veglia completa, fino all’alba, l’ora in cui il sepolcro è ritrovato aperto e vuoto. Tra le varie ore notturne, tuttavia, trova una considerazione specialissima l’ora di mezzanotte. Essa è legata a precisi eventi biblici, che costituiscono il fondamento della celebrazione notturna della Pasqua. 

 

5. L’importanza della mezzanotte, l’Ora della Pasqua 

La mezzanotte è la grande Ora a lungo preparata da Dio per salvare il suo popolo: “A mezzanotte il Signore percosse ogni primogenito nel paese d’Egitto… Notte di veglia fu questa per il Signore per farli uscire dal paese d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione” (Es 12, 29. 42). Anche il passaggio del mar Rosso avvenne di notte e si concluse sul far del mattino: “…Il Signore durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’oriente…Ma alla veglia del mattino il Signore dalla colonna di fuoco e di nube gettò uno sguardo sul campo degli Egiziani…il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto…” (Es 14, 21-27). Forse il tutto si compì in quei tre giorni di cammino nel deserto che Mosé richiese al faraone per celebrare il culto al Signore: “Ci è dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore, nostro Dio…” (Es 5, 3). Quei tre giorni sono profezia del vero Triduo pasquale in cui il Signore operò, nella pienezza dei tempi, la nostra redenzione. L’evento della Pasqua ebraica si compie quindi nel contesto di almeno due notti: quella del banchetto pasquale col passaggio dell’Angelo sterminatore, e quella della miracolosa traversata del mar Rosso. La liberazione pasquale, allora, nelle sue fasi salienti, avviene nella notte. Ma è la mezzanotte l’ora segnata da Dio per compiere l’evento decisivo e risolutore: l’Angelo colpisce e il popolo parte: è l’ora della Pasqua. La veglia del mattino, di cui si parla nella notte del passaggio del mar Rosso, è quella della consumazione della liberazione del popolo “Sul far del mattino il mare tornò al suo livello consueto…” (Es 14, 27) e della gioiosa contemplazione delle grandi opere di Dio: in quell’ora nasce il canto di vittoria (Es 15, 1). È fin troppo evidente la profezia della Pasqua del Signore Gesù, quando nel cuore della notte, nell’ora che Lui solo conosce, risorse dai morti e sul far del mattino si mostrò vivo ai suoi discepoli: è questa l’ora dell’Alleluia della Chiesa. Il libro della Sapienza riprende in tono celebrativo l’evento della Pasqua e offre alla liturgia della Chiesa un ulteriore elemento per indicare l’idoneità dell’ora di mezzanotte per attuare nel tempo la celebrazionememoriale e sacramentale del Mistero nelle sue due fasi costitutive, natalizia e pasquale. “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando come spada affilata, il tuo ordine inesorabile” (Sap 18, 14-15). Anche il salmo allude alla singolare Ora della mezzanotte: “Nel cuore della notte mi alzo a renderti lode” (Sl 118, 62). Veramente nella notte di Pasqua, l’Uomo nuovo, il Signore Gesù, si sveglia e si alza dal sonno della morte e, risorto a vita nuova, rende gloria al Padre; come già nella notte di Natale i vagiti del Bambino divino iniziarono la lode nuova e perfetta al Padre. Infine, nella parabola evangelica delle dieci vergini lo scoccare della mezzanotte segna l’ora del grande evento: “A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro!” (Mt 25). La medesima ora è richiamata dal Signore stesso quando afferma: “E se giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!” (Lc 12, 38). L’ora di mezzanotte adombrata nella parabola delle vergini diventa, nella interpretazione mistica della Chiesa, un indizio del possibile ritorno del Signore, non solo nell’ora escatologica, ma anche nella sua prima ora, quando nacque in mezzo a noi e anche quando risvegliandosi dal sonno della morte, ritornò glorioso tra i viventi. In tale prospettiva la mezzanotte divenne l’ora discriminante e il riferimento più eloquente per la liturgia notturna sia natalizia che pasquale. Una tradizione giudaica dice che Cristo verrà a mezzanotte, come al tempo dell’Egitto, quando si celebrò la Pasqua e venne l’angelo sterminatore e il Signore passò sopra le case e gli stipiti delle nostre fronti furono consacrati con il sangue. Di qui, credo, quella tradizione apostolica conservatasi fino ad oggi, secondo cui durante la veglia pasquale non è lecito congedare le folle prima della mezzanotte, quando attendono ancora la venuta di Cristo, mentre passato quel momento tutti celebrano il giorno di festa in una ritrovata sicurezza”. S. GIROLAMO (cfr. CANTALAMESSA, R., La Pasqua nella Chiesa antica, ed Internazionale, Torino, 1978, p. 113) 

 

6. La pastorale e il “dogma” della comodità 

Quando la Veglia è celebrata di sera viene privata di una sua componente essenziale: offrire a Dio il tempo del sonno, santificando la notte, mediante l’ascesi del ‘vegliare’. Ci domandiamo: la pastorale deve proprio sposare il ‘dogma’ della comodità a tutti i costi, rinunciando alla notte di Pasqua e alla notte di Natale, come attualmente sta succedendo? Che almeno nelle due notti sante, di Pasqua e Natale, tutto il popolo di Dio, nelle normali parrocchie, si disponga alla solenne celebrazione, vegliando nella notte e offrendo a Dio con generosità il tempo notturno, è veramente cosa pastoralmente impossibile e improponibile ai nostri giorni? Il passaggio più singolare della Veglia pasquale, quando si canta il Gloria in excelsis e si riprende l’jubilus dell’Alleluia è spesso depotenziato: dopo una liturgia della Parola piuttosto breve, senza aver raggiunto un congruo clima di trepida attesa e, senza alcuno stacco rituale, si intona l’Inno angelico e si suonano le campane. Siamo lontani da quello stupore mistico e commosso di cui ci parlano le fonti antiche. È più eloquente la notte di Natale quando, a mezzanotte, si inizia la solenne eucaristia ‘in nocte’. Perché allora privare l’annunzio pasquale nella notte santa dell’esperienza dell’attesa fervorosa, che dà vigore e letizia spirituale all’annunzio della risurrezione, proprio al primo esordio del giorno in cui avvenne la risurrezione, il giorno ottavo che non avrà mai più tramonto? Questo non è sentimentalismo, ma ricchezza celebrativa, forza coesiva e testimonianza efficace. 

 

7. Ridare alla Veglia pasquale il senso della gioia 

Se si vuole ridare alla Veglia pasquale il senso gioioso e commovente dell’attesa, occorre consentire che essa abbia il tempo necessario per impostare un itinerario progressivo verso un preciso termine, che in antico era il primo albeggiare del giorno della risurrezione e che oggi dovrebbe essere necessariamente lo scoccare della mezzanotte alla soglia della grande e santa Domenica di Pasqua. Dal momento che la liturgia si è arricchita in modo irreversibile della Messa solenne del giorno di Pasqua, e che questo giorno è ormai rivestito di regale e grande solennità, non è più auspicabile riproporre a tutto il popolo una Veglia che si estenda fino al mattino, come in antico per poi necessariamente ridurre la domenica di Pasqua a un giorno liturgicamente ‘vacante’. In questo contesto la mezzanotte dovrebbe ridiventare l’Ora da tutti accolta come discriminante tra le due parti della Veglia. Diversamente succede quello che attualmente si può constatare nelle varie ore serali del Sabato Santo: uno già ritorna dalla Veglia pasquale in una chiesa, mentre l’altro parte per la Veglia in un’altra chiesa. Povera Pasqua! Così è ridotta ad affare privato, persa nella routine del sabato sera. La celebrazione della Veglia, fatta all’unisono da tutte le comunità cristiane sul crinale della mezzanotte, offre un eccellente occasione per una testimonianza corale: la Chiesa, convocata nel cuore della notte santa, attende e annunzia la risurrezione del Signore. La Chiesa, celebrando all’unisono la Veglia pasquale percepisce quasi fisicamente il suo essere un cuor solo e un’anima sola, soprattutto quando, a mezzanotte, acclama Cristo risorto e lo annunzia al mondo. Per esprimere concretamente tale sinfonia, la mezzanotte diviene un criterio necessario e discriminante. In questo contesto, sarà possibile dare all’unisono anche l’annunzio pasquale al mondo esterno col suono delle campane.

+Giovanni D’Ercole

Giovedì, 10 Aprile 2025 10:05

Domenica delle Palme (anno C)

Domenica delle Palme (anno C)  [13 aprile 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Entriamo nella Settimana Santa con Gesù accolto a Gerusalemme e prepariamoci nel Triduo Pasquale a seguirlo nel cammino della passione morte e risurrezione. 

 

*Prima lettura dal libro de profeta Isaia (50,4-7)

Questo testo è tratto dalla parte del libro di Isaia che raccoglie i cosiddetti “Canti del Servo”, che sono particolarmente importanti per due ragioni: innanzitutto per il messaggio che Isaia voleva trasmettere ai suoi contemporanei e perché sono stati applicati dai primi cristiani a Cristo, anche se certamente Isaia non pensava a Gesù quando scrisse questo testo probabilmente nel VI secolo a.C. durante l’esilio a Babilonia. Al popolo esiliato in condizioni molto dure, che rischiava di cedere a un grande sconforto, ricorda che Israele è il servo di Dio sostenuto e nutrito ogni mattina dalla Parola, ma perseguitato a causa della sua fede e, nonostante tutto, capace di resistere a ogni prova. Descrive in modo chiaro la straordinaria relazione che unisce al suo Dio il Servo (Israele) la cui caratteristica principale è l’ascolto della Parola, “l’orecchio aperto”, come scrive Isaia. Ascoltare la Parola, lasciarsi istruire da essa, significa vivere nella fiducia. Ascoltare è una parola che nella Bibbia significa fidarsi poiché due sono gli atteggiamenti tra cui oscilla continuamente la nostra esistenza: la fiducia in Dio, l’abbandono sereno alla sua volontà perché si sa, per esperienza, che la sua volontà è solo bene; oppure la diffidenza, il sospetto sulle intenzioni divine e la ribellione davanti alle prove, una ribellione che può portarci a credere che Egli ci abbia abbandonati o, peggio, che possa trovare soddisfazione nelle nostre sofferenze. Tutti i profeti ripetono quest’invito: “Ascolta, Israele” o “ascoltate oggi la Parola di Dio”. Sulle loro labbra, l’esortazione “ascolta” è invito ad avere fiducia in Dio, qualunque cosa accada. A questo proposito san Paolo spiegherà che Dio fa concorrere tutto al bene di coloro che lo amano e si fidano di lui (cf Rm 8,28) perché da ogni male, difficoltà, prova sa trarre il bene; a ogni odio, oppone un amore ancora più forte; in ogni persecuzione, dona la forza del perdono; da ogni morte fa nascere la vita. Tutta la Bibbia è la narrazione della storia di una fiducia reciproca: Dio si fida del suo servo e gli affida una missione; in cambio Israele accetta la missione con fiducia. Ed è proprio questa fiducia che gli dà la forza necessaria per resistere a tutte le opposizioni che inevitabilmente incontrerà. In questo testo la missione consiste nel saper “indirizzare una parola allo sfiduciato” testimoniando la fedeltà del Signore che dona la forza necessaria e il linguaggio adeguato. Anzi è il Signore stesso a nutrire questa fiducia, sorgente di ogni audacia al servizio degli altri: ”Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”.  Tutto allora diventa dono: la missione, la forza e la fiducia che rende incrollabili. Questa è la caratteristica del credente: riconoscere che tutto è dono di Dio. Quando poi fa fruttificare il dono permanente della forza del Signore, il credente è in grado di affrontare tutto, anche la persecuzione che mai è assente, e in verità ogni autentico profeta che parla a nome di Dio, raramente viene riconosciuto e apprezzato in vita.Isaia invita i suoi contemporanei a resistere: il Signore non vi ha abbandonati, anzi, vi ha affidato la sua missione e non meravigliatevi se siete maltrattati perché il Servo che ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica, diventa certamente scomodo e con la sua conversione provoca gli altri: alcuni ne ascoltano l’appello, altri lo respingono e, in nome delle loro buone ragioni, lo perseguitano. Ecco perché il Servo attinge vigore solamente da Colui che gli permette di affrontare tutto: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba …il Signore Dio mi assiste per questo non resto svergognato”. Isaia usa poi un’espressione comune in ebraico: “per questo rendo la mia faccia dura come pietra” che esprime determinazione e coraggio; non orgoglio o presunzione, bensì pura fiducia perché sa bene da dove viene la sua forza.  Gesù è ritratto perfetto del Servo di Dio nel cuore della persecuzione e anche nel momento in cui le acclamazioni della folla della Domenica delle Palme segnavano e acceleravano la sua condanna. San Luca riprende esattamente questa espressione quando scrive «Gesù indurì il suo volto per andare a Gerusalemme» (Lc 9,51), che nelle nostre traduzioni diventa: «Gesù prese risolutamente la strada per Gerusalemme».

 

*Salmo responsoriale dal Salmo 21(22) (2, 8-9,17-20,22b-24)

Il Salmo 21/22 riserva alcune sorprese, a partire dall’incipit: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, molto citato che, estrapolato dal contesto, viene interpretato in modo sbagliato. Per capirne il vero significato va letto per intero il salmo composto di trentadue versetti che si chiude con un rendimento di grazie: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”. Chi nel primo versetto grida “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” ringrazia alla fine Dio per la salvezza ricevuta. Non solo non è morto, ma rende grazie proprio perché Dio non lo ha abbandonato. A prima vista, questo salmo sembra scritto per Gesù: “Hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa” allusione chiara alla crocifissione vissuta sotto gli occhi crudeli dei carnefici e della folla: “Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori… si fanno beffe di me quelli che mi vedono … si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte”. In realtà, non è stato scritto per Gesù Cristo, ma composto per gli esuli tornati da Babilonia, e si paragona la loro liberazione alla risurrezione di un condannato a morte, dato che l’esilio fu vera e propria condanna a morte per Israele che corse il rischio di essere cancellato dalla storia. Ora viene qui paragonato a un condannato che ha rischiato di morire sulla croce, supplizio all’epoca assai comune: ha subito oltraggi, umiliazioni, i chiodi, l’abbandono nelle mani dei carnefici ma miracolosamente ne esce illeso. In altre parole: tornato dall’esilio Israele si abbandona alla gioia che proclama a tutti gridando più forte di quando pianse nella sua angoscia. Il riferimento alla crocifissione non è dunque il centro del salmo, ma serve a mettere in risalto il rendimento di grazie di Israele, che nel pieno della sua angoscia, mai ha smesso di invocare aiuto e mai ha dubitato nemmeno  un istante. Il grande grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” è di sicuro un grido di angoscia davanti al silenzio di Dio, ma non è un grido di disperazione, né tantomeno esprime dubbi; è piuttosto la preghiera di chi soffre e osa gridare il suo dolore. Quanta luce questo salmo fa scendere sulla nostra preghiera nei momenti di sofferenza di qualunque genere: abbiamo il diritto di gridare e la Bibbia ci incoraggia a farlo. Tornato dall’esilio Israele ricorda il dolore passato, l’angoscia, il silenzio apparente di Dio quando si sentiva abbandonato nelle mani dei suoi nemici, eppure ha continuato a pregare. La preghiera è la prova evidente della sua costante fiducia; continuava a ricordare l’Alleanza e i benefici ricevuti da Dio. Questo salmo somiglia nel suo insieme a un “ex voto” come quando si corre un serio pericolo, si prega e si fa un voto e, a grazia ottenuta, si mantiene la promessa portando l’ex voto in una chiesa o in un santuario.  Il salmo 21/22 descrive l’orrore dell’esilio, l’angoscia d’Israele e di Gerusalemme assediata da Nabucodonosor, il senso di impotenza di fronte all’odio degli uomini che suscita un’ardente  supplica: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”? e infine la riconoscenza a Dio per la propria salvezza: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. Lodate il Signore voi suoi fedeli”.  Nella domenica delle Palme non ci sono gli ultimi versetti che però sentiamo spesso nella liturgia: “I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano; il vostro cuore viva per sempre! Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli…Annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore”.

 

*Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo ai Filippesi (2,6-11)

Questo testo è spesso definito l’Inno della Lettera ai Filippesi, perché si ha l’impressione che Paolo non lo abbia scritto di suo pugno, ma abbia citato un inno in uso nella liturgia. Anzitutto da notare l’insistenza sul tema del Servo: “svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo”: i primi cristiani, di fronte allo scandalo della croce, hanno meditato spesso sui Canti del Servo contenuti nel libro di Isaia, perché offrivano spunti di riflessione per comprendere il mistero della persona di Cristo. “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Si è tentati di leggere: benché fosse di condizione divina, anche se in realtà, è il contrario e bisogna dunque leggere: “proprio perché era nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Uno dei pericoli di questo testo è la tentazione di leggerlo in termini di ricompensa, come se il ragionamento fosse: Gesù si è comportato in modo ammirevole e quindi ha ricevuto una ricompensa straordinaria. La grazia, come suggerisce il suo stesso nome, è gratuita, noi però siamo sempre tentati di parlare di meriti. La meraviglia dell’amore di Dio è che Egli non attende i nostri meriti per colmarci; è questa la scoperta che gli uomini della Bibbia hanno fatto grazie alla Rivelazione. Quindi, per essere fedeli al testo, dobbiamo leggerlo in termini di gratuità. Rischiamo di fraintenderlo se dimentichiamo che tutto è dono di Dio, tutto è grazia, come ripeteva Teresa del Bambino Gesù. Il dono gratuito di Dio è per san Paolo una verità evidente, una convinzione che permea tutte le sue lettere, talmente ovvia che non sente neppure il bisogno di ribadirla esplicitamente per cui possiamo riassumere il suo pensiero così: il progetto di Dio, il disegno della sua misericordia è farci entrare nella sua intimità, nella sua gioia e nel suo amore, un progetto assolutamente gratuito. Non c’è nulla di sorprendente in questo, poiché si tratta di un progetto d’amore, un dono da accogliere: è la partecipazione alla vita divina, anzi con Dio, tutto è dono. Ci si esclude da questo dono quando si assume un atteggiamento di pretesa, se ci si comporta come i progenitori nel giardino dell’Eden che si appropriano del frutto proibito. Gesù, al contrario, non ha fatto altro – “facendosi obbediente” - che accogliere il dono di Dio senza pretenderlo. “Pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” ed è proprio perché è di condizione divina che non rivendica nulla. Lui sa cosa sia l’amore gratuito, sa che non è giusto pretendere, non considera un bene reclamare il diritto di essere come Dio. E’ la stessa situazione dell’episodio delle tentazioni (vedi il vangelo della prima domenica di Quaresima): satana propone a Gesù solo cose che fanno parte del piano di Dio, ma Gesù rifiuta di appropriarsene con le proprie forze. perché vuole affidarsi al Padre affinché sia Lui a donargliele. Il tentatore lo provoca: “Se sei Figlio di Dio, puoi permetterti tutto, tuo Padre non può rifiutarti nulla: trasforma le pietre in pane quando hai fame… gettati giù dal tempio, ti proteggerà… adorami, e ti darò il dominio su tutto il mondo”. Gesù però aspetta tutto solo da Dio: ha  ricevuto il Nome che è al di sopra di ogni altro nome, il Nome di Dio. Dire infatti che Gesù è il Signore significa affermare che è Dio. Nell’Antico Testamento, il titolo di “Signore” era riservato a Dio e pure la genuflessione “ perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi». Ecco un’allusione a un passo del profeta Isaia: «Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, si pieghi…ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore!” presterà giuramento» (Is 45,23). Gesù ha vissuto nell’umiltà e nella fiducia; fiducia che san Paolo chiama  obbedienza. Obbedire, in latino «ob-audire», significa letteralmente porgere l’orecchio (audire) davanti (ob) alla parola: è l’atteggiamento di un dialogo perfetto, senza ombre, è fiducia totale.  L’inno si conclude così: “Ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”. La gloria è la rivelazione dell’amore infinito fatto persona. In altre parole anche noi, come il centurione, vedendo Cristo amarci sommamente accettando di morire per rivelarci fino a che punto arriva l’amore di Dio, proclamiamo,: «Sì, davvero, costui era Figlio di Dio»… perché Dio è amore.

 

* Vangelo. Passione di Gesù Cristo secondo san Luca (22,14 – 23.56)

Ogni anno, per la Domenica delle Palme, torna il racconto della Passione in uno dei tre vangeli sinottici; quest’anno, è quello di Luca e mi limito a commentare gli episodi propri di questo vangelo. Se è vero che i quattro racconti della Passione sono simili, quando però si osservano da vicino, ci si rende conto che ogni evangelista ha accenti particolari, e questo perché sono tutti testimoni di uno stesso evento e raccontano i fatti ciascuno dal loro punto di vista e la Passione di Cristo risulta raccontata in quattro modi diversi: non scelgono tutti gli stessi episodi e le stesse frasi. Ecco dunque gli episodi e le parole che troviamo solo in san Luca. 1.Dopo l’ultima cena, prima di recarsi al Getsemani, Gesù aveva preannunciato a Pietro il suo triplice rinnegamento. In verità lo narrano tutti i vangeli, ma solamente Luca riporta questa frase di Gesù: “Simone, Simone, ecco: satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” quando sarai tornato, conferma i tuoi fratelli» (22,32). Una delicatezza di Gesù, che aiuterà Pietro dopo il suo tradimento a rialzarsi invece di disperare. Sempre solo Luca nota lo sguardo che Gesù posa su Pietro dopo il suo rinnegamento: per tre volte consecutive, Pietro afferma di non conoscerlo nella casa del sommo sacerdote. Subito dopo Gesù, voltandosi, fissò lo sguardo su Pietro e qui sentiamo l’eco della prima lettura dove Isaia scrive: “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato”. Questo vuole fare Gesù con Pietro, confortarlo in anticipo perché quando lo rinnegherà non cada nella disperazione. Altro episodio proprio di questo vangelo è Gesù davanti a Erode Antipa. Alla nascita di Gesù, su tutto il territorio regnava sotto l’autorità di Roma, Erode il Grande, ma alla sua morte (nel 4 a.C.), il territorio fu diviso in più province e, al momento della morte di Gesù (nell’anno 30 d.C.), la Giudea, ossia la provincia di Gerusalemme, era governata da un procuratore romano, mentre la Galilea era sotto l’autorità di un re riconosciuto da Roma, che era un figlio di Erode il Grande: il suo nome Erode Antipa, che da tempo desiderava incontrare Gesù e sperava di vederlo compiere un miracolo. Ora gli pone molte domande, ma Gesù tace. Erode lo insulta e lo schernisce facendolo rivestire con un manto splendente e lo rimanda a Pilato rinsaldando quel giorno l’amicizia tra Erode e Pilato. 

2.Ci sono poi tre frasi che troviamo solo nel racconto della Passione di Luca. Due parole di Gesù e, se Luca le annota, è perché rivelano ciò che per lui è importante: la prima è la sua preghiera mentre i soldati romani lo stanno crocifiggendo: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Ma cosa stanno facendo? Hanno espulso dalla Città Santa il Santo per eccellenza; hanno cacciato il loro Dio, mettendo a morte il Maestro della vita; il Sinedrio, il tribunale di Gerusalemme, in nome di Dio ha condannato Dio. E cosa fa invece Gesù? Perdona i nemici suoi fratelli mostrando fino a che punto si spinge l’amore di Dio. Chi ha visto me ha visto il Padre, aveva detto Gesù, il giorno prima. La seconda frase: “Oggi con me sarai nel Paradiso”. Tutti lo attaccano e per tre volte risuona una stessa provocazione: Se tu sei il Messia, lo scherniscono i capi… Se tu sei il re dei Giudei, si prendono gioco di lui i soldati romani… Se tu sei il Messia, lo insulta uno dei due malfattori crocifissi con lui. L’altro crocifisso con lui comincia a dire la verità: noi meritiamo questo castigo ma non Gesù e si rivolge a Gesù: “ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. Riconosce Gesù come il Salvatore, lo invoca con una preghiera umile e di fiduciosa: sembra aver capito tutto. Infine solo Luca riporta quest’ultima frase: “Già brillavano le luci del sabato” (23,54) conclude così il racconto della Passione con un’insistente evocazione del sabato. Parla delle donne che avevano seguito Gesù fin dalla Galilea e ora vanno al sepolcro per osservare come era stato sepolto recando aromi e profumi per i riti della sepoltura. Già brillavano le luci del sabato: tutto si chiude con una nota di luce e di pace: il sabato è prefigurazione del mondo a venire, giorno in cui Dio si era riposato da tutta l’opera della creazione (cf Genesi); giorno in cui, per fedeltà all’Alleanza, si scrutavano le Scritture nell’attesa della nuova creazione. Luca ci fa capire che nel travaglio della Passione di Cristo è nata la nuova umanità che è l’inizio del regno della grazia. Il crocifisso risorto indica la via da seguire: la via dell’amore e del perdono a qualsiasi costo.

+Giovanni D’Ercole

Martedì, 01 Aprile 2025 05:47

5a Domenica di Quaresima (anno C)

5a Domenica di Quaresima (anno C)  [6 aprile 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Domani, mercoledì 2 aprile sarà il XX anniversario della morte di san Giovanni Paolo II. Lo ricordiamo nella preghiera invocando la sua protezione e intercessione.

 

*Prima Lettura Dal libro del profeta Isaia (43,16-21)

A prima vista, questo testo consta di due parti tra loro contraddittorie: la prima è un richiamo al passato, all’uscita dall’Egitto, mentre nella seconda il profeta esorta a lasciarsi alle spalle il passato. Ma di quale passato si tratta? Proviamo a meglio capire esaminando una dopo l’altra queste due parti. L’incipit è come sempre solenne: “Così dice il Signore” per introdurre parole di grande importanza cui immediatamente segue il riferimento al celebre passaggio nel mare, il miracolo del mare dei Giunchi durante la fuga degli Ebrei dall’Egitto: “Il Signore aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti”. Torna sempre il richiamo alla notte memorabile della liberazione dall’Egitto narrata nel capitolo 14 del libro dell’Esodo. Nella prima lettura Isaia offre ulteriori dettagli: “il Signore fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo e tutti giacciono morti e mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo”. Dio salvò il suo popolo distruggendo gli egiziani ed è interessante notare che Isaia utilizza il nome “Signore” (il Tetragramma YHVH), nome che qualifica il Dio del Sinai come il liberatore del suo popolo. Ecco l’opera di Dio nel passato che costituisce la fonte della speranza per il futuro di Israele e Isaia  precisa:”Ecco, io faccio una cosa nuova”. Per capire di che si tratta e a chi il profeta preannuncia un mondo nuovo, occorre rifarsi al contesto storico. Il deuteroIsaia, che qui stiamo leggendo, visse nel VI secolo a.C., durante l’esilio a Babilonia (dal 587 al 538 a.C.), periodo segnato da una prova terribile: deportanti a Babilonia da Nabucodonosor, re di Babilonia, che aveva sconfitto il piccolo regno di Giuda di cui Gerusalemme era la capitale, gli ebrei speravano un giorno di fuggire dalla Babilonia, ma esistevano serie difficoltà  perché bisognava attraversare il deserto della Siria, lungo centinaia di chilometri e in condizioni terribili per dei fuggiaschi. Il profeta ha quindi il compito difficile di ridare coraggio ai suoi contemporanei: lo fa in questo libro chiamato il libro della Consolazione di Israele, perché il capitolo 40 inizia così: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio”. E quando dice: “il vostro Dio” richiama l’Alleanza mai spezzata perché  Dio non li ha abbandonati. In effetti, una delle formule dell’Alleanza era: “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” e ogni volta che echeggia l’espressione mio Dio o vostro Dio, il possessivo è un incoraggiante richiamo all’Alleanza e, al tempo stesso, una professione di fede. Isaia intende mantenere accesa la speranza degli esiliati ricordando che Dio non solo non li ha abbandonati, anzi al contrario prepara già il loro ritorno in patria. Non si vede ancora nulla, ma avverrà e perché si è certi? Perché Dio è fedele alla sua Alleanza e da quando ha scelto questo popolo non ha mai smesso di liberarlo e di mantenerlo in vita, attraverso tutte le vicissitudini della sua storia. L’ha liberato dal faraone; l’ha protetto lungo tutto il cammino, lo ha fatto passare attraverso il mare all’asciutto al momento dell’uscita dall’Egitto.La speranza di Israele poggia dunque sul suo passato: questo è il significato della parola “Memoriale”, costante memoria dell’opera di Dio che continua ancora oggi e da questo si trae la certezza che continuerà anche nel futuro. Passato, presente, futuro: Dio è sempre presente accanto al suo popolo. Questo è uno dei significati del nome di Dio: “Io sono”, cioè sono con voi in ogni circostanza. E proprio durante il difficile periodo dell’esilio, quando c’era il rischio di cedere alla disperazione, Isaia sviluppa una nuova metafora, quella del germoglio: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” Partendo dall’esperienza straordinaria di un minuscolo seme capace di diventare un grande albero, è facile capire come la parola “germoglio” sia diventata in Israele e oggi per noi simbolo di speranza ed è importante imparare a riconoscere i germogli del mondo nuovo, il Regno che Dio sta costruendo.

 

*Salmo responsoriale [125 (126)]

 Questo salmo fa eco alla prima lettura, dove il profeta Isaia annuncia il ritorno del popolo esiliato a Babilonia e canta questo miracolo così come gli ebrei avevano cantato il prodigio dell’uscita dall’Egitto. Questi gli eventi: nel 587 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva conquistato Gerusalemme e deportato la popolazione, ma, a sua volta, fu sconfitto da Ciro, re di Persia ben noto per i suoi successi. Le truppe di Nabucodonosor saccheggiavano, depredavano, stupravano, massacravano e devastavano deportando sistematicamente le popolazioni. Ciro, invece, adottò una politica completamente diversa: preferì governare su popoli prosperi e permise a tutte le popolazioni deportate di tornare nelle loro terre d’origine fornendo pure i mezzi per farlo. E così, conquistata Babilonia nel 539 a.C., già nel 538 permise agli ebrei di rientrare a Gerusalemme, concedendo loro anche aiuti economici e restituendo persino gli oggetti saccheggiati dal Tempio dai soldati di Nabucodonosor.

Nel salmo non si dice “Quando il re di Persia Ciro ristabilì la sorte di Sion” ma “quando il Signore ristabilì la sorte di Sion”, un modo per affermare che Dio rimane il Signore della storia che ne muove tutti i fili e pertanto non c’è nessun altro dio – ancora un cenno alla lotta contro l’idolatria. Questo salmo, scritto probabilmente molto tempo dopo il ritorno dall’esilio, evoca la gioia e l’emozione della liberazione e del ritorno. Quante volte durante l’esilio, si sognava questo momento! Quando si è realizzato, quasi non si osava crederci: “Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion ci sembrava di sognare…la bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia”.  Ci si immagina persino che anche gli altri popoli siano stupiti da questo miracolo: “Allora si diceva tra le genti: “Il Signore ha fatto grandi cose per loro”. In questa frase emergono due elementi: un’infinita gratitudine per la gratuità della scelta di Dio e la consapevolezza del popolo eletto di essere stato scelto per il mondo: la sua vocazione è essere testimone dell’opera di Dio, consapevolezza maturata proprio durante l’esilio. Nel salmo, lo stupore per la scelta di Dio è espresso con i termini: “grandi cose” cioè l’opera di liberazione di Dio, in particolare la liberazione dall’Egitto. Parole come impresa, opera, grandi cose, meraviglie, che si trovano spesso nei salmi, sono sempre un richiamo all’Esodo. Qui, si aggiunge una nuova opera di liberazione di Dio: la fine dell’esilio vissuta dal popolo come una vera e propria risurrezione. Per esprimerlo, il salmista usa due immagini: I torrenti nel deserto: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte, come i torrenti nel Negheb”, deserto a sud di Gerusalemme, dove in primavera fioriscono miriadi di fiori. L’altra immagine è il seme: “chi semina nelle lacrime, mieterà nella gioia”. il grano seminato sembra marcire e morire… ma quando spuntano le spighe, è come una rinascita, immagine eloquente perché il ritorno degli esiliati significava una vera rinascita anche per la terra. Un’ultima osservazione: quando in questo salmo si canta il ritorno dall’esilio babilonese, esso era  già avvenuto da molto tempo, ma Israele non parla del passato solo per raccontarlo, bensì per comunicare un messaggio e un insegnamento per il futuro: questo ritorno alla vita, collocato storicamente,  diventa ragione per sperare in altre future risurrezioni e liberazioni. Ogni anno, durante la festa delle Capanne, in autunno, questo canto veniva intonato durante il pellegrinaggio a Gerusalemme. Mentre i pellegrini salgono, cantano la liberazione già avvenuta e pregano Dio di affrettare il giorno della liberazione definitiva, quando apparirà il Messia promesso. Esistono anche oggi molti luoghi di schiavitù, molti «Egitto» e «Babilonia». È a questo che si pensa quando si canta: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte come i torrenti nel Negheb” chiedendo la grazia di collaborare con tutte le nostre forze all’opera di liberazione inaugurata dal Messia per affrettare il giorno in cui l’intera umanità possa cantare: “Grandi cose ha fatto il Signore per noi”

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (3,8-14)

 San Paolo usa l’immagine della corsa e sappiamo quanto sia importante per ogni persona il traguardo e la voglia di raggiungerlo. Qui l’apostolo parla di sé stesso: “So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù”. Per correre verso questa stessa meta e ottenere il premio promesso, occorre voltare le spalle a molte cose, come ha fatto san Paolo da quando si è sentito conquistato da Cristo. Il verbo greco che utilizza (katalambano) significa afferrare, catturare, prendere con forza ed esprime il modo con cui è stato trasformato completamente da persecutore dei cristiani in apostolo del vangelo (At.9) quando Cristo si è letteralmente impossessato di lui sulla via di Damasco. San Paolo presenta la sua fede cristiana come naturale continuazione della sua fede ebraica perché Cristo realizza pienamente le attese dell’Antico Testamento assicurandone la continuità con il Nuovo Testamento. Qui però insiste sulla novità che Gesù Cristo apporta: “Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore”. La conoscenza di Cristo reca una novità radicale perché si diventa realmente una “nuova creatura”, come scrive nella seconda lettera ai Corinzi, che abbiamo letto domenica scorsa (2 Cor 5,17-21). Ora lo dice in un altro modo: “Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui”. In altre parole:  quel che prima ai mei occhi appariva importante, cioè un vantaggio e un privilegio , adesso li rifiuto del tutto. I vantaggi di cui parla erano l’orgoglio di appartenere al popolo d’Israele, la fede e l’incrollabile speranza di quel popolo, la pratica assidua e scrupolosa di tutti i comandamenti che egli chiama l’obbedienza alla legge di Mosè. Ma ormai Gesù Cristo ha preso tutto lo spazio nella sua vita ed egli  possiede il bene più grande, l’unica vera ricchezza al mondo, il vero tesoro dell’umana esistenza: conoscere Cristo. Conoscere nel linguaggio biblico non significa conoscenza intellettuale ma vivere nell’ intimità con qualcuno, amarlo e condividerne la vita. Paolo insiste su questo legame con Cristo perché nella comunità di Filippi alcuni cristiani di origine ebraica volevano imporre la circoncisione a tutti i cristiani prima del battesimo e questo creava grande divisione come abbiamo letto nella seconda lettura della seconda domenica di Quaresima. Tale questione fu risolta dagli Apostoli durante il primo Concilio a Gerusalemme affermando che nella Nuova Alleanza, la Legge di Mosè è stata superata e il battesimo nel nome di Gesù ci rende figli di Dio per cui la circoncisione non è più indispensabile per far parte del popolo della Nuova Alleanza. Paolo inoltre parla qui di “comunione” alle sofferenze di Cristo, di conformazione alla sua morte nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti, innestati in lui per seguire il suo stesso cammino: “comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte”. 

Nota: San Paolo c’invita a vivere come Cristo e ad accettare tutti i rischi dell’annuncio del Vangelo, ma riusciamo a dire, come lui, che l’unico bene per noi è la conoscenza di Cristo e tutto il resto non è che spazzatura? La parola spazzatura che qui è usata traduce il termine greco skubala che ha un significato molto forte traducibile in più modi: come rifiuto, scarto, escrementi secchi e sporcizia, residuo di cibo marcio e avariato. Insomma un rifiuto totale di tutto, quando si conosce Cristo e da lui si è posseduti.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (8, 1-11)

Siamo già nel contesto della Passione e la prima riga menziona il Monte degli Ulivi. Dato che gli evangelisti ne parlano solo negli ultimi giorni della vita pubblica di Gesù e i farisei vogliono qui tendergli un tranello, questo fa capire che ormai si è deciso di processarlo e condannarlo. Per questo ogni dettaglio di questo testo va esaminato attentamente perché non si tratta di un semplice episodio della vita di Gesù, ma del cuore stesso della sua missione.  All’inizio Gesù è seduto come un maestro: “tutto il popolo andava da lui ed egli sedette e si mise a insegnare loro”. Tuttavia la domanda degli scribi e dei farisei lo mette subito nella posizione di giudice e Gesù è l’unico personaggio seduto. Questo dettaglio ci aiuta a capire che il tema del giudizio, in san Giovanni, è centrale: l’episodio della donna adultera attua ciò che scrive all’inizio del suo vangelo: “Dio ha mandato il Figlio nel mondo, non per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17). Siamo davanti a un finto processo perché la questione è chiara: la donna adultera è stata colta in flagrante e ci sono testimoni; la Legge di Mosè condanna l’adulterio, come uno dei comandamenti dati da Dio sul Sinai (Non commetterai adulterio, Es 20,14; Dt 5,18); il Levitico prescrive la pena di morte: “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte” (Lv 20,10). Gli scribi e i farisei, che interrogano Gesù, sono come sempre molto attaccati alla Legge di Mosè, ma dimenticano di aggiungere che la Legge prevede la condanna per entrambi i colpevoli, l’uomo e la donna adultera. Il fatto che pur sapendolo nessuno lo ricorda, ciò dimostra che la vera questione non è l’osservanza della Legge, ma ben altro, e il testo lo dice chiaramente: “Dicevano questo per metterlo alla prova e per aver motivo di accusarlo”. E’ dunque una domanda-trappola e di che cosa vogliono accusare Gesù? Gesù non può approvare la lapidazione perché smentirebbe tutta la predicazione sulla misericordia; se però pubblicamente difende la donna, potrà essere accusato di incitare il popolo a disobbedire alla Legge. Nel Vangelo di Giovanni (capitolo 5), lo abbiamo già visto dire al paralitico guarito di prendere il suo lettuccio, un atto proibito di sabato. Quel giorno non riuscirono a condannarlo, ma questa volta la disobbedienza sarebbe stata pubblica. In fondo, nonostante l’apparente rispetto con cui lo chiamano “Maestro”, Gesù è in pericolo tanto quanto la donna adultera: entrambi rischiano la morte. Gesù non risponde subito: “Si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”. Con il suo silenzio, silenzio costruttivo, invita ciascuno a riflettere senza umiliare nessuno e lui, incarnazione della misericordia, non mette in difficoltà né gli scribi e i farisei, né la donna adultera: Desidera che ciascuno faccia un passo avanti cercando di rivelare ai farisei e agli scribi il vero volto del Dio della misericordia. Quando risponde lo fa quasi ponendo  una domanda: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. A questo punto tutti se ne vanno, “uno per uno, cominciando dai più anziani». Niente di sorprendente: i più anziani appaiono quelli più pronti ad ascoltare l’appello alla misericordia. Chi sa quante volte hanno sperimentato su di loro la misericordia di Dio… Quante volte hanno letto, cantato, meditato il versetto: «Dio di tenerezza e di pietà, lento all’ira e ricco di amore» (Es 34,6. Quante volte hanno recitato il Salmo 50(51): «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia, nella tua grande bontà cancella il mio peccato”. Ora possono capire che la loro mancanza di misericordia è una colpa, una mancanza di fedeltà al Dio dell’Alleanza. La frase di Gesù potrebbe averli portati a questa riflessione: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra”. Essere il primo a scagliare la pietra era un’espressione nota a tutti nel contesto della lotta contro l’idolatria. La Legge non diceva che doveva essere il testimone dell’adulterio a lanciare la prima pietra; ma lo diceva espressamente per il caso dell’idolatria (Dt 13,9-10; Dt 17,7). Così la risposta di Gesù può essere interpretata come: «Questa donna è colpevole di adulterio, nel senso letterale del termine, è vero; ma voi non state forse commettendo un adulterio ancora più grave, un’infedeltà al Dio dell’Alleanza? I profeti spesso parlano dell’idolatria in termini di adulterio.  Alla fine, restano solo Gesù e la donna: è il faccia a faccia, come dice sant’Agostino, tra la miseria e la misericordia. Per lei, il Verbo compie ancora una volta la sua missione, dicendo la parola di riconciliazione. Isaia, parlando del servo di Dio, l’aveva annunciato: «Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino fumigante…» (Is 42,3). Ma questo non è buonismo perché Gesù dice chiaramente alla donna di non peccare più, il peccato rimane condannato, ma solamente il perdono può permettere al peccatore di rinascere alla speranza.

Nota: Cosa scrive Gesù per terra? L’evangelista non lo specifica, e questo ha dato origine a diverse interpretazioni: Alcuni Padri della Chiesa, come Sant’Agostino, ipotizzano che Gesù stesse scrivendo i peccati nascosti di coloro che accusavano la donna. Per questo, uno dopo l’altro, essi se ne vanno via; Rimanda alla Legge mosaica: secondo un’interpretazione rabbinica, potrebbe riferirsi a Geremia 17,13: “Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, sorgente di acqua viva.” Se fosse così, Gesù starebbe indicando che gli accusatori stessi sono colpevoli di infedeltà a Dio. Potrebbe essere un atto simbolico di distacco; scrivere nella polvere potrebbe simboleggiare che le accuse contro la donna sono effimere, destinate a svanire; potrebbe indicare un richiamo alla pazienza e alla riflessione; infine potrebbe essere un modo per non rispondere subito, spingendo gli accusatori a riflettere sulla loro ipocrisia.

Il gesto di Gesù invita a spostare l’attenzione non sulla colpa degli altri, ma sulla propria coscienza. Nessuno può condannare un altro senza prima esaminare se stesso. Questo episodio ci insegna che la misericordia di Dio supera la condanna umana, e che il perdono è sempre possibile quando c’è un cuore disposto a cambiare. 

La prima lettura e il Vangelo di questa domenica hanno lo stesso messaggio: dimentica il passato, non rimanere attaccato a esso… nulla, nemmeno i ricordi, deve impedirti di andare avanti. Nella prima lettura, Isaia parla al popolo in esilio… nel Vangelo, Gesù parla a una donna colta in flagrante adulterio: apparentemente, due casi molto diversi, ma il messaggio è lo stesso: volgi lo sguardo con decisione verso il futuro, non pensare più al passato.

+Giovanni D’Ercole

Lunedì, 31 Marzo 2025 12:13

Buoncostume adultera, Gesù imputato

Martedì, 25 Marzo 2025 12:26

4a Domenica di Quaresima (anno C)

Oggi 25 marzo, siamo nel cuore del Giubileo contemplando il mistero dell’Annunciazione e Incarnazione del Verbo. Era prima una festa prevalentemente mariana, come appare tuttora in tante tradizioni religiose popolari. Con la riforma liturgica è stata evidenziata come solennità cristologica importante che c’immerge nel cuore dell’Incarnazione del Verbo eterno: il Dio che si fa uomo per la nostra salvezza. Resta sempre forte la presenza di Maria – L’Annunziata - come colei che con il suo “sì” ha reso possibile il mistero della nostra salvezza, il prodigio appunto dell’Incarnazione; e invita ognuno di noi a unire il nostro “sì” al suo, consapevoli che, soltanto nell’umiltà, il cuore umano è capace di rispondere alla chiamata di Dio.

 

IV Domenica di Quaresima anno C (30 Marzo 2025) 

 

*Prima Lettura Dal libro di Giosuè (5, 9a 10- 12)

Mosè non è entrato nella terra promessa perché è morto sul monte Nebo, in corrispondenza del Mar Morto, sul lato che oggi corrisponde alla riva giordana. Non è quindi lui che ha introdotto il popolo d’Israele in Palestina, ma il suo servitore e successore Giosuè. Tutto il libro di Giosuè racconta l’ingresso del popolo nella terra promessa, a partire dalla traversata del Giordano dato che le tribù d’Israele sono entrate in Palestina da est. L’obiettivo di chi ha scritto questo libro è abbastanza chiaro: se l’autore ricorda l’opera di Dio a favore d’Israele è per esortare il popolo alla fedeltà. Nelle poche righe del testo odierno si nasconde un vero e proprio sermone che si articola in due insegnamenti: in primo luogo, non bisogna mai dimenticare che Dio ha liberato il popolo dall’Egitto; e in secondo luogo, se l’ha liberato è per dargli questa terra come aveva promesso ai nostri padri. Tutto riceviamo da Dio, ma quando lo dimentichiamo, ci mettiamo da soli in situazioni senza uscita. Per tale ragione il testo fa continui paralleli tra l’uscita dall’Egitto, la vita nel deserto e l’ingresso in Canaan. Ad esempio, nel capitolo 3 del libro di Giosuè, la traversata del Giordano è raccontata in modo solenne come la ripetizione del miracolo del Mar Rosso. Nel testo di questa domenica, l’autore insiste sulla Pasqua: “celebrarono la Pasqua, al quattordici del mese, alla sera”. Come la celebrazione della Pasqua aveva segnato l’uscita dall’Egitto e il miracolo del Mar Rosso, anche ora la Pasqua segue l’ingresso nella terra promessa e il miracolo del Giordano. Si tratta di paralleli intenzionali con i quali l’autore vuol dire che, dall’inizio alla fine di questa incredibile avventura, è lo stesso Dio che agisce per liberare il suo popolo, in vista della terra promessa. Il libro di Giosuè viene immediatamente dopo il Deuteronomio. “Giosuè” non è il suo nome, ma il soprannome datogli da Mosè: all’inizio, si chiamava semplicemente “Hoshéa”, “Osea” che significa “Egli salva” e Il nuovo nome, “Giosuè” (“Yeoshoua”) contiene il nome di Dio a indicare più esplicitamente che solo Dio salva. Giosuè del resto ha ben compreso che lui da solo non può liberare il suo popolo. La seconda parte dell’odierno testo è sorprendente perché all’apparenza si parla solo di cibo, ma c’è ben altro: “Il giorno dopo la Pasqua, mangiarono i prodotti di quella terra: azzimi e frumento abbrustolito. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna: quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.” Questo cambiamento di cibo fa pensare a uno svezzamento: si volta pagina, inizia una nuova vita e finisce il periodo del deserto con le sue difficoltà, recriminazioni e anche soluzioni miracolose. Ora Israele, arrivato nella terra donata da Dio, non sarà più nomade, ma popolo sedentario di agricoltori nutrendosi dei prodotti del suolo; un popolo adulto e responsabile della propria sussistenza. Avendo i mezzi per provvedere da solo ai propri bisogni, Dio non si sostituisce a lui perché nutre grande rispetto per la sua libertà. Questo popolo però non dimenticherà la manna e ne conserverà la lezione: come il Signore ha provveduto nel deserto, così Israele deve diventare sollecito verso chi per varie ragioni è in difficoltà. E’ detto chiaramente nel Libro del Deuteronomio: Dio ci ha insegnato a nutrire i poveri per aver fatto scendere il pane dal cielo per i figli d’Israele e adesso a noi tocca fare altrettanto (cf Dt.34, 6). Infine, la traversata del Giordano e l’ingresso nella terra promessa, terra della libertà, aiuta a meglio comprendere il battesimo di Gesù nel Giordano che diventerà l segno della nuova entrata nella vera terra della libertà. 

 

*Salmo responsoriale (33 (34) 2-3, 4-5, 6-7)

In questo salmo, come in altri, ogni versetto è costruito in due righe in dialogo e l’ideale sarebbe cantarlo a due cori alternati, riga per riga. E’ composto da 22 versetti corrispondenti alle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, in poesia chiamato acrostico: ogni lettera dell’alfabeto è posta verticalmente davanti a ogni versetto, che inizia con la lettera corrispondente nel margine. Questo procedimento, abbastanza frequente nei salmi, indica che ci troviamo di fronte a un salmo di ringraziamento per l’Alleanza. Potremmo dire che è la risposta alla prima lettura tratta dal libro di Giosuè, dove pur raccontando una storia, in realtà c’è un invito a rendere grazie per tutto ciò che Dio ha compiuto per Israele.  Il linguaggio del ringraziamento è onnipresente, come si nota già nei primi versetti: “Benedirò il Signore in ogni tempo… sulla mia bocca sempre la sua lode…magnificate con me il Signore… esaltiamo insieme il suo nome”. A parlare è Israele, testimone dell’opera di Dio: un Dio che risponde, libera, ascolta, salva: “Ho cercato il Signore: mi ha risposto; da ogni paura mi ha liberato… questo povero grida e il Signore lo ascolta: lo salva da tutte le sue angosce.”  Quest’attenzione di Dio emerge nel passo del capitolo 3 dell’Esodo, che era la prima lettura della scorsa domenica, terza di Quaresima cioè l’episodio del roveto ardente: “Ho visto la miseria del mio popolo… il suo grido è giunto fino a me… conosco le sue sofferenze”. Israele è il povero liberato della misericordia di Dio, come leggiamo in questo salmo e che ha scoperto la sua duplice missione: anzitutto insegnare a tutti gli umili la fede, intesa come dialogo tra Dio e l’uomo che grida la sua angoscia e Dio lo ascolta, lo libera e viene in suo aiuto; in secondo luogo essere disposti a collaborare con l’opera di Dio. Come Mosè e Giosuè sono stati strumenti di Dio per liberare il suo popolo e introdurlo nella terra promessa, così Israele sarà l’orecchio attento ai poveri e lo strumento della sollecitudine di Dio per loro: “i poveri ascoltino e si rallegrino”. Israele deve far risuonare lungo i secoli questo grido, che è una polifonia intrecciata di sofferenza, lode e speranza per alleviare ogni forma di povertà. Occorre però essere poveri nel cuore con il realismo di riconoscersi piccoli e invocare Dio in aiuto nella certezza che ci accompagna in ogni circostanz per aiutarci ad affrontare gli ostacoli della vita. 

 

*Seconda Lettura dalla seconda Lettera di san Paolo ai Corinti (5, 17-21)

Si può comprendere questo testo in due modi e tutto ruota attorno alla frase centrale: “non imputando (Dio) agli uomini le loro colpe” (v.19) che può avere due significati. Il primo: fin dall’inizio del mondo, Dio ha tenuto il conto dei peccati degli uomini, ma, nella sua grande misericordia, ha accettato di cancellarli grazie al sacrificio di Gesù Cristo e questa è la cosiddetta “sostituzione”, cioè Gesù si è fatto carico al nostro posto di un debito troppo grande per noi. Secondo: Dio non ha mai contato i peccati degli uomini e Cristo è venuto nel mondo per mostrarci che Dio è da sempre amore e perdono, come leggiamo nel salmo 102 (103): “Dio allontana da noi i nostri peccati”. L’intero cammino della rivelazione biblica ci fa passare dalla prima ipotesi alla seconda e, per capire meglio, occorre rispondere a queste tre domande: Dio tiene il conto dei nostri peccati? Si può parlare di «sostituzione» nella morte di Cristo? Se Dio non fa calcoli con noi e se non possiamo parlare di «sostituzione», come interpretare questo testo di Paolo?

Primo: Dio tiene il conto dei nostri peccati? All’inizio della storia dell’Alleanza, sicuramente Israele  ne era convinto e si capisce perché. L’uomo non può scoprire Dio se Dio stesso non gli si rivela. Ad Abramo Dio non parla di peccato, ma di alleanza, di promessa, di benedizione, di discendenza, e mai appare la parola “merito”. “Abramo ebbe fede nel Signore e ciò gli fu accreditato come giustizia” (Gen 15,6), dunque la fede è l’unica cosa che conta. Dio non tiene i conti delle nostre azioni, il che però non significa che possiamo fare qualsiasi cosa, perché siamo responsabili della costruzione del Regno. A Mosè il Signore si rivela come misericordioso e clemente, lento all’ira e ricco di amore (cf. Es 34,6). Davide, proprio in occasione del suo peccato, capisce che il perdono di Dio precede persino il nostro pentimento ed Isaia osserva  che Dio ci sorprende perché i suoi pensieri non sono i nostri pensieri: Egli è solo perdono per i peccatori (cf Is 55,6-8). Nell’Antico Testamento il popolo eletto sapeva già che Dio è tenerezza e perdono e l’ha chiamato Padre molto prima di noi. La parabola di Giona, ad esempio, è stata scritta proprio per mostrare che Dio si prende cura persino dei Niniviti, nemici storici di Israele.

Secondo: Si può parlare di «sostituzione» nella morte di Cristo? Se Dio non tiene il conto dei peccati e quindi non abbiamo un debito da pagare, non c’è bisogno che Gesù si sostituisca a noi. Inoltre, i testi del Nuovo Testamento parlano di solidarietà, mai di sostituzione e Gesù non agisce al nostro posto e non è nemmeno il nostro rappresentante. Egli è il «primogenito» come dice Paolo, che ci apre la strada e cammina davanti a noi. Mescolato con i peccatori ha chiesto il Battesimo da Giovanni e sulla croce ha accettato di dare la vita sulla croce per noi. Si è avvicinato a noi affinché noi potessimo avvicinarci a Lui.

Terzo: Come va quindi interpretato questo testo di Paolo? Anzitutto, Dio non ha mai tenuto il conto dei peccati degli uomini e Cristo è venuto nel mondo per farcelo comprendere. Quando a Pilato dice: “Sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37), afferma che la sua missione è rivelare il volto di Dio che è da sempre amore e perdono. E quando Paolo scrive: “… non imputando (Dio) agli uomini le loro colpe” intende chiarire che Dio cancella le nostre false idee su di Lui, quelle che lo dipingono come un contabile.  Gesù è venuto per mostrare il volto di Dio Amore, ma è stato rifiutato e per questo ha accettato di morire. Era diventato troppo scomodo per le autorità religiose del tempo, che pensavano di sapere meglio di lui chi fosse Dio ed è dunque morto in croce a causa dell’orgoglio umano che si è trasformato in odio implacabile. A Filippo nel cenacolo disse: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9) e pur in mezzo all’umiliazione e all’odio ha proferito solamente parole di perdono. Si comprende a questo punto la frase con cui si chiude questo brano: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (v. 21). Sul volto di Cristo crocifisso contempliamo fino a che punto arriva l’orrore del nostro peccato, ma anche fino a che punto giunge il perdono di Dio e da questa contemplazione può nascere la nostra conversione: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, testo del profeta  Zaccaria (12,10), che troviamo nel IV vangelo (Gv 19,37). Da qui nasce per noi la vocazione di ambasciatori dell’amore di Dio: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (v.20).

 

*Dal Vangelo secondo Luca (15, 1-3. 11-32)

La chiave interpretativa di questo testo si trova proprio nelle prime parole. Scrive san Luca che “si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo” mentre “i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. I primi sono pubblici peccatori da evitare, mentre gli altri sono persone oneste, che cercano di fare ciò che piace a Dio. In verità i farisei erano in genere persone rette, pie e fedeli alla Legge di Mosè, scioccate però dal comportamento di Gesù che sembra non capire con chi ha a che fare se persino mangia e si mescola con i peccatori. Dio è il Santo e per loro c’era un’incompatibilità totale tra Dio e i peccatori e pertanto Gesù, se era veramente da Dio, doveva evitare di frequentarli. Questa parabola intende aiutare a scoprire il vero volto di Dio che è Padre. In effetti, il personaggio principale di questa storia è Dio stesso, il padre che ha due tipi di figli, entrambi con almeno un punto in comune, cioè il modo di concepire  la relazione con il padre in termini di meriti e contabilità anche se si comportano in maniera differente: il minore l’offende gravemente, a differenza del maggiore, e alla fine però riconosce il suo peccato: “Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”; il maggiore  invece si vanta di aver sempre obbedito si lamenta però di non aver mai ricevuto nemmeno un capretto come meriterebbe. Il Padre è fuori da questi calcoli e non vuole sentir parlare di meriti perché ama i suoi figli e in questa relazione non c’è spazio per il calcolo della contabilità. Al minore, che aveva preteso “la mia parte di patrimonio che mi spetta”, si era spinto ben oltre la richiesta, come alla fine dirà a entrambi: tutto ciò che è mio è vostro. Al figlio prodigo che torna non lascia nemmeno il tempo di esprimere un qualche pentimento, non esige spiegazioni; al contrario vuole subito fare festa, perché “questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato”. Chiara la lezione: con Dio non è questione di calcoli, meriti, anche se facciamo fatica a debellare questa mentalità e tutta la Bibbia, fin dall’Antico Testamento, mostra la lenta e paziente pedagogia con cui Dio cerca di farsi conoscere come Padre, pronto a far festa ogni volta che ritorniamo da lui.

Due piccoli commenti per concludere:

1. Nella prima lettura, tratta dal libro di Giosuè, Israele viene nutrito dalla manna durante la traversata del deserto, mentre qui non c’è manna per il figlio che rifiuta di vivere con suo padre e si ritrova in un deserto esistenziale, perché si è tagliato fuori da solo. 

2. Circa invece il legame con la parabola della pecora smarrita, che si trova sempre in questo capitolo di Luca, si osserva che il pastore va a cercare la pecora smarrita e la riporta indietro mettendola sulle spalle, il padre invece non impedisce al figlio di partire e non lo costringe a tornare perché rispetta fino in fondo la sua libertà.

+Giovanni D’Ercole

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Today’s Gospel passage (cf. Lk 10:1-12, 17-20) presents Jesus who sends 72 disciples on mission, in addition to the 12 Apostles. The number 72 likely refers to all the nations. Indeed, in the Book of Genesis 72 different nations are mentioned (cf. 10:1-32) [Pope Francis]
L’odierna pagina evangelica (cfr Lc 10,1-12.17-20) presenta Gesù che invia in missione settantadue discepoli, in aggiunta ai dodici apostoli. Il numero settantadue indica probabilmente tutte le nazioni. Infatti nel libro della Genesi si menzionano settantadue nazioni diverse (cfr 10,1-32) [Papa Francesco]
Christ reveals his identity of Messiah, Israel's bridegroom, who came for the betrothal with his people. Those who recognize and welcome him are celebrating. However, he will have to be rejected and killed precisely by his own; at that moment, during his Passion and death, the hour of mourning and fasting will come (Pope Benedict)
Cristo rivela la sua identità di Messia, Sposo d'Israele, venuto per le nozze con il suo popolo. Quelli che lo riconoscono e lo accolgono con fede sono in festa. Egli però dovrà essere rifiutato e ucciso proprio dai suoi: in quel momento, durante la sua passione e la sua morte, verrà l'ora del lutto e del digiuno (Papa Benedetto)
Peter, Andrew, James and John are called while they are fishing, while Matthew, while he is collecting tithes. These are unimportant jobs, Chrysostom comments, "because there is nothing more despicable than the tax collector, and nothing more common than fishing" (In Matth. Hom.: PL 57, 363). Jesus' call, therefore, also reaches people of a low social class while they go about their ordinary work [Pope Benedict]
Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo -  “poiché non c'è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca” (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario [Papa Benedetto]
The invitation given to Thomas is valid for us as well. We, where do we seek the Risen One? In some special event, in some spectacular or amazing religious manifestation, only in our emotions and feelings? [Pope Francis]
L’invito fatto a Tommaso è valido anche per noi. Noi, dove cerchiamo il Risorto? In qualche evento speciale, in qualche manifestazione religiosa spettacolare o eclatante, unicamente nelle nostre emozioni e sensazioni? [Papa Francesco]
A life without love and without truth would not be life. The Kingdom of God is precisely the presence of truth and love and thus is healing in the depths of our being. One therefore understands why his preaching and the cures he works always go together: in fact, they form one message of hope and salvation (Pope Benedict)
Una vita senza amore e senza verità non sarebbe vita. Il Regno di Dio è proprio la presenza della verità e dell’amore e così è guarigione nella profondità del nostro essere. Si comprende, pertanto, perché la sua predicazione e le guarigioni che opera siano sempre unite: formano infatti un unico messaggio di speranza e di salvezza (Papa Benedetto)
His slumber causes us to wake up. Because to be disciples of Jesus, it is not enough to believe God is there, that he exists, but we must put ourselves out there with him; we must also raise our voice with him. Hear this: we must cry out to him. Prayer is often a cry: “Lord, save me!” (Pope Francis)
Il suo sonno provoca noi a svegliarci (Papa Francesco)

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