Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
La generosità irruente di Pietro non lo salvaguarda, tuttavia, dai rischi connessi con l’umana debolezza. E’ quanto, del resto, anche noi possiamo riconoscere sulla base della nostra vita. Pietro ha seguito Gesù con slancio, ha superato la prova della fede, abbandonandosi a Lui. Viene tuttavia il momento in cui anche lui cede alla paura e cade: tradisce il Maestro (cfr Mc 14,66-72). La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione […]
Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 24 maggio 2006]
L'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo Redentore - come è stato già detto - rivela pienamente l'uomo all'uomo stesso. Questa è - se così è lecito esprimersi - la dimensione umana del mistero della Redenzione. In questa dimensione l'uomo ritrova la grandezza, la dignità e il valore propri della sua umanità. Nel mistero della Redenzione l'uomo diviene nuovamente «espresso» e, in qualche modo, è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato! «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»64. L'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo - non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve «appropriarsi» ed assimilare tutta la realtà dell'Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso. Quale valore deve avere l'uomo davanti agli occhi del Creatore se «ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore»65, se «Dio ha dato il suo Figlio», affinché egli, l'uomo, «non muoia, ma abbia la vita eterna»66.
In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità dell'uomo si chiama Vangelo, cioè la Buona Novella. Si chiama anche Cristianesimo. Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche, e forse di più ancora, «nel mondo contemporaneo». Questo stupore, ed insieme persuasione e certezza, che nella sua profonda radice è la certezza della fede, ma che in modo nascosto e misterioso vivifica ogni aspetto dell'umanesimo autentico, è strettamente collegato a Cristo. Esso determina anche il suo posto, il suo - se così si può dire - particolare diritto di cittadinanza nella storia dell'uomo e dell'umanità. La Chiesa, che non cessa di contemplare l'insieme del mistero di Cristo, sa con tutta la certezza della fede, che la Redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all'uomo la dignità ed il senso della sua esistenza nel mondo, senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato. E perciò la Redenzione si è compiuta nel mistero pasquale, che attraverso la croce e la morte conduce alla risurrezione.
Il còmpito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare, della nostra, è di dirigere lo sguardo dell'uomo, di indirizzare la coscienza e l'esperienza di tutta l'umanità verso il mistero di Cristo, di aiutare tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità della Redenzione, che avviene in Cristo Gesù. Contemporaneamente, si tocca anche la più profonda sfera dell'uomo, la sfera - intendiamo - dei cuori umani, delle coscienze umane e delle vicende umane.
[Papa Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, n.10
In questi giorni di Quaresima abbiamo visto la persecuzione che ha subìto Gesù e come i dottori della Legge si sono accaniti contro di lui: è stato giudicato sotto accanimento, con accanimento, essendo innocente. Io vorrei pregare oggi per tutte le persone che soffrono una sentenza ingiusta per l’accanimento.
La profezia di Isaia che abbiamo ascoltato è una profezia sul Messia, sul Redentore, ma anche una profezia sul popolo di Israele, sul popolo di Dio: possiamo dire che può essere una profezia su ognuno di noi. In sostanza, la profezia sottolinea che il Signore ha eletto il suo servo dal seno materno: per due volte lo dice (cf. Is. 49,1). Dall’inizio il suo servo è stato eletto, dalla nascita o prima della nascita. Il popolo di Dio è stato eletto prima della nascita, anche ognuno di noi. Nessuno di noi è caduto nel mondo per casualità, per caso. Ognuno ha un destino, ha un destino libero, il destino dell’elezione di Dio. Io nasco con il destino di essere figlio di Dio, di essere servo di Dio, con il compito di servire, di costruire, di edificare. E questo, dal seno materno.
Il Servo di Jahvé, Gesù, servì fino alla morte: sembrava una sconfitta, ma era il modo di servire. E questo sottolinea il modo di servire che noi dobbiamo prendere nella nostra vita. Servire è darsi, darsi agli altri. Servire è non pretendere per ognuno di noi qualche beneficio che non sia il servire. È la gloria, servire; e la gloria di Cristo è servire fino ad annientare sé stesso, fino alla morte, morte di Croce (cf. Fil 2,8). Gesù è il servo di Israele. Il popolo di Dio è servo, e quando il popolo di Dio si allontana da questo atteggiamento di servire è un popolo apostata: si allontana dalla vocazione che Dio gli ha dato. E quando ognuno di noi si allontana da questa vocazione di servire, si allontana dall’amore di Dio. Ed edifica la sua vita su altri amori, tante volte idolatrici.
Il Signore ci ha eletti dal seno materno. Ci sono, nella vita, cadute: ognuno di noi è peccatore e può cadere ed è caduto. Soltanto la Madonna e Gesù [sono senza peccato]: tutti gli altri siamo caduti, siamo peccatori. Ma quello che importa è l’atteggiamento davanti al Dio che mi ha eletto, che mi ha unto come servo; è l’atteggiamento di un peccatore che è capace di chiedere perdono, come Pietro, che giura che “no, io mai ti rinnegherò, Signore, mai, mai, mai!”, poi, quando canta il gallo, piange. Si pente (cf. Mt. 26,75). Questa è la strada del servo: quando scivola, quando cade, chiedere perdono.
Invece, quando il servo non è capace di capire che è caduto, quando la passione lo prende in tal modo che lo porta all’idolatria, apre il cuore a satana, entra nella notte: è quello che è accaduto a Giuda (cf. Mt. 27, 3-10).
Pensiamo oggi a Gesù, il servo, fedele nel servizio. La sua vocazione è servire, fino alla morte e morte di Croce (cf. Fil. 2,5-11). Pensiamo a ognuno di noi, parte del popolo di Dio: siamo servi, la nostra vocazione è per servire, non per approfittare del nostro posto nella Chiesa. Servire. Sempre in servizio.
Chiediamo la grazia di perseverare nel servizio. A volte con scivolate, cadute, ma la grazia almeno di piangere come ha pianto Pietro.
[Papa Francesco, omelia s. Marta 7 aprile 2020]
Segno alleato. Cammino incantevole
(Gv 12,1-11)
Man mano che si avvicina alla sua ‘ora’, Cristo sembra perdere i suoi tratti ufficiali e si fa sentire sempre più intimo, alla nostra portata.
Il dialogo con gli uomini s’intesse più di gesti silenziosi che di parole.
Dopo la giornata pubblica di ieri, è in tal guisa che Gesù si fa presente nella comunità dei famigliari senza capi; di soli fratelli e sorelle.
Signore e Maestro senza turbine né trionfi; anzi, ricercato e costretto alla clandestinità.
Viene accolto in una Casa tranquilla, che lascia spazio alle emozioni, sebbene su di lui pendesse un mandato di cattura.
Chiesa dove si gode un’aria di pace, malgrado la mancanza di sicurezze - e frangenti contrari attorno.
Così vivevano le misere comunità giovannee dell’Asia Minore sotto Domiziano - indigenti e sottratte alla gloria esteriore, all’osanna delle folle. Ma in grado di curare sia le tensioni che le resistenze.
Erano piccole realtà «in ascolto», piene di voglia di comunione e rispettose.
Senza troppe pressioni, esse guidavano le energie verso direzioni più naturali. Come capita fra pochi amici.
Clima di conversazione e tu per tu, di vita meravigliosamente umana e quotidiana che vuole trovare posto in noi. Dove i minori e malfermi ancora ristorano il Maestro con delicati omaggi.
Nella condivisione e nella comprensione reciproca, le minuscole fraternità facevano trasalire di gioia quotidiana e ‘vita nuova’, trasmesse a coloro che giungevano da tutte le contrade.
Vivevano in semplicità l’amore. Empatia che a chiunque faceva valicare difficoltà e timori.
Amicizia che smuoveva e trascinava per attrazione - nei gesti di tenera devozione, che sganciava ciascuno da atteggiamenti e comportamenti umilianti la propria spontaneità.
Ecco lo Spezzare il Pane: gesto senza prezzo, al di là delle convenzioni sociali; convincente, perché segno ‘alleato’ gratuito.
Esso non rifiutava la natura genuina di ciascuno. L’Eucaristia non era un fortino esclusivo.
Anche oggi possiamo - come Maria - senza troppo computare, «ungere i piedi» del Signore: celebrare il Dono di una Via.
I fedeli capivano che la loro parte migliore poteva riconoscersi non in un circolo-modello, ma [allo stato più puro] nelle persone dai piedi stanchi e nella Persona di quel primo Venuto sempre in procinto di partire - vivendoci dentro.
Significava servire e riconoscersi, assimilare e consacrare il proprio Cammino personale in quello complessivo del Figlio di Dio, fattosi umanissima e divina Presenza, che ricolma e convince.
Il lungo Viaggio del Cristo è traccia del nostro: dall’iniziativa del Padre alla capacità dei figli di accoglierlo, custodirlo, venerarlo, corrispondergli - semplicemente accostando le Radici - e non rifiutarlo, se “perdente”.
Ecco l’omaggio d’amicizia.
Solo questo riempie la Casa di Betania - ossia la Chiesa che vale la pena sperimentare - del profumo del Cristo totale e Vivo, e lo ‘rivela’.
Gesù difende il diritto dell’amore «da dentro» di esprimersi liberamente: dove tutto diventa possibile - anche lo spreco del Gratis che non soppesa.
Senza astuzie unilaterali, quindi non rovinando la vita autentica e ogni rinascita interiore.
[Lunedì Santo, 14 aprile 2025]
Segno alleato. Cammino incantevole
(Gv 12,1-11)
Man mano che si avvicina alla sua ora, Cristo sembra perdere i suoi tratti ufficiali e si fa sentire sempre più intimo, alla nostra portata.
Il dialogo con gli uomini s’intesse più di gesti silenziosi che di parole.
Dopo la giornata pubblica di ieri, è in tal guisa che Gesù si fa presente nella comunità dei famigliari senza capi; di soli fratelli e sorelle.
Signore e Maestro senza turbine né trionfi; anzi, ricercato e costretto alla clandestinità.
Viene accolto in una Casa tranquilla, la quale lascia spazio alle emozioni, sebbene su di lui pendesse un mandato di cattura.
Chiesa dove si gode un’aria di pace, pur nella mancanza di sicurezze - e frangenti contrari attorno.
Così vivevano le misere comunità giovannee dell’Asia Minore sotto Domiziano: indigenti e sottratte alla gloria esteriore, all’osanna delle folle.
Ma in grado di curare sia le tensioni che le resistenze.
Si godeva dell’atmosfera semplice, senza barricate, dei rapporti veri [non solo essenziali] in grado di risvegliare tendenze innate e sentimenti; opportuni a trasformare disagi e identificazioni.
I labirinti mentali dei timori e dei ruoli “adeguati”, avrebbero intrappolato l’energia vitale di sorelle e fratelli in un perimetro esterno, con eccesso di pensiero e di controllo.
Nessuna gabbia dunque che potesse chiudere la dimensione d’unicità nell’amore, e del Mistero, nel cerchio degli influssi che avrebbero svuotato i processi interni.
Le assemblee dei primordi erano piccole realtà in ascolto, piene di voglia di comunione, e rispettose.
Senza troppe pressioni, esse guidavano le energie verso direzioni più naturali. Come capita fra pochi amici.
Clima di conversazione e tu per tu, di vita meravigliosamente umana, quotidiana, che ancora vuole trovare posto in noi. Dove i minori e malfermi (ancora) ristorano il Maestro con delicati omaggi.
Nella condivisione e nella comprensione reciproca, le minuscole fraternità facevano trasalire di gioia quotidiana e vita nuova, nella capacità di coesistenza.
Realtà trasmesse a coloro che giungevano da tutte le contrade; senza prima le configurazioni.
Non era ancora... la chiesa degli eventi plausibili e di piazza, ostentati e di massa - che poi cerca ‘il pieno’ per affermarsi in modo eloquente, fare proselitismo, o arricchire come Giuda con risorse altrui.
Vivevano in semplicità l’amore. Empatia che a chiunque faceva valicare difficoltà e timori.
Amicizia che smuoveva e trascinava per attrazione - nei gesti di tenera devozione, che sganciava da atteggiamenti e comportamenti umilianti la spontaneità.
Ecco lo Spezzare il Pane, gesto senza prezzo, al di là delle convenzioni sociali; convincente perché segno alleato, gratuito.
Esso non rifiutava la natura genuina di ciascuno. L’Eucaristia non era un fortino esclusivo.
Anche oggi possiamo - come Maria - senza troppo computare, ungere i piedi del Signore: celebrare il Dono di una Via.
I fedeli capivano che la loro parte migliore poteva riconoscersi non in un circolo-modello.
Allo stato più puro, sorelle e fratelli trovavano corrispondenza nelle persone dai piedi stanchi, e nella Persona di quel primo Venuto sempre in procinto di partire - vivendoci dentro.
Significava servire e riconoscersi, assimilare e consacrare il proprio Cammino personale in quello complessivo del Figlio di Dio, fattosi umanissima e divina Presenza che ricolmava e convinceva.
Il lungo Viaggio del Cristo è traccia del nostro: dall’iniziativa del Padre alla capacità dei figli di accoglierlo, custodirlo, venerarlo, corrispondergli - semplicemente accostando le ‘radici’.
E non rifiutarlo, se “perdente”. Ecco l’omaggio d’intesa.
Solo questo riempie la Casa di Betania - ossia la Chiesa che vale la pena sperimentare - del profumo del Cristo totale e Vivo. E lo rivela.
In tali circostanze, Gesù difende il diritto dell’amore da dentro di esprimersi liberamente: dove tutto diventa possibile.
Viceversa, il convivente-habitué privo dello “spreco” del Gratis e di un Esodo ideale senza incanto, rimane stordito dal condizionamento delle false, troppo comuni guide spirituali.
Mestieranti opportunisti, che tutto soppesano in modo astuto, unilaterale - rovinando la vita autentica e ogni rinascita interiore.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quando mi comporto in modo da diffondere il profumo della gratuità?
La realtà in cui sono introdotto è una Betania ospitale? Aiuta o soffoca le sorprese ministeriali?
L’arrivo di un senza voce assume l’importanza di evento pasquale e mette tutti in festa, o nel sospetto?
Ti comprometti dall’intimo... o prima cerchi l’approvazione?
Immedesimazione e libertà. Florilegio
«Quindi conta soprattutto il valore interiore del dono. Nella Sacra Scrittura e secondo le categorie evangeliche, “elemosina” significa anzitutto dono interiore. Significa l’atteggiamento di apertura “verso l’altro”» [Giovanni Paolo II, Udienza Generale 28 marzo 1979].
«Pensiamo a quel momento quando Maria lava i piedi di Gesù con il nardo, tanto costoso: è un momento religioso, un momento di gratitudine, un momento di amore. E Giuda si distacca e fa la critica amara: “Ma questo potrebbe essere usato per i poveri!”. Questo è il primo riferimento che ho trovato io, nel Vangelo, della povertà come ideologia. L’ideologo non sa cosa sia l’amore, perché non sa darsi» [Papa Francesco, omelia s. Marta 14/05/2013]
«Lasciamolo entrare nella nostra casa. Lasciamo che la nostra vita sia invasa dall’irrefrenabile profumo del dono. L’amore immenso e gratuito di Dio si fa carne, si lascia contemplare sulla croce in tutta la sua sconvolgente e folle radicalità» [Papa Francesco].
«L’unguento che Maria spande è il simbolo della comunione nuziale con Gesù espresso dalla comunità cristiana. Celebriamo la chiamata delle nostre comunità cristiane, rappresentate da Maria di Betania, alla comunione totale con Gesù, datore di vita. È lui che trasforma quello che sarebbe dovuto essere il banchetto funebre in memoria di Lazzaro in un banchetto di gioia. È lui che tramuta il fetore insopportabile di un morto “quadriduano” nel profumo che inonda la casa di letizia. È lui che protesta contro tutti i Giuda della terra, i quali considerano sprecato l’unguento prezioso della intimità con Dio è oppongono i poveri al Signore. È lui che rifiuta la ‘praticità’ di tutti coloro che preferiscono l’efficienza del denaro a ogni estasi d’amore, e riducono malinconicamente in valuta monetaria anche ciò che non ha prezzo. È lui, insomma, che dobbiamo ricercare nella preghiera d’abbandono, nell’esperienza contemplativa e nella consuetudine di vita.
Il Signore ci preservi dall’errore di Giuda il quale, insensibile al profumo del nardo, avverte solo il tintinnare dei soldi, e, invece che percepire la lucentezza dell’olio, si lascia sedurre dallo scintillio dell’argento. Qual è questo profumo d’unguento di cui dobbiamo riempire la casa, e qual è questo buon profumo di Cristo che dobbiamo diffondere nel mondo? Il profumo che deve riempire la casa è la comunione. Naturalmente, come quello comprato da Maria di Betania, l’olio della comunione ha un prezzo carissimo. E noi dobbiamo pagarlo, senza sconti, con tanta preghiera, anche perché non è un prodotto commerciale in vendita nelle nostre profumerie, né è frutto dei nostri sforzi titanici. È un dono di Dio che dobbiamo implorare senza stancarci. Ma l’otterremo, ne sono certo; e il suo profumo riempirà tutta la nostra Chiesa» [don Tonino Bello, Lessico di comunione]
«C’è una povertà verticale che ci riguarda tutti, è nostra. Una volta riconosciuta, questa povertà si esprime in un gesto gratuito di adorazione, crea lo spazio “inutile” della liturgia, offre a Dio le primizie togliendosele di bocca. Nella vita di fede c’è uno spreco inevitabile e amabile, un esaltarsi nel puro nulla: uomini e donne che si sciupano consacrandosi a Dio, tempo perduto nella preghiera. L’adorazione è spreco. Che sarebbe la Chiesa, se la borsa di Iscariote fosse piena per i poveri e la casa di Betania vuota di profumo?» [V. Mannucci]
Il Vangelo poc’anzi proclamato ci conduce a Betania, dove, come annota l’Evangelista, Lazzaro, Marta e Maria offrirono una cena al Maestro (Gv 12,1). Questo banchetto in casa dei tre amici di Gesù è caratterizzato dai presentimenti della morte imminente: i sei giorni prima di Pasqua, il suggerimento del traditore Giuda, la risposta di Gesù che richiama uno degli atti pietosi della sepoltura anticipato da Maria, l’accenno che non sempre lo avrebbero avuto con loro, il proposito di eliminare Lazzaro in cui si riflette la volontà di uccidere Gesù. In questo racconto evangelico, c’è un gesto sul quale vorrei attirare l’attenzione: Maria di Betania “prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli” (12,3). Il gesto di Maria è l’espressione di fede e di amore grandi verso il Signore: per lei non è sufficiente lavare i piedi del Maestro con l’acqua, ma li cosparge con una grande quantità di profumo prezioso, che – come contesterà Giuda – si sarebbe potuto vendere per trecento denari; non unge, poi, il capo, come era usanza, ma i piedi: Maria offre a Gesù quanto ha di più prezioso e con un gesto di devozione profonda. L’amore non calcola, non misura, non bada a spese, non pone barriere, ma sa donare con gioia, cerca solo il bene dell’altro, vince la meschinità, la grettezza, i risentimenti, le chiusure che l’uomo porta a volte nel suo cuore.
Maria si pone ai piedi di Gesù in umile atteggiamento di servizio, come farà lo stesso Maestro nell’Ultima Cena, quando – ci dice il quarto Vangelo – “si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli” (Gv 13,4-5), perché – disse – “anche voi facciate come io ho fatto a voi” (v. 15): la regola della comunità di Gesù è quella dell’amore che sa servire fino al dono della vita. E il profumo si spande: “tutta la casa – annota l’Evangelista – si riempì dell’aroma di quel profumo” (Gv 12,3). Il significato del gesto di Maria, che è risposta all’Amore infinito di Dio, si diffonde tra tutti i convitati; ogni gesto di carità e di devozione autentica a Cristo non rimane un fatto personale, non riguarda solo il rapporto tra l’individuo e il Signore, ma riguarda l’intero corpo della Chiesa, è contagioso: infonde amore, gioia, luce.
“Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11): all’atto di Maria si contrappongono l’atteggiamento e le parole di Giuda, che, sotto il pretesto dell’aiuto da recare ai poveri, nasconde l’egoismo e la falsità dell’uomo chiuso in se stesso, incatenato dall’avidità del possesso, che non si lascia avvolgere dal buon profumo dell’amore divino. Giuda calcola là dove non si può calcolare, entra con animo meschino dove lo spazio è quello dell’amore, del dono, della dedizione totale. E Gesù, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, interviene a favore del gesto di Maria: “Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura” (Gv 12,7). Gesù comprende che Maria ha intuito l’amore di Dio ed indica che ormai la sua ”ora” si avvicina, l’“ora” in cui l’Amore troverà la sua espressione suprema sul legno della Croce: il Figlio di Dio dona se stesso perché l’uomo abbia la vita, scende negli abissi della morte per portare l’uomo alle altezze di Dio, non ha paura di umiliarsi “facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,8). Sant’Agostino, nel Sermone in cui commenta tale brano evangelico, rivolge a ciascuno di noi, con parole incalzanti, l’invito ad entrare in questo circuito d’amore, imitando il gesto di Maria e ponendosi concretamente alla sequela di Gesù. Scrive Agostino: “Ogni anima che voglia essere fedele, si unisce a Maria per ungere con prezioso profumo i piedi del Signore… Ungi i piedi di Gesù: segui le orme del Signore conducendo una vita degna. Asciugagli i piedi con i capelli: se hai del superfluo dallo ai poveri, e avrai asciugato i piedi del Signore” (In Ioh. evang., 50, 6).
[Papa Benedetto, omelia 29 marzo 2010]
1. “Paenitemini et date eleemosynam” (cf. Mc 1,15 e Lc 12,33).
La parola “elemosina” oggi non l’ascoltiamo volentieri. Sentiamo in essa qualcosa di umiliante. Questa parola sembra supporre un sistema sociale in cui regna l’ingiustizia, l’ineguale distribuzione dei beni, un sistema che dovrebbe essere cambiato con riforme adeguate. E se tali riforme non venissero compiute, si delineerebbe all’orizzonte della vita sociale la necessità di cambiamenti radicali, soprattutto nell’ambito dei rapporti tra gli uomini. La stessa convinzione troviamo nei testi dei Profeti dell’Antico Testamento, ai quali attinge spesso la Liturgia nel tempo di Quaresima. I Profeti considerano questo problema a livello religioso: non vi è vera conversione a Dio, non può esserci autentica “religione” senza riparare ingiurie e ingiustizie nei rapporti tra gli uomini, nella vita sociale. Eppure in tale contesto i Profeti esortano l’elemosina.
Non usano nemmeno la parola “elemosina” che del resto in ebraico è “sedaqah”, cioè proprio “giustizia”. Chiedono aiuto per quelli che subiscono ingiustizia e per i bisognosi: non tanto in virtù della misericordia, quanto piuttosto in virtù del dovere della carità operante. “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: / sciogliere le catene inique, / togliere i legami del giogo, / rimandare liberi gli oppressi / e spezzare ogni giogo? / Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, / nell’indurre in casa i miseri, senza tetto, / nel vestire uno che vedi nudo, / senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?” (Is 58,6-7).
La parola greca “eleemosyne” si trova nei tardivi libri della Bibbia e la pratica dell’elemosina è una verifica di una autentica religiosità. Gesù fa dell’elemosina una condizione dell’accesso al suo regno (cf. Lc 12,32-33) e della vera perfezione (Mc 10,21 e par.). D’altra parte, quando Giuda – di fronte alla donna che ungeva i piedi di Gesù – pronunciò la frase: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento danari, per poi darli ai poveri?” (Gv 12,5), Cristo difese la donna rispondendo: “I poveri... li avete sempre con voi, ma non sempre avete me” (Gv 12,8). L’una e l’altra frase offrono motivo di grande riflessione.
2. Che cosa significa la parola “elemosina”.
La parola greca “eleemosyne” proviene da “eleos” che vuol dire compassione e misericordia; inizialmente indicava l’atteggiamento dell’uomo misericordioso e, in seguito, tutte le opere di carità verso i bisognosi. Questa parola trasformata è rimasta quasi in tutte le lingue europee.
In francese: “aumône”; spagnolo: “limosna”; portoghese: “esmola”; tedesca: “Almosen”; inglese: “alms”. Perfino l’espressione polacca “jalmuzna” è la trasformazione della parola greca.
Dobbiamo qui differenziare il significato oggettivo di questo termine dal significato che gli diamo nella nostra coscienza sociale. Come risulta da ciò che abbiamo già detto in precedenza, al termine “elemosina” attribuiamo spesso, nella nostra coscienza sociale, un significato negativo. Diverse sono le circostanze che vi hanno contribuito e vi contribuiscono anche oggi. Invece, l’“elemosina” in se stessa, come aiuto a chi ne ha bisogno, come “il fare partecipare gli altri ai propri beni”, non suscita assolutamente simili associazioni negative. Possiamo non esser d’accordo con chi fa l’elemosina, per il modo in cui la fa. Possiamo anche non consentire con chi tende la mano chiedendo l’elemosina, in quanto non si sforza di guadagnarsi la vita da sé. Possiamo non approvare la società, il sistema sociale, in cui ci sia necessità di elemosina. Tuttavia il fatto stesso di prestare aiuto a chi ne ha bisogno, il fatto di condividere con gli altri i propri beni deve suscitare rispetto.
Vediamo quanto nell’intendere le espressioni verbali bisogna liberarsi dall’influsso delle varie circostanze accidentali: circostanze spesso improprie, che gravano sul loro significato ordinario. Queste circostanze sono del resto alle volte in se stesse positive (ad esempio, nel nostro caso: l’aspirazione ad una società giusta, in cui non vi sia necessità di elemosina, perché vi regni la giusta distribuzione dei beni).
Quando il Signore Gesù parla di elemosina, quando chiede di praticarla, lo fa sempre nel senso di portare aiuto a chi ne ha bisogno, di condividere i propri beni con i bisognosi, cioè nel senso semplice ed essenziale, che non ci permette di dubitare del valore dell’atto denominato con il termine “elemosina”, anzi ci sollecita ad approvarlo: come atto buono, come espressione di amore verso il prossimo e come atto salvifico.
Inoltre, in un momento di particolare importanza, Cristo pronuncia queste parole significative: “I poveri... li avete sempre con voi” (Gv 12,8). Con tali parole non intende dire che i cambiamenti delle strutture sociali ed economiche non valgano e che non si debba tentare diverse vie per eliminare l’ingiustizia, l’umiliazione, la miseria, la fame. Vuole soltanto dire che nell’uomo ci saranno sempre delle necessità, le quali non potranno essere altrimenti soddisfatte se non con l’aiuto al bisognoso e col far partecipare gli altri ai propri beni... Di quale aiuto si tratta? Di quale partecipazione? Forse soltanto di “elemosina”, intesa sotto forma di denaro, di soccorso materiale?
3. Certamente Cristo non toglie l’elemosina dal nostro campo visivo. Egli pensa anche all’elemosina pecuniaria, materiale, ma a modo suo. Più di ogni altro eloquente, a questo proposito, è l’esempio della vedova povera, che deponeva nel tesoro del tempio alcuni spiccioli: dal punto di vista materiale, un’offerta difficilmente paragonabile alle offerte che davano gli altri. Tuttavia Cristo disse: “Questa vedova... ha dato tutto quanto aveva per vivere” (Lc 21,3-4). Quindi conta soprattutto il valore interiore del dono: la disponibilità a condividere tutto, la prontezza a dare se stessi.
Ricordiamo qui San Paolo: “Se anche distribuissi tutte le mie sostanze... ma non avessi la carità, niente mi giova” (1Cor 13,3). Anche Sant’Agostino (S. Agostino, Enarrat. in Ps. 125, 5) scrive bene a questo proposito: “Se stendi la mano per donare, ma nel cuore non hai misericordia, non hai fatto nulla; se invece nel cuore hai misericordia, anche quando non avessi nulla da donare con la tua mano, Dio accetta la tua elemosina”.
Qui tocchiamo il nucleo centrale del problema. Nella Sacra Scrittura e secondo le categorie evangeliche, “elemosina” significa anzitutto dono interiore. Significa l’atteggiamento di apertura “verso l’altro”. Proprio tale atteggiamento è un fattore indispensabile della “metànoia”, cioè della conversione, così come sono anche indispensabili la preghiera e il digiuno. Infatti ben si esprime Sant’Agostino (S. Agostino, Enarrat. in Ps. 42, b): “Quanto celermente sono accolte le preghiere di chi opera il bene! E questa è la giustizia dell’uomo nella vita presente: il digiuno, l’elemosina, l’orazione”: la preghiera, quale apertura verso Dio; il digiuno, quale espressione del dominio di sé anche nel privarsi di qualcosa, nel dire “no” a se stessi; e infine l’elemosina, quale apertura “verso gli altri”. Tale quadro delinea chiaramente il Vangelo quando ci parla della penitenza, della “metànoia” Solo con un atteggiamento totale – nel rapporto con Dio, con se stesso e con il prossimo – l’uomo raggiunge la conversione e permane nello stato di conversione.
L’“elemosina” così intesa ha un significato in un certo senso decisivo per una tale conversione. Per convincersene, basta ricordare l’immagine del giudizio finale che Cristo ci ha dato: “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,35-40). E i Padri della Chiesa diranno poi con San Pietro Crisologo (S. Pietro Crisologo, Sermo VIII, 4): “La mano del povero è il gazofilacio di Cristo, poiché tutto ciò che il povero riceve è Cristo che lo riceve”, e con San Gregorio di Nazianzo (S. Gregorio di Nazianzo, De pauperum amore, XI): “Il Signore di tutte le cose vuole la misericordia, non il sacrificio; e noi la diamo attraverso i poveri”.
Pertanto, questa apertura agli altri, che si esprime con l’“aiuto”, con il “dividere” il cibo, il bicchiere d’acqua, la buona parola, il conforto, la visita, il tempo prezioso, ecc., questo dono interiore offerto all’altro uomo giunge direttamente a Cristo, direttamente a Dio. Decide dell’incontro con lui. È la conversione.
Nel Vangelo, e anche in tutta la Sacra Scrittura, possiamo trovare molti testi che lo confermano. L’“elemosina” intesa secondo il Vangelo, secondo l’insegnamento di Cristo, ha nella nostra conversione a Dio un significato definitivo, decisivo. Se manca l’elemosina, la nostra vita non converge ancora pienamente verso Dio.
4. Nel ciclo delle nostre riflessioni quaresimali, occorrerà riprendere questo tema. Oggi, prima di concludere, fermiamoci ancora un momento sul vero significato dell’“elemosina”. È molto facile, infatti, falsificarne l’idea, come abbiamo già avvertito all’inizio. Gesù dava ammonimenti anche rispetto all’atteggiamento superficiale, “esteriore” dell’elemosina (cf. Mt 6,2-4; Lc 11,41). Questo problema è sempre vivo. Se ci rendiamo conto del significato essenziale che l’“elemosina” ha per la nostra conversione a Dio e per tutta la vita cristiana, dobbiamo evitare, ad ogni costo, tutto ciò che falsifica il senso dell’elemosina, della misericordia, delle opere di carità: tutto ciò che può deformarne l’immagine in noi stessi. In questo campo, è molto importante coltivare la sensibilità interiore verso i bisogni reali del prossimo, per sapere in che cosa dobbiamo aiutarlo, come agire per non ferirlo, e come comportarci, affinché ciò che diamo, che portiamo nella sua vita, sia un dono autentico, un dono non aggravato dal senso ordinario negativo della parola “elemosina”.
Vediamo dunque quale campo di lavoro – ampio e insieme profondo – si apre davanti a noi, se vogliamo mettere in pratica il richiamo: “Paenitemini et date eleemosynam” (cf. Mc 1,15; Lc 12,33). È un campo di lavoro non soltanto per la Quaresima, ma per ogni giorno. Per tutta la vita.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 28 marzo 1979]
Papa Francesco, questa mattina nell’omelia a Casa Santa Marta, ha detto che bisogna «vivere la vita come un dono, non come un tesoro da conservare». Ce lo ha insegnato, per primo, lo stesso Gesù, quando ha detto che «nessuno ha un amore più forte di questo: dare la sua vita». L’esatto contrario, ha sottolineato il pontefice, di quanto fatto da Giuda, «che aveva proprio l’atteggiamento contrario», e infatti «non mai ha capito cosa fosse un dono».
«Pensiamo a quel momento della Maddalena – ha spiegato papa Francesco -, quando lava i piedi di Gesù con il nardo, tanto costoso: è un momento religioso, un momento di gratitudine, un momento di amore. E lui, si distacca e fa la critica amara: “Ma questo potrebbe essere usato per i poveri!”. Questo è il primo riferimento che ho trovato io, nel Vangelo, della povertà come ideologia. L’ideologo non sa cosa sia l’amore, perché non sa darsi».
L’errore di Giuda era di essere impermeabile e distante dall’amore di Cristo: una solitudine che lo ha portato al tradimento. Chi ama, invece, «dà la vita come dono, dà la vita per amore, mai è solo: sempre è in comunità, è in famiglia». Del resto, ha avvertito il Pontefice, colui che «isola la sua coscienza nell’egoismo» alla fine «la perde».
[Papa Francesco, omelia s. Marta 14/05/2013: https://www.tempi.it/papa-francesco-vivete-la-vita-come-dono-satana-e-un-cattivo-pagatore-sempre-ci-truffa-sempre/]
(Mt 21,1-11; Mc 11,1-10; Lc 19,28-40; Gv 12,12-16)
Nei Vangeli il Signore non si lascia identificare con l’Aquila di Gv, sebbene sia Lui che viene dall’alto - e ‘vede’ oltre l’immediato.
Non è un essere spirituale alato [come il simbolo di Mt] bensì pienamente incarnato, malgrado sia l’Angelo autentico, ossia Inviato del Padre per eccellenza.
Gesù non viene associato al ‘leone’ [Mc], re della foresta e delle bestie, benché sia l’unico uomo riuscito e maestosamente regale - la Persona vera e totalmente ‘presente’ secondo Dio.
Tanto meno lo accostiamo al ‘bue’ [Lc], icona dell’antica devozione tradizionalmente sacrificale.
Su base evangelica non è possibile neanche immaginare la figura e la proposta del Maestro con il tipico “bestiario” d’omaggio e rispettosità con cui nell’Oriente antico venivano idealizzati sovrani e dignitari, tutti i potenti e gli eletti anche della casta religiosa ufficiale.
I Vangeli non riconoscono Gesù quale ‘rapace’ maestoso: fanno coincidere la stabilità, la qualità e l’azione del suo Spirito nell’icona della «colomba».
Poi con una figura che fa proprio ridere i polli: la ‘gallina’, la quale si duole delle scelte rovinose della sua nidiata (Mt 23,37).
In luogo della potenza del ‘leone’ [di Babilonia o della tribù di Giuda] ecco: mansuetudine d’Agnello che dona tutto di sé, pelle compresa.
In luogo delle rinunce ascetiche, o d’animali destinati all’offertorio necessario a placare gli dei, un «uomo dal cuore di carne e non di belva» con ideale di Comunione; vita strappata al preumano.
Come dire: è una trama d’essere (se stessi, anche piccoli) e di relazioni qualitative, che soppianta e sublima le arcaiche pratiche sacrificali [sacrum-facere] con cui anticamente si cercava il contatto e un rapporto di reciprocità con la Vita celeste.
Ora essa s’identifica con la pienezza umana.
Invece della strafottenza focosa d’un destriero che incalza e si rende protagonista di grandi imprese, collaborando appieno a rendere illustre il suo condottiero, vediamo un simbolo di laboriosità instancabile, calato nella vita comune di tutti: il ‘somarello’!
Quella dell’«asinello» è una fragorosa proposta di vita dimessa, su misura per discepoli ancora distratti, imbambolati da sogni di solennità, prestigio, gloria mondana, e smanie competitive.
Vuol dire: dentro ciascuno di noi c’è una «profezia di servizio» incessante che dev’essere “slegata”.
Come se nell’intimo dimorasse un essere sorgivo inespresso che può e vuol venire «sciolto» dai molti legacci delle aspettative di successo facile, di grandezza, di consenso.
Speranze prima indifferenti o sdegnate - per aver dato credito a un Messia dimesso.
Tale il livello della Fede che surclassa il comune senso religioso.
Per questo lo stesso popolo che acclama acclama, attendendosi una celebrazione trionfale, sublimi riconoscimenti e facili scorciatoie - poi si accoda al rifiuto di Cristo.
[Domenica delle Palme]
St Teresa of Avila wrote: “the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ” (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7) [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6) [Papa Benedetto]
Dear friends, the mission of the Church bears fruit because Christ is truly present among us in a quite special way in the Holy Eucharist. His is a dynamic presence which grasps us in order to make us his, to liken us to him. Christ draws us to himself, he brings us out of ourselves to make us all one with him. In this way he also inserts us into the community of brothers and sisters: communion with the Lord is always also communion with others (Pope Benedict)
Cari amici, la missione della Chiesa porta frutto perché Cristo è realmente presente tra noi, in modo del tutto particolare nella Santa Eucaristia. La sua è una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a Sé. Cristo ci attira a Sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli: la comunione con il Signore è sempre anche comunione con gli altri (Papa Benedetto)
Jesus asks us to abide in his love, to dwell in his love, not in our ideas, not in our own self-worship. Those who dwell in self-worship live in the mirror: always looking at themselves. He asks us to overcome the ambition to control and manage others. Not controlling, serving them (Pope Francis)
Gesù ci chiede di rimanere nel suo amore, abitare nel suo amore, non nelle nostre idee, non nel culto di noi stessi. Chi abita nel culto di sé stesso, abita nello specchio: sempre a guardarsi. Ci chiede di uscire dalla pretesa di controllare e gestire gli altri. Non controllare, servirli (Papa Francesco)
In this passage, the Lord tells us three things about the true shepherd: he gives his own life for his sheep; he knows them and they know him; he is at the service of unity [Pope Benedict]
In questo brano il Signore ci dice tre cose sul vero pastore: egli dà la propria vita per le pecore; le conosce ed esse lo conoscono; sta a servizio dell'unità [Papa Benedetto]
Jesus, Good Shepherd and door of the sheep, is a leader whose authority is expressed in service, a leader who, in order to command, gives his life and does not ask others to sacrifice theirs. One can trust in a leader like this (Pope Francis)
Gesù, pastore buono e porta delle pecore, è un capo la cui autorità si esprime nel servizio, un capo che per comandare dona la vita e non chiede ad altri di sacrificarla. Di un capo così ci si può fidare (Papa Francesco)
In today’s Gospel passage (cf. Jn 10:27-30) Jesus is presented to us as the true Shepherd of the People of God. He speaks about the relationship that binds him to the sheep of the flock, namely, to his disciples, and he emphasizes the fact that it is a relationship of mutual recognition […] we see that Jesus’ work is explained in several actions: Jesus speaks; Jesus knows; Jesus gives eternal life; Jesus safeguards (Pope Francis)
Nel Vangelo di oggi (cfr Gv 10,27-30) Gesù si presenta come il vero Pastore del popolo di Dio. Egli parla del rapporto che lo lega alle pecore del gregge, cioè ai suoi discepoli, e insiste sul fatto che è un rapporto di conoscenza reciproca […] vediamo che l’opera di Gesù si esplica in alcune azioni: Gesù parla, Gesù conosce, Gesù dà la vita eterna, Gesù custodisce (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
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