don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Martedì, 22 Luglio 2025 11:01

17a Domenica T.O. (anno C)

XVII Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [27 Luglio 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Questa volta mi sono dilungato un poco nel presentare nelle NOTE alcuni dettagli importanti delle letture, utili per la meditazione personale e per la lectio divina in questo tempo di vacanza. 

 

*Prima Lettura dal libro della Genesi (18, 20-32)

Questo testo segna un passo avanti nell’idea che gli uomini si fanno del loro rapporto con Dio: è la prima volta che si osa immaginare che un uomo possa intervenire nei progetti di Dio. Purtroppo, la lettura liturgica non ci fa ascoltare i versetti precedenti nei quali leggiamo che subito dopo l’incontro alle Querce di Mamre, Abramo si congeda accompagnando i tre misteriosi uomini a contemplare dall’alto Sodoma. Il Signore, parlando tra sé, dice: ”Devo io tener nascosto ad Abramo quello che sto per fare mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra?” (vv.17-19). Dio prende molto sul serio l’alleanza appena fatta ed è qui che inizia quella che potremmo chiamare “la più bella trattativa della storia”: Abramo, armato di tutto coraggio, intercede per cercare di salvare Sodoma e Gomorra da un castigo certamente meritato. In sostanza chiede se Dio vuole veramente sterminare queste città anche se incontra almeno cinquanta giusti, o solo quarantacinque, quaranta, trenta, venti, dieci. Che audacia! Eppure, a quanto pare, Dio accetta che l’uomo si ponga come interlocutore: in nessun momento il Signore sembra spazientirsi ed anzi risponde ogni volta esattamente come Abramo sperava. Forse Dio apprezza che Abramo abbia una così alta idea della sua giustizia. A questo proposito, si può notare che questo testo è stato redatto in un’epoca in cui si comincia ad avere coscienza della responsabilità individuale: infatti Abramo si scandalizzerebbe all’idea che dei giusti possano essere puniti insieme ai peccatori e per loro colpa. Siamo lontani dal tempo in cui un’intera famiglia veniva eliminata per la colpa di uno solo. La grande scoperta della responsabilità individuale risale al profeta Ezechiele e al periodo dell’esilio a Babilonia, cioè al VI secolo a.C. Possiamo quindi formulare un’ipotesi sulla composizione del capitolo letto oggi e domenica scorsa: si tratta di un testo redatto in epoca piuttosto tarda, pur derivando da racconti forse molto più antichi, la cui forma orale o scritta non era ancora definitiva. Dio ama che l’uomo si faccia intercessore per i suoi fratelli come possiamo vedere con Mosè:  quando il popolo si fabbricò un “vitello d’oro” da adorare subito dopo aver giurato di non seguire mai più gli idoli. Mosè intervenne per supplicare Dio di perdonare e Dio, che non aspettava altro, si affrettò a perdonare(Es 32). Mosè intercedeva per il popolo di cui era responsabile; Abramo, invece, intercede per dei pagani e questo è logico, in fondo, visto che egli è portatore di una benedizione per tutte le famiglie della terra. Questo testo è un grande passo avanti nella scoperta del volto di Dio, ma è solo una tappa collocandosi ancora in una logica di contabilità: quanti giusti serviranno per ottenere il perdono dei peccatori? L’ultimo passo teologico sarà scoprire che con Dio non si tratta mai di pagamento.  La sua giustizia non ha nulla a che vedere con una bilancia, i cui due piatti devono essere perfettamente in equilibrio ed è ciò che san Paolo cercherà di farci capire nel passo della lettera ai Colossesi di questa domenica. Questo testo della genesi è anche una bella lezione sulla preghiera, che ci viene proposta nel giorno in cui il vangelo di Luca riporta l’insegnamento di Gesù sulla preghiera, a cominciare dal Padre Nostro, la preghiera plurale per eccellenza che ci invita pregando ad allargare il cuore alla dimensione dell’intera umanità. 

 

NOTA: Sviluppo della nozione di giustizia di Dio nella Bibbia: All’inizio si trovava normale che tutto il gruppo pagasse per la colpa di uno: vedi il caso di Akân ai tempi di Giosuè (Gs 7,16-25). In una seconda fase si immagina che ognuno paghi per sé. Qui, c’è un nuovo passo avanti: se si trovano dieci giusti, essi possono salvare tutta una città. Geremia oserà andare oltre: un solo giusto può ottenere il perdono per tutti: «Percorrete le strade di Gerusalemme, cercate: se trovate un solo uomo che pratichi il diritto… io perdonerò alla città» (Ger 5,1). Anche Ezechiele ragiona in questi termini: «Ho cercato tra loro un uomo che si ponesse sulla breccia davanti a me… ma non l’ho trovato» (Ez 22,30). È con il libro di Giobbe, fra gli altri, che si compie l’ultimo passo: quando si comprenderà finalmente che la giustizia di Dio è sinonimo di salvezza, non di punizione. Geremia arriva persino a invocare un perdono senza condizioni, fondato sulla sola grandezza di Dio: «Se i nostri peccati testimoniano contro di noi, agisci, Signore, per l’onore del tuo nome!» (Ger 14,7-9). Davanti a Dio, proprio come Geremia, Abramo ha capito che i peccatori non hanno altro argomento che Dio stesso!  Infine, si noti l’ottimismo di Abramo, che gli vale pienamente il titolo di “padre nella fede”: egli continua a credere che non tutto è perduto, che non tutti sono perduti. Persino in una città orrenda come Sodoma, egli è convinto che ci siano almeno dieci uomini buoni!

 

Salmo responsoriale (137/138), 1-2a, 2bc-3, 6-7ab, 7c-8)

Questo salmo è tutto un canto di ringraziamento per l’Alleanza che Dio propone all’umanità: l’Alleanza conclusa, in primo luogo, con Israele, ma anche l’Alleanza aperta a  tutte le nazioni e la vocazione di Israele è proprio introdurre in essa le altre nazioni. Torna tre volte 

il ringraziamento: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore”, “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”, e – nel versetto 4 che non ascoltiamo questa domenica – “Ti rendano grazie tutti i re della terra”. Qui si nota una progressione: dapprima è Israele che parla a nome proprio: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore”; poi viene precisato il motivo: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”; infine, è l’intera umanità che entra nell’Alleanza e rende grazie: “Ti rendano grazie tutti i re della terra”. 

Poiché si parla dell’Alleanza, è normale che vi siano allusioni all’esperienza del Sinai e si colgono echi della grande scoperta del roveto ardente quando Dio disse a Mosè di aver visto la miseria del suo popolo e di essere sceso a liberarlo (Es 2,23-24). In eco, il salmo canta: “Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto”(v.3) Un altro richiamo alla rivelazione di Dio al Sinai è l’espressione “Il tuo amore e la tua fedeltà”(v.2): sono le stesse parole con cui Dio si è definito davanti a Mosè (Es 34,6). La frase “La tua destra mi salva” (v.7) è, per gli ebrei, un’allusione all’uscita dall’Egitto. La “destra” è, naturalmente, la mano destra e, sin dal cantico di Mosè dopo il passaggio miracoloso del Mar Rosso (Es 15), si è presa l’abitudine di parlare della vittoria che Dio ha ottenuto con mano forte e braccio potente (Es 15,6.12). Anche l’espressione “Signore, il tuo amore è per sempre” (v.8) evoca tutta l’opera di Dio, in particolare l’Esodo come il salmo 135/136, il cui ritornello è: “Perché il suo amore è per sempre”. Un un altro legame tra questo salmo e il cantico di Mosè è il nesso tra tutta l’epopea dell’Esodo, l’Alleanza del Sinai e il Tempio di Gerusalemme. Mosè cantava:

“Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. È il mio Dio, lo voglio lodare, è il Dio di mio padre, lo voglio esaltare” (Es 15,1-2.13), e il salmo riprende in eco:

“Non agli dei, ma a Te voglio cantare, mi prostro verso il tuo tempio santo” (vv.1-2) perché il

Tempio è il luogo in cui si fa memoria di tutta l’opera di Dio a favore del suo popolo. La presenza di Dio non si limita però a un tempio di pietra, ma quel tempio, o ciò che ne resta, è un segno permanente di quella presenza. E ancora oggi, dovunque si trovi nel mondo, ogni ebreo prega rivolto verso Gerusalemme, verso il monte del tempio santo perché è il luogo scelto da Dio, ai tempi del re Davide, per offrire al suo popolo un segno della sua presenza. Infine, la grandezza di Dio non schiaccia l’uomo; almeno non colui che sa riconoscere la propria piccolezza: “Eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile; il superbo invece lo riconosce da lontano”(v.6). Anche questo è un grande tema biblico: la sua grandezza si manifesta proprio nella sua bontà verso la piccolezza dell’uomo (cf.Sap 12,18) e il salmo 113/112: “Dalla polvere rialza il debole, dall’immondizia solleva il povero” e nel Magnificat: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”. Il credente lo sa e ne resta meravigliato: Il Dio è grande non ci schiaccia, ma al contrario, ci fa crescere.

Questi parallelismi cioè l’influenza del cantico di Mosè, l’esperienza del Sinai dal roveto ardente fino all’uscita dall’Egitto e all’Alleanza, si ritrovano in molti altri salmi e testi biblici.

Ciò dimostra quanto questa esperienza sia stata – e resti – il fondamento della fede di Israele.

 

Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Colossesi (2,12-14)

Dio ha annullato il documento scritto contro di noi (Col 2,14). Paolo qui fa riferimento a una pratica molto diffusa quando si prendeva in prestito del denaro: era consuetudine che il debitore consegnasse al creditore un “documento di riconoscimento del debito”. Anche Gesù ha utilizzato questa immagine nella parabola dell’amministratore disonesto. Il giorno in cui il padrone lo minaccia di licenziamento, egli pensa a procurarsi degli amici; a questo scopo convoca i debitori del suo padrone e a ciascuno dice: «Ecco il tuo documento di debito, cambia la somma. Dovevi cento sacchi di grano? Scrivi ottanta.» (Lc 16,7). Come fa spesso, Paolo utilizza il linguaggio della vita quotidiana per esprimere un pensiero teologico. Questo il suo ragionamento: a causa della gravità dei nostri peccati, possiamo considerarci debitori nei confronti di Dio. Del resto, nel giudaismo, i peccati erano spesso chiamati “debiti”; e una preghiera ebraica del tempo di Gesù diceva: “Per la tua grande misericordia, cancella tutti i documenti che ci accusano.” Ebbene, chiunque alzi lo sguardo verso la croce di Cristo scopre fino a che punto arriva la misericordia di Dio per i suoi figli: con Lui non si tratta di tenere una contabilità: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” è la preghiera del Figlio; ma è Lui stesso ad aver detto: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. Il corpo di Cristo inchiodato alla croce mostra che Dio è così: dimentica ogni nostro torto, ogni nostra colpa verso di Lui. Il suo perdono è esposto davanti ai nostri occhi: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, diceva il profeta Zaccaria (Zc 12,10; Gv 19,37). È come se il documento del nostro debito fosse stato inchiodato alla croce di Cristo. Si resta comunque sorpresi perché tutto questo passaggio è scritto al passato: “con Cristo sepolti nel battesimo, con Lui siete anche risorti… con lui Dio ha dato vita anche a voi… perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi … lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”. 

NOTA Paolo vuole affermare che la salvezza del mondo è già compiuta: questo “già-realizzato” della salvezza è uno dei grandi temi della Lettera ai Colossesi.  La comunità cristiana è già salvata attraverso il battesimo; partecipa già alla realtà celeste. Anche qui si nota una evoluzione rispetto ad alcune lettere precedenti di Paolo, come “Siamo stati salvati, ma nella speranza” (Rm 8,24); “Se siamo stati totalmente uniti a Lui nella morte, lo saremo anche nella risurrezione.” (Rm 6,5). Mentre la Lettera ai Romani pone la risurrezione nel futuro, le Lettere ai Colossesi e agli Efesini parlano al passato, sia della sepoltura con Cristo sia della risurrezione come realtà già attuale. “Quando eravamo morti a causa dei nostri peccati, ci ha fatto rivivere con Cristo – per grazia siete salvati –; con Lui ci ha risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli in Cristo Gesù.” (Ef 2,5-6). “Siete stati sepolti con Cristo, con Lui siete anche risorti… Eravate morti… ma Dio vi ha dato la vita con Cristo.” Il battesimo per Paolo è come una seconda nascita e l’insistenza sul fatto che la salvezza è già avvenuta, mediante la nascita a una vita totalmente nuova, è probabilmente legata anche al contesto storico: dietro molte espressioni della Lettera si intravede un clima di tensione e di conflitto. La comunità di Colosse sembra subire influenze pericolose, contro cui Paolo vuole metterla in guardia: “Nessuno vi inganni con discorsi seducenti” (Col 2,4)… “Nessuno vi intrappoli con una filosofia vuota e ingannevole” (Col 2,8)… “Nessuno vi giudichi per questioni di cibo, di bevande, di feste o di sabati” (Col 2,16). Riappare così, in filigrana, un problema ricorrente: come si entra nella salvezza? Bisogna continuare a osservare rigorosamente tutta la legge ebraica?  Paolo risponde: per mezzo della fede. Questo tema è presente in molte lettere, e lo ritroviamo chiaramente anche qui (v.12): sepolti nel battesimo con Cristo… risorti… per mezzo della fede nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti. La Lettera agli Efesini lo ripete ancora più chiaramente: “È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio. Non viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene.” (Ef 2,8-9) La vita con Cristo nella gloria del Padre non è solo una speranza futura, ma un’esperienza attuale dei credenti: un’esperienza di vita nuova, di vita divina. D’ora in poi, se lo vogliamo, Cristo vive in noi; e siamo resi capaci di vivere nella vita quotidiana la vita divina del Cristo risorto!  Questo significa che nessuna delle nostre vecchie condotte è più una condanna inevitabile. L’amore, la pace, la giustizia, la condivisione sono possibili. E se non lo riteniamo possibile, allora diciamo che Cristo non ci ha salvati! Attenzione! Finora abbiamo sempre parlato della Lettera ai Colossesi come se Paolo ne fosse l’autore; in realtà, molti esegeti ritengono che sia stata scritta da un discepolo molto vicino a Paolo, ispirato dal suo pensiero, ma di una generazione successiva, 

 

Dal Vangelo secondo Luca (11,1-13)

Può forse sorprendere ma Gesù non ha inventato le parole del Padre Nostro: esse provengono direttamente dalla liturgia ebraica e, più in profondità, dalle Scritture. A partire dal vocabolario, che è molto biblico: Padre, nome, santo, regno, pane, peccati, tentazioni…. Cominciamo dalle prime due domande: con grande pedagogia, esse si rivolgono innanzitutto verso Dio e ci insegnano a dire “il tuo nome”, “il tuo Regno”. Educano il nostro desiderio e ci impegnano a collaborare alla crescita del suo Regno. Il Padre Nostro, probabilmente insegnato da Gesù in aramaico “Abun d’bashmaya…nethqadash shimukin che richiama l’ebraico liturgico, è una scuola di preghiera, o se si preferisce, un metodo per imparare a pregare: non dimentichiamo la richiesta del discepolo che direttamente precede: “Signore, insegnaci a pregare” (v.1). Ebbene, se seguiamo il metodo di Gesù, grazie al Padre Nostro, finiremo per sapere parlare la lingua di Dio il cui primo termine è Padre. L’invocazione “Padre nostro” ci pone subito in relazione filiale con Dio ed era già presente nell’Antico Testamento: “Tu, Signore, sei nostro Padre, nostro Redentore da sempre.” (Is 63,16). Le prime due domande riguardano il nome e il regno. “Sia santificato il tuo nome”: nella Bibbia, il nome rappresenta la persona stessa; dire che Dio è santo (kadosh / shmokh in aramaico - separato) significa affermare che Egli è “al di là di tutto e questa richiesta significa: “Fa’ che tu sia riconosciuto come Dio”. “Venga il tuo regno”: ripetuta ogni giorno, questa domanda ci trasformerà in operai del Regno. La volontà di Dio – lo sappiamo – è che l’umanità, radunata nel suo amore, diventi regina della creazione: “Riempite la terra e soggiogatela” (Gn 1,27) e i credenti aspettano il giorno in cui Dio sarà riconosciuto re su tutta la terra, come annunciava il profeta Zaccaria: “Il Signore sarà re su tutta la terra” (Zc 14,9). La nostra preghiera, questo nostro metodo per imparare la lingua di Dio, ci farà diventare persone che desiderano sopra ogni cosa che Dio sia riconosciuto, adorato, amato, che tutti lo riconoscano come Padre, appassionati dell’evangelizzazione e del Regno di Dio. Le tre domande successive riguardano la vita quotidiana: “Dacci”, “Perdonaci”, “Non abbandonarci alla tentazione”. Dio non smette mai di compiere tutto questo e noi ci poniamo in un atteggiamento di accoglienza dei suoi doni. “Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano ”τν πιούσιον”: la manna che cadeva ogni mattina nel deserto educava il popolo a confidare giorno per giorno e questa richiesta ci invita a non preoccuparci del domani e a ricevere ogni giorno il cibo come dono di Dio: qui il pane riveste vari significati, compreso il pane eucaristico come spiegherò nella Nota e il plurale “nostro pane” c’invita a condividere la preoccupazione del Padre di sfamare tutti i suoi figli. “Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore”: il perdono di Dio non è condizionato dal nostro comportamento e il perdono fraterno non compra il perdono di Dio, ma è l’unica via per entrare nel perdono divino che è già donato: chi ha il cuore chiuso non può accogliere i doni di Dio. “Non abbandonarci alla tentazione” qui c’è un problema di traduzione, perché – ancora una volta – la grammatica ebraica è diversa dalla nostra: il verbo usato nella preghiera ebraica significa «fa’ che non entriamo nella tentazione» Si tratta di ogni tentazione, certamente, ma soprattutto della più grave, la tentazione di dubitare dell’amore di Dio. Nella preghiera del Padre nostro tutta la vita del mondo è coinvolta: parlare la lingua di Dio significa sapere chiedere e la preghiera di domanda non solo è permessa, ma è raccomandata perché è esercizio di umiltà e fiducia, e non sono richieste qualsiasi: pane, perdono, forza contro le tentazioni. Tutte le domande sono al plurale e ognuno di noi le formula a nome dell’intera umanità. In fondo c’è un legame stretto tra le prime domande del Padre Nostro e le successive: chiediamo a Dio ciò che serve per compiere la nostra missione battesimale: Dacci tutto ciò che ci serve – pane e amore – e proteggici, affinché abbiamo la forza di annunciare il tuo Regno. Nel vangelo segue immediatamente la parabola dell’amico importuno che invita a non smettere mai di pregare, certi che il Padre celeste dà sempre lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono (v.13) per cui anche se i problemi non saranno risolti con un colpo di bacchetta magica, non li vivremo però più da soli ma insieme a Lui.

 

NOTA 

1 – A proposito del “pane”, nel versetto 3: lo stesso aggettivo è presente in una preghiera del libro dei Proverbi: «Non darmi né povertà né ricchezza; concedimi solo il cibo necessario.» (Pr 30,8).  

2 Il termine pane τν πιούσιον, aggettivo molto raro è un hapax legomenon, cioè appare solo qui (e in Mt 6,11), e non si trova altrove nella letteratura greca classica o nei LXX (Settanta). Molteplici le interpretazioni, ma πιούσιος resta enigmatico e porta con sé una ricchezza di significati: il pane materiale necessario per vivere ogni giorno; il pane spirituale, cioè la Parola di Dio e l’Eucaristia, il segno di una fiducia giorno per giorno nella Provvidenza del Padre. Alcuni esegeti lo leggono come “il pane per il giorno che sta per venire”, quindi un’invocazione fiduciosa per il futuro immediato. 

3. Gesù prende il Padre nostro direttamente dalla liturgia ebraica ed ecco alcune preghiere ebraiche che ne sono all’origine: Padre nostro che sei nei cieli» (Mishnah Yoma, invocazione comune); Sia santificato il tuo nome eccelso nel mondo che hai creato secondo la tua volontà (Qaddish, Qedushah e Shemoné Esré); Venga presto e sia riconosciuto nel mondo intero il tuo Regno… Sia fatta la tua volontà in cielo e sulla terra… Dacci il pane quotidiano…

Rimetti i nostri peccati come noi li rimettiamo… Non ci indurre in tentazione… A te appartengono grandezza, potenza, gloria… (1 Cr 29,11)

4. La dossologia finale del Padre Nostro: Molti gruppi cristiani, ben prima del Concilio Vaticano II, recitavano alla fine del Padre Nostro: Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli. Questa “dossologia” (parola di lode) si trova in alcuni manoscritti di Matteo, ed è probabilmente derivata da un uso liturgico molto antico, già nel I secolo, ma risale ancora più indietro, fino alla preghiera di Davide  (cf Cronache 29,11).

5. Sull’importanza delle preghiere di domanda, eco un’interessante immagine proposta da Denys l’Areopagita: immagina una barca sul mare; sulla riva, c’è una roccia, su di essa un anello e un altro anello sulla barca, legati da una corda L’uomo che prega è come chi, dalla barca, tira la corda: non attira la roccia verso di sé, ma avvicina sé stesso – e la barca – alla roccia.

+ Giovanni D’Ercole

Lunedì, 21 Luglio 2025 09:59

«Padre (Nostro)»: per le Beatitudini

(Lc 11,1-13)

 

Insegnaci a pregare: sguardo non più posizionato all’esterno

 

«Pregando, non blaterate come i pagani, infatti essi credono di venire esauditi per la loro verbosità» (Mt 6,7; cf. Lc 11,1).

Il Dio delle religioni era nominato con sovrabbondanza di epiteti onorifici altisonanti, come se bramasse schiere sempre più nutrite d’incensatori.

Il «Padre» non si fa accompagnare da titoli prestigiosi. Un figlio non si rivolge al genitore come a un altissimo, eterno o eccelso, ma come a colui che gli trasmette vita.

E il figlio non immagina di dover porgere grida e riconoscimenti esterni: il Padre guarda i bisogni, non i meriti.

 

«Et ne nos inducas in tentationem»: antica Preghiera dei figli

 

«Non c’indurre» è [nel senso latino e greco: «introdurre sino in fondo»] un antico Simbolo dei ‘rinati in Cristo’, nell’esperienza della vita reale.

Nelle religioni esistono demoni e angeli nettamente contrapposti: potenze disordinate e oscure, contrarie a quelle luminose e “a posto”.

Ma a forza di far retrocedere le prime, le peggiori continuamente riaffiorano, sino a vincere la partita e dilagare.

Nelle vite dei santi vediamo questi grandi uomini stranamente sempre sotto tentazione - perché disdegnano il male, quindi non lo conoscono. Man mano, i continui assilli diventano però frotte incontenibili.

 

La donna e l’uomo di Fede non agiscono secondo corrivi e superficiali modelli prestabiliti, neppure religiosi; hanno consapevolezza di non essere eroi o fenomeni da paradigma.

Ecco perché si affidano. Essi lasciano trascorrere i problemi intimi: ne hanno compreso la forza!

È questo il significato della formula del Padre Nostro, nel suo senso originario: «non portarci sino in fondo nella prova, perché conosciamo la nostra debolezza».

Se viceversa la nostra ‘controparte’ diventa protagonista, perno unilaterale, costante retropensiero, e blocco, siamo fritti.

 

Dolori, fallimenti, tristezze, frustrazioni, debolezze, mille angosce, troppe cadute, ci abituano a vivere il male come parte di noi stessi: Condizione da valutare, non “colpa” da tagliare in orizzontale.

Nel processo di vera trasmutazione salvifica, quel segnale parla di noi: dentro una deviazione o l’eccentricità c’è un segreto o una conoscenza da rinvenire, per ri-nascere personalmente’.

Posando lo sguardo sui disagi e le opposizioni, ci accorgiamo che questi lati critici dell’essere diventano come un magma plasmabile, il quale più speditamente accosta la guarigione. Come attraverso una conversione, permanente, radicale… perché coinvolge e ci appartiene; non artificiosa e di periferia, ma di fondo, di Seme e Natura.

Schemi e convinzioni assorbite non lasciano comprendere che la vita appassionata è composta di stati contrapposti, di energie competitive - che non bisogna mascherare per farci considerare gente perbene.

 

Percependo e integrando tali profondità, deponiamo l’idea e l’atmosfera di pericolo incombente, privo d’ulteriori occasioni; solo per la morte.

Diventiamo maturi, senza dissociazioni o stati isterici derivanti da identificazioni artificiose, né disistima per una parte importante di noi.

Insomma, le ristrettezze e le “croci” hanno qualcosa da dirci.

Esse scuotono l’anima alla radice, spazzano via le maschere assorbite, accendono la persona, e salvano la vita.

In tal guisa, gli inconvenienti e le ansie ci aiutano. Nascondono capacità e possibilità che ancora non vediamo.

Nella virtù dell’eccezionalità malferma eppure unica per ciascuno, ecco aprirsi la vera strada.

Percorso del Padre e del cuore, Via che vuole guidarci verso traiettorie alternative, nuove dimensioni dell’esistenza.

 

La differenza della Fede, rispetto alla religiosità antica [nel senso della ‘croce-dentro’]?

È nella coscienza che solo i malati guariscono, solo gli incompleti crescono.

Solo i claudicanti riprendono espressione, evolvono. E cadendo, scattano avanti.

 

 

(Lc 11,5-13)

 

A volte mettiamo il Padre sul banco degli imputati, perché sembra lasciar andare le cose come le orienta la nostra libertà.

Ma il suo Disegno non è far funzionare il mondo alla perfezione dei transistor di una volta, o dei circuiti integrati (nei rispettivi “package”) o “chip” [vari “pezzetti”]…

Dio vuol farci acquisire una mentalità da Nuova Creazione. La sua Azione ci modella sul Figlio, trasformando progetti, idee, desideri, parole, comportamenti standard.

All’inizio forse la preghiera può sembrare venata di sole richieste. Più si procede nell’esperienza dell’orazione nello Spirito del Cristo, meno si chiede.

Le domande si attenuano, sino a cessare quasi del tutto - nell’accoglienza sempre più cosciente, che si fa contemplazione e unione reali.

Non sappiamo quanto tempo, ma il ‘Risultato’ subentra improvviso: non solo certo, bensì sproporzionato.

Ma come estratto da un processo d’incandescenza continua, dove non esistono reti logiche, né facili scorciatoie.

Riceviamo il Dono massimo e completo.

E possiamo ospitarlo con dignità. Una nuova Creazione nello Spirito, un diverso aspetto.

Un Volto insperato - non semplicemente quello fantasticato o ben sistemato [come trasmesso o atteso].

 

Dio lascia che gli eventi seguano un loro corso, apparentemente distante da noi; quindi la preghiera può assumere toni drammatici e suscitare l’irritazione - come fosse una disputa aperta fra noi e Lui.

Ma Egli sceglie di non farsi garante dei nostri sogni esterni. Non si lascia introdurre nei limiti piccini.

Vuole coinvolgerci in ben altro che le nostre mète, di frequente troppo conformi a quello che abbiamo sotto il naso.

Inventa orizzonti dilatati; ci fa dialogare coi nostri stati profondi, affinché cediamo il punto di vista rigido e veniamo introdotti in altro genere di programmi.

 

Leggere gli accadimenti secondo un punto di vista totalmente “inadeguato” può aprire la mente - e modificare i sentimenti, trasformare dentro.

Quando qualcuno crede di aver capito il mondo, già si condiziona altre attese, più intense, che vorrebbero invadere il nostro spazio.

La preghiera allora dev’essere insistente, perché è come uno sguardo posato su di sé; non come avevamo pensato.

L’occhio interiore serve a fare una sorta di spazio sgombro, dentro, per accogliere la Presenza che non tira altrove l’io essenziale della persona.

Dimorando a lungo nella Casa della nostra essenza molto speciale.

 

Lo svuotamento consapevole dalle cianfrusaglie accatastate viene come colmato dal dialogo-Ascolto interpersonale con la Fonte dell’essere.

In essa è annidato il nostro Seme particolare: lì è come seduta e in fieri la differenza di volto che ci appartiene.

Via le definizioni e aspirazioni da nomenclatura, in uno stato “scarico” ma colmo di energie potenziali - la nostra Pianta caratteristica e inconfondibile sfiora la condizione divina.

Attraverso il dialogo incessante col Padre nell’orazione, facciamo spazio alle radici dell’Essere, per una sorte differente.

Ciò nella lacuna consapevole di quella parte di noi che cerca sicurezze, approvazioni.

 

La preghiera continua [ascolto e percezione, non saltuari] scava e smaltisce il volume dei banali pensieri ridondanti.

In tale spazio si spalancano opportunità, si crea la pulizia interiore affinché giunga il Dono - anche stravagante. Non di seconda mano.

 

 

[17.a Domenica T.O. (anno C), 27 luglio 2025]

Sabato, 19 Luglio 2025 05:22

Insegnaci a Pregare

(Lc 11,1-13)

 

La Croce-dentro della Preghiera: sguardo non più posizionato all’esterno

 

Orazione dei figli: prestazione o Ascolto?

 

Nelle comunità di Mt e Lc la “preghiera” dei figli - il «Padre Nostro» - non nasce come orazione, bensì come formula di accettazione delle Beatitudini (nelle sue scansioni: invocazione al Padre, situazione umana e avvento del Regno, liberazione).

In ogni caso, la piena differenza fra preghiera religiosa ed espressione animata dalla Fede è nel discrimine tra: Prestazione o Percezione.

[Come dice Papa Francesco: «Pregare non è parlare a Dio come un pappagallo». «Il nostro Dio non ha bisogno di sacrifici per conquistare il suo favore! Non ha bisogno di niente»].

Nelle religioni - infatti - è il soggetto orante che “prega”, esternando richieste, esponendo se stesso, lodando, e così via.

Ancora nel Tomismo, si considerava la virtù di religione come un aspetto della virtù cardinale della Giustizia. Come dire: la giusta posizione dell’uomo a cospetto di Dio è quella di colui che riconosce un dovere di culto (culto che si dirige a partire da lui) verso il Creatore; e l’uomo - soggetto della preghiera - lo adempierebbe.

Viceversa, il figlio di Dio in Cristo è un «uditore» del Logos: è colui che tende l’orecchio, percepisce, accoglie: insomma, il Soggetto autentico che si esprime è Dio stesso.

Egli si rivela attraverso la Parola, nella realtà degli eventi, nelle pieghe della storia universale e personale, nella particolare Chiamata che ci concede, persino nelle immagini intime.

Esse si fanno plastiche espressioni di Mistero (e Vocazione personale) le quali onda su onda addirittura guidano l’anima.

 

«Pregando, non blaterate come i pagani, infatti essi credono di venire esauditi per la loro verbosità» (Mt 6,7; cf. Lc 11,1).

Nella Fede partecipiamo della preghiera autentica di Gesù stesso - Persona in noi - rivolta al Padre, anzitutto in «ascolto» delle Sue proposte provvidenti: come se uniti all’Amico e Fratello ci inserissimo in questo Dialogo - ricolmo di suggestioni persino figurative.

Ma è l’Unigenito a pregare; non siamo noi i grandi protagonisti. Solo in tal senso l’atto orante può definirsi «dei figli» o “cristiano”.

La nostra vita di preghiera non è un esercizio ascetico - tantomeno un dovere, né una lista della spesa - perché Dio non ha bisogno di essere informato su qualcosa cui prima non aveva pensato.

Come dice il Maestro, il Padre sa ciò di cui abbiamo bisogno (Mt 6,8). Quindi per rivolgersi a Lui non è necessario alcuno sforzo [ fatica lacerante per centrarsi su se stessi e uscire fuori di sé…]. Né ci obbliga a troppe (o giuste) parole.

La preghiera autentica non è un ricalcare, né un salto nel buio esteriore, bensì uno scavo e vaglio, donato. Un tuffo nel nostro essere, dove l’intimità dell’Intesa si propone di capire la firma d’Autore nel cuore delle vicende; persino delle emozioni.

L’orazione dell’uomo di Fede non ha l’obiettivo d’introdurre la volontà di Dio e la realtà delle situazioni in angusti orizzonti e giudizi già comprensibili, come spingendola a sintonie innaturali.

La preghiera è un balzo percettivo senza identità ripetitive, dal proprio Nucleo - che azzera le tossine mentali; e così diventa un’esperienza di pienezza di essere, alla ricerca di senso globale e personale.

L’uomo orante non è neppure preda d’un qualche stato parossistico eccitato (ridicolo o soporifero): sta accogliendo un’Azione - un’Opera di paradossale sospensione, nel percorso verso la propria Beatitudine.

 

La preghiera è persino un gesto di ordine estetico in Cristo. Appunto perché tende a speronare il nostro immaginario quotidiano, affinché esso venga plasmato secondo la visione guida che inabita. Sposta e quasi dirige l’occhio dell’anima, e l’esperienza ecclesiale.

Una virtù-evento che via via cesella quell’immagine personalissima che porta a consapevolezza un obiettivo o una realtà comunitaria di lode, ovvero una narrazione innata... Voce di energie sconosciute, per cambiamenti importanti.

Passo dopo passo tale percezione e dialogo che s’affaccia induce a interiorizzare sprazzi nascosti della via che ci appartiene: una missionarietà che cerca sintonie, la creazione d’un ambiente vivo, e così via. Anche destabilizzanti.

Solo in questo senso la preghiera è in ordine ai nostri benefici.

Né può ridursi a distintivo di gruppo, perché pur riconoscendosi in alcuni saperi ciascuno ha un suo proprio linguaggio dell’anima, una rilevante storia e sensibilità, un inedito mondo iconico (anche in termini di micro e macro relazioni sognate), nonché un compito irripetibile di salvezza.

 

Anche per questo motivo - sebbene in ordine alla comunità di riferimento - il Simbolo dei rinati in Cristo che si rivolgono al Padre ci è pervenuto in versioni differenti: Mt, Lc, Didaché [«Insegnamento» forse contemporaneo agli ultimi scritti del Nuovo Testamento, una sorta di primo Catechismo].

Per introdurci a considerazioni specifiche, è opportuno chiedersi: perché Gesù non frequenta i luoghi di culto per recitare formule di tradizione, bensì per insegnare?

E mai risulta che gli apostoli preghino con Lui: sembra che essi volessero solo una formula per distinguersi da altre scuole rabbiniche (cf. Lc 11,1).

Il Signore tiene duro unicamente sulla mentalità e lo stile di vita: procede su opzioni fondamentali - e insiste sulla percezione tesa all’accogliere, più che al nostro dire e organizzare (poco intrisi di eternità fondata).

 

 

Padre

 

Il Dio delle religioni era nominato con sovrabbondanza di epiteti onorifici altisonanti, come se bramasse schiere sempre più nutrite d’incensatori.

Il Padre non si fa accompagnare da titoli prestigiosi. Un figlio non si rivolge al genitore come a un altissimo, eterno o eccelso, ma come a colui che gli trasmette vita.

E il figlio non immagina di dover porgere grida e riconoscimenti esterni - altrimenti il superiore e padrone si adonta e potrebbe castigare: il Genitore guarda i bisogni, non i meriti.

Il Dio delle religioni governa i sudditi emanando leggi, come fa un sovrano; il Padre trasmette il suo Spirito, la sua stessa Vita, che eleva e perfeziona sia le capacità di ascolto personale che l’accorgersi (ad es. dei fratelli).

Unica richiesta è quella di estendere le nostre risorse missionarie e di alimentarci del Pane-Persona che ci rimodella sulle sue stesse virtù, secondo ciò che dovremmo essere, e avremmo forse già potuto essere.

 

Una realtà alla nostra portata è la cancellazione dei debiti materiali che il nostro prossimo ha contratto nella necessità.

Non c’è testimonianza del Dio-Amore che non passi attraverso una comunità fraterna, in cui si vive la comunione dei beni.

La sicurezza di essere a posto con Dio è nella gioia della convivenza e della condivisione.

Nel credo religioso si confondono spesso le benedizioni materiali con quelle divine, il che accentua le competizioni, il primato artificioso e i disagi della vita reale.

Viceversa, lo spirito delle Beatitudini si rende palese in un popolo in cui sono abolite le distinzioni tra creditori e debitori.

 

 

«Non c’indurre»: antica Preghiera dei figli, nella vita reale

 

Essenza di Dio è: Amore che non tradisce e non abbandona; inutile, confusionario e blasfemo chiedere a un Padre: «Non abbandonarmi» [cf. testo greco]. Anche se può essere d’effetto all’orecchio esteriore.

Le false mistiche del Gesù abbandonato (addirittura dal Padre!) non educano; forse affascinano, sicuramente confondono - e plagiano.

Nella preghiera è garantito solo lo Spirito: la lucidità di comprendere la fecondità della Croce, il guadagno nella perdita, la vita non nel trionfo ma nella morte. E la forza per essere fedeli alla propria Chiamata, malgrado le persecuzioni anche “interne”.

La comunità e le singole anime chiedono tuttavia di non essere posti nelle condizioni estreme della prova, ben conoscendo il proprio limite, la personale invincibile precarietà, sebbene redenta.

 

Questa la soglia che distingue religiosità e Fede: da un lato la formula “sicura” dei convinti e forti; dall’altra un’orazione dimessa e in attesa: dei malfermi, riscattati per amore.

 

«Non c’indurre» è appunto (nel senso latino e greco: «introdurre sino in fondo») un’antico Simbolo dei rinati in Cristo, nell’esperienza della vita reale.

 

Nelle religioni esistono demoni e angeli nettamente contrapposti: potenze disordinate e oscure, contrarie a quelle luminose e “a posto”.

Ma a forza di far retrocedere le prime, le peggiori continuamente riaffiorano, sino a vincere la partita e dilagare.

Nelle vite dei santi vediamo questi grandi uomini stranamente sempre sotto tentazione - perché disdegnano il male, quindi non lo conoscono. Man mano, i continui assilli diventano però frotte incontenibili.

 

La donna e l’uomo di Fede non agiscono secondo corrivi e superficiali modelli prestabiliti, neppure religiosi; hanno consapevolezza di non essere eroi o fenomeni da paradigma.

Ecco perché si affidano. Essi lasciano trascorrere i problemi intimi: ne hanno compreso la forza!

È questo il significato della formula del Padre Nostro, nel suo senso originario: «non portarci sino in fondo nella prova, perché conosciamo la nostra debolezza».

Tale attenzione sorge affinché proprio il peccato - a furia di rinnegarlo, poi mascherarlo - non diventi paradossalmente il protagonista occulto del nostro cammino. Il perno dell’attenzione, che purtroppo ingorga i pensieri, bloccando i processi interni di crescita spontanea, percezione di Grazia e autoguarigione [in ordine alla propria irripetibile Chiamata].

Sarebbe il contrario d’una Redenzione e della Libertà, quindi dell’Amore: si annienta dove c’è un superiore che sovrasta - fosse pure Dio.

Assai proficuo è viceversa ricuperarne l’energia, che ci ha posti in contatto con i nostri strati profondi, per nuovi orizzonti. E assumerla facendola propria ospite, a pieno titolo - per (solo poi) investirla in maniera inattesa e sapiente.

Se viceversa la nostra “controparte” diventa costante retropensiero e blocco, siamo fritti.

 

Dolori, fallimenti, tristezze, frustrazioni, debolezze, mille angosce, troppe cadute, ci abituano a vivere il male come parte di noi stessi: Condizione da valutare, non “colpa” da tagliare in orizzontale.

Nel processo di vera trasmutazione salvifica, quel segnale parla di noi: dentro una deviazione o l’eccentricità c’è un segreto o una conoscenza da rinvenire, per rinascere personalmente.

Posando lo sguardo sui disagi e le opposizioni, ci accorgiamo che questi lati critici dell’essere diventano come un magma plasmabile, il quale più speditamente accosta la guarigione. Come attraverso una conversione, permanente, radicale… perché coinvolge e ci appartiene; non artificiosa e di periferia, ma di fondo, di Seme e Natura.

Schemi e convinzioni assorbite non lasciano comprendere che la vita appassionata è composta di stati contrapposti, di energie competitive - che non bisogna mascherare per farci considerare gente perbene.

 

Percependo e integrando tali profondità, deponiamo l’idea e l’atmosfera di pericolo incombente, privo d’ulteriori occasioni, solo per la morte.

Diventiamo maturi, senza dissociazioni o stati isterici derivanti da identificazioni artificiose, né disistima per una parte importante di noi.

Insomma, le ristrettezze e le “croci” hanno qualcosa da dirci.

Esse scuotono l’anima alla radice, spazzano via le maschere assorbite, accendono la persona, e salvano la vita.

In tal guisa, gli inconvenienti e le ansie ci aiutano. Nascondono capacità e possibilità che ancora non vediamo.

Nella virtù dell’eccezionalità malferma eppure unica per ciascuno, ecco aprirsi la vera strada.

Percorso del Padre e del cuore, Via che vuole guidarci verso traiettorie alternative, nuove dimensioni dell’esistenza.

 

La differenza della Fede, rispetto alla religiosità antica [nel senso della croce-dentro]?

È nella coscienza che solo i malati guariscono, solo gli incompleti crescono.

Solo i claudicanti riprendono espressione, evolvono. E cadendo, scattano avanti.

 

 

Preghiera continua: condizione di grazia e di forza, che non svia.

 

Venir meno senza venir meno. Lotta: incessante, efficace, con noi stessi e con Dio

(Lc 11,5-13)

 

A volte mettiamo il Padre sul banco degli imputati, perché sembra lasciar andare le cose come le orienta la nostra libertà.

Ma il suo Disegno non è far funzionare il mondo alla perfezione dei transistor (di una volta) o dei circuiti integrati (nei rispettivi “package”) o “chip” [vari “pezzetti”]…

Dio vuol farci acquisire una mentalità da Nuova Creazione. La sua Azione ci modella sul Figlio, trasformando progetti, idee, desideri, parole, comportamenti standard.

All’inizio forse la preghiera può sembrare venata di sole richieste. Più si procede nell’esperienza dell’orazione nello Spirito del Cristo, meno si chiede.

Le domande si attenuano, sino a cessare quasi del tutto.

I desideri di accumulo, o rivalsa e trionfo, lasciano il posto all’ascolto e alla percezione.

L’occhio che penetra si accorge di quanto è a portata di mano e dell’inusitato - nell’accoglienza sempre più cosciente, che si fa contemplazione e unione reali.

Non sappiamo quanto tempo, ma il “risultato” subentra improvviso: non solo certo, bensì sproporzionato.

Ma come estratto da un processo d’incandescenza continua, dove non esistono reti logiche, né facili scorciatoie.

 

Riceviamo il Dono massimo e completo. E possiamo ospitarlo con dignità. Una nuova Creazione nello Spirito, un diverso aspetto.

Un Volto insperato - non semplicemente quello fantasticato o ben sistemato (come trasmesso dalla famiglia o atteso a contorno).

 

Dio lascia che gli eventi seguano un loro corso, apparentemente distante da noi; quindi la preghiera può assumere toni drammatici e suscitare l’irritazione - come fosse una disputa aperta fra noi e Lui.

Ma Egli sceglie di non farsi garante dei nostri sogni esterni. Non si lascia introdurre nei limiti piccini.

Vuole coinvolgerci in ben altro che le nostre mète, di frequente troppo conformi a quello che abbiamo sotto il naso.

Inventa orizzonti dilatati, ma in questo travaglio dev’essere chiaro che non bisogna venir meno a noi stessi. Ossia al carattere della nostra essenza e vocazione.

Tutto ciò, proprio venendo meno a noi stessi - ossia cedendo il punto di vista rigido e dialogando coi nostri strati profondi.

Tale processo sposta l’accento condizionato.

Non è che Dio si compiace di farsi senza posa pregare e ripiegare dai poveretti.

Siamo noi ad aver bisogno di tempo per incontrare la nostra stessa anima e lasciarci introdurre in un altro genere di programmi che non siano conformisti e scontati.

 

Leggere gli accadimenti secondo visioni totalmente “inadeguate”, eccentriche o eccessive, meno contratte dentro le solite armature (e così via) può aprire la mente.

L’espansione dello sguardo accresce l’intuizione, modifica i sentimenti, trasforma, attiva. Coglie altri disegni, spalanca differenti orizzonti - con risultati intermedi già prodigiosi, sicuramente imprevedibili.

Quando qualcuno crede di aver capito il mondo, già si condiziona auspici ulteriori, più intensi, che vorrebbero invadere il nostro spazio.

Questa “natura” artificiale di assetti spuri, esterni o altrui, blocca l’itinerario che va verso la natura del carattere, la vera chiamata e missione personale.

 

La preghiera dev’essere insistente, perché è come una visuale posata su di sé; non come avevamo pensato: autenticamente. 

L’occhio interiore serve a fare una sorta di spazio sgombro e individuale dentro, che apre alla nostra e altrui Presenza, tutta da guardare (nel modo che conta).

Sarà il più sapiente, forte e affidabile compagno di viaggio… che porta la nostra identità-carattere e non tira altrove l’io essenziale della persona.

Lo svuotamento consapevole dalle cianfrusaglie accatastate (da noi stessi o altri) dev’essere colmato nel tempo mediante una intensità di Relazione.

Ecco il dialogo-Ascolto interpersonale con la Fonte dell’essere.

In essa è annidato il nostro Seme particolare: lì è come seduta e in fieri la differenza di volto che ci appartiene.

Sarà la profondità radicale del rapporto con la nostra Radice - forse smarrita in troppe aspettative regolarissime, anche elevate o funzionanti - che conferisce un’altra Via, più convincente.

E farà scoprire la tendenza e destinazione unica che ci appartiene, per la Felicità che non pensavamo.

 

Obbiettivi, propositi, discipline, memorie del passato, sogni di futuro, ricerche dei punti di riferimento, valutazioni abitudinarie di possibilità, cumuli di merito... talora sono zavorre.

Essi distraggono dalla terra dell’anima, dove il nostro grano vorrebbe attecchire per divenire ciò che è in cuore.

E dal Nocciolo far comprendere la proposta di Missione ricevuta - non conquistata, né posseduta - affinché conceda un’altra caratura prodigiosa (non: visibilità).

Spesso il sistema mentale e affettivo si riconosce in un album di pensieri, definizioni, gesti, forme, problemi, titoli, mansioni, personaggi, ruoli e cose già morte.

Tale morfologia d’interdizione smarrisce il presente autentico, dove viceversa attecchisce il Sogno divino che completa - realizzandoci nella specificità.

Allora, ecco la terapia dell’assoluto presentimento nell’Ascolto - della non pianificazione; a partire da ciascuno.

Ciò nella lacuna consapevole di quella parte di noi che cerca sicurezze, approvazioni, e asseconda banalità.

 

Attraverso il dialogo incessante col Padre nell’orazione, facciamo spazio alle radici dell’Essere, che (nel frattempo) ci sta già colmando di visuali e occasioni per una sorte differente.

Riattivando la carica esplorativa soffocata negli ingranaggi, creiamo la giusta intercapedine e ripartiamo nell’Esodo.

Accontentarsi, fermarsi, installarsi in un punto, tramuterebbe le conquiste anche qualitative in una terra di nuove schiavitù.

Obbligherebbe a recitare e ripercorrere tappe ormai acquisite - che viceversa siamo per vocazione richiamati a valicare.

Esodo… all’interno di una Relazione sorgiva, cosmica e identificativa, singolarmente fondante.

 

Grazie all’Ascolto protratto nella preghiera, noi figli acquisiamo il sapere dell’anima e del Mistero.

Dimoriamo a lungo nella Casa della nostra essenza molto speciale.

Così la piantiamo - o radichiamo ancor più a fondo - per capirla e recuperarla completamente, nitida e colma.

Ormai affrancata dal destino tracciato in ambiente di ristrettezze, già segnato ma privo di sogni.

 

Quando saremo pronti, l’Unicità scenderà in campo con una nuova soluzione, anche stravagante.

Essa partorirà ciò che siamo davvero, al meglio - dentro quel caos che risolve i veri problemi. E di onda in onda balzerà a Traguardo.

Via le definizioni e aspirazioni da nomenclatura, in una sorta di venir meno di noi stessi - in uno stato “scarico” ma colmo di energie potenziali - daremo spazio al nuovo Germe che la sa più lunga di tutti.

Già qui e ora la nostra Pianta caratteristica e inconfondibile vuole sfiorare la condizione divina.

La preghiera continua [ascolto e percezione, non saltuari] scava e smaltisce in questo spazio il volume dei banali pensieri ridondanti.

In tale interstizio e “vuoto” si spalancano opportunità. Si crea la pulizia interiore affinché giunga il Dono - non di seconda mano.

 

Vogliamo una decisiva conversione? Desideriamo il richiamo alla totalità dell’esistenza umanizzante, senza limitazioni e nella nostra unicità?

[Allora l’azione divina può raggiungere chiunque? Attecchisce in qualsiasi volto? E come si fa a non spezzarla?].

Perché non ora il nuovo inizio? La preghiera e il “nuovo pieno” dello Spirito diventano per noi - figli in fase di crescita - il latte dell’anima.

[Cf. Gv 16,23-28: Preghiera nel Nome: sabato 6.a Pasqua] [Cf. Mt 11,25-27: L’unica preghiera di Gesù poco insegnata: Mercoledì 15.a T.O]

 

 

La seconda caduta

Pro e contro

Lc 11,14-23 (14-26)

 

Il pregiudizio intacca l’unione, e nessuno può mettere Gesù sotto sequestro, tenendolo in ostaggio. Egli è il forte che nessuna cittadella arroccata può arginare.

Chi teme di perdere il comando e smarrire il proprio prestigio artefatto ha già perduto. Non c’è armatura o bottino che tenga.

Non c’è costume né compromesso o gendarmeria in cui confidare, che possa resistere all’assedio della Libertà in Cristo.

Le Scritture formano una unità inscindibile. Tuttavia, solo in Lui la Tradizione non blocca i carismi, non ci sminuisce, non causa ansietà, né porta allo scrupolo - bensì acquista il suo risvolto vitale.

L’amicizia col Risorto è infatti straordinariamente originale, e ha rispetto delle unicità. Sta in una continuità e insieme nella rottura con la mente antica. Monoteismo vitale d’uno Spirito nuovo, che accoglie i Doni.

Chi non s’impegna a dilatare l’opera creativa del Padre, chi non ce la mette tutta a capire e vivificare situazioni o persone - persino nel rispetto delle eccentricità che prima non avevano campo e sembravano incomunicabili - aleggia sulle illusioni, disperde se stesso e intacca tutto l’ambiente.

 

Dice il Tao Tê Ching (LXV): «In antico chi ben praticava il Tao, con esso non rendeva perspicace il popolo, ma con esso si sforzava di renderlo ottuso: il popolo con difficoltà si governa, perché la sua sapienza è troppa».

La gente normale accetta il caos, non elude la vita. I missionari sono allenati a trovare in ogni fatica, in qualsiasi errore o imperfezione, un nuovo assetto, ordinato e segreto. Nulla di esteriore.

In ogni incertezza sussiste una certezza, in ogni insicurezza una sicurezza maggiore, in qualsiasi lato in ombra una perla inattesa, in ciascun disordine un cosmo: è il segreto della vita, della felicità, dell’esperienza di Fede.

Le autorità erano attaccate al finto prestigio conquistato e preoccupatissime del fatto che Gesù fosse fedele al proprio compito unico, e potesse riuscire a sottrarre loro il popolo adescato - ma ora liberato - dalla religione delle paure.

Egli (la sua comunità) rimaneva più convincente perché avverava il Regno, iniziava a mostrarlo; non in fantasie di cataclismi che mettessero le anime a guinzaglio, ma vivo ed efficiente, passo dopo passo, persona persona.

Esso veniva incontro al desiderio di completezza umana che abitava ogni cuore, così non faceva leva su ossessioni e parossismi o sulla Legge, bensì sul bene reale, la guarigione, la vita (sempre diversa).

La cura delle infermità individuali e di relazione non era più un fatto secondario: così ad es. la liberazione d’un singolo infelice iniziava a sembrare che avesse valore assoluto, definitivo.

La scena della terra non poteva più essere dominata da catechismi adattati e da una consuetudine pia che negasse tutto meno i timori.

Insomma, Cristo stesso è l’uomo forte che vede lontano, segno della venuta efficace di Dio tra gli uomini.

Con lui declina il regno delle illusioni e posizioni fisse; subentra il mondo contrario al disfacimento dell’esistenza concreta, nel rispetto dell’unicità e convivialità delle differenze.

L’attività della sua Chiesa opera esorcismi: emancipa da forze-condizionamenti-strutture disumanizzanti. Si muove non su un piano legalista, ma di credo-amore operante che garantisce a ciascuno quel cammino di spontaneità e pienezza desiderate nell’intimo.

 

Anche oggi la comunità fraterna deve farsi consapevole d’essere strumento di redenzione e presenza energica di Dio fra le donne e gli uomini normali, di ogni estrazione culturale, per condurli, accompagnarli verso un presente-futuro che doni respiro non solo al gruppo, ma anche all’inclinazione individuale.

Le assemblee dei figli sono abilitate per grazia e vocazione a sciogliere nodi e superare steccati di mentalità - suscitando così un ambiente comprensivo, che accetta i viandanti: questo il principio e orizzonte non negoziabile della Fede.

Col superamento di antiche convinzioni fisse che mettono fra parentesi la realtà delle persone e ne accentuano i blocchi, la comunità dei figli nel Risorto è chiamata a diventare potenza di Dio.

Essa è sollecitata a farsi segno palese della presenza intraprendente dello Spirito Santo personale e solerte [«il dito di Dio»: v.20] che surclassa la spiritualità rassicurante e vuota, nonché la distrazione superficiale, indolente, della devozione secondo usanza imposta dalle convenzioni e dalle catene di comando.

 

Ma come mai Gesù sottolinea che la seconda caduta è più rovinosa della prima (vv.24-26)?

Se la mente del fedele viene svuotata del grande passo di Cristo vivo - che prima ha praticato e riconosciuto dentro sé e nella missione - essa non è più concentrata su qualcosa di utile, vitale e splendido: fiaccata, si perde.

Mentre Lc redige il Vangelo, a metà anni 80 si registravano non poche defezioni, a motivo delle persecuzioni.

I credenti avvilivano, costernati dal disprezzo sociale - così molti vedevano impallidire l’ebbrezza entusiastica dei primi tempi.

L’Amore non si poteva mettere in banca, ma diversi fratelli di comunità già provenienti dal paganesimo, dopo una prima esperienza di conversione preferivano tornare alla vita precedente, all’imitazione dei modelli, ai soliti pensieri facili, alle attrattive e al consenso delle folle.

Ripiegando e rassegnandosi alle forze in campo, alcuni abbandonavano la posizione di autonomia interiore conquistata grazie all’azione liberatrice dagli idoli, favorita dalla vita sapiente e orante nella comunità fraterna.

Poi tentavano anche la ricerca individuale d’un risarcimento e rivalsa per gli anni difficili trascorsi nell’essere stati fedeli alla propria vocazione, in quello stimolo di crescere insieme grazie allo scambio dei doni e delle risorse.

Lc avverte: è normale che ci siano tante notti quanti i giorni.

Si capisce lo stress del peregrinare per accostarsi all’infinito dell’anima, alla realtà competitiva e ai prossimi (persino di comunità) - ma attenzione... una seconda caduta sarebbe peggiore della prima.

La persona un tempo restituita a se stessa e che molla tutto demoralizzata, poi si lascerebbe andare alla disillusione generale, a una più globale mancanza di giudizio, consapevolezza e fiducia.

Tutto ciò capita ancora oggi per impellenze particolari, scoramento o precipitazioni, dopo aver visto ideali infranti da circostanze imperfette. O per la fatica di affrontare scoperte ed evoluzioni (che rimettono sempre tutto in discussione) nel lungo tempo necessario per una coerenza paziente ai propri codici profondi.

Così chi si lascia tramortire, facilmente tornerebbe a ricercare il via libera altrui e quell’allinearsi che nasconde i conflitti e fa tremare meno - perché il convincimento antico diventato modus vivendi non sposta i modi di fare né il quadro normale di riferimento.

 

Le difficoltà facevano cadere le braccia ad alcuni e ciò pareva mettere una pietra tombale sulla speranza di poter effettivamente edificare una società alternativa senza farsi troppo del male.

Ma il Vangelo ribadisce che non è previsto un atteggiamento neutrale (v.23) a distanza di sicurezza. Non ci sono mezze misure: solo scelte chiare, e niente esigenze represse.

Integrate sì: in cuore abitano sempre lati contraddittori, non c’è da sbigottire per questo. Gli stati opposti dell’essere sono una ricchezza che ci completa.

Anzi, si diventa nevrotici proprio quando le manie riduzioniste o le esigenze monotematiche (di club) prevaricano e soffocano la Chiamata poliedrica - che sebbene cesellata per Nome non si fa mai unilaterale.

Per vivere in modo pieno, libero e felice è bene essere noi stessi, consapevoli di ciò che siamo: figli perfetti (per il nostro compito nel mondo).

Quindi possiamo trascurare il malessere delle ingiurie di chi ci sgrida e livella, lasciarle scorrere via - e fare a meno di rincorrere lodi.

L’uomo di Fede ha sperimentato e conosce l’essenziale: è la vita che vince la morte, non il viceversa; quindi trascura le ossessioni (anche ammantate di sacro) e non si lascia sfiancare lo spirito.

Gode di una coscienza critica che sa collocare sullo sfondo i risultati immediati, così rigenera; incessantemente riattiva e non debella le forze.

Il battezzato in Cristo vive attitudini piene all’autenticità e totalità d’essere, indipendentemente da circostanze favorevoli o meno. Rimane distante da timori puerili, gode d’un cuore libero; è fermo nell’azione. 

Mette in preventivo di poter essere viandante, posto sotto assedio dal sistema isterico, che non sopporta cambiamenti veri (v.22).

In ciò riposa, sempre chiamando in causa le proprie radici naturali e caratteriali - dove sono custodite le energie primordiali dell’anima e i sogni innati (non derivati) che curano e guidano.

Del resto, il suo viaggio è contromano e sarà sicuramente punteggiato di dure lezioni.

Ma il cliché è tutta solfa indotta; tenta d’invaderci con recriminazioni senza peso specifico: tentativi di blocco privi di futuro.

 

Non c’è da sorprendere che gli accoliti del mondo conformista si difendano in tutti i modi.

E attacchi con quel vociare standard - socialmente “apprezzabile” - che tenta di accentuare i conflitti intimi e personali. Coi grandi mezzi a disposizione, facendo leva sui sensi di colpa.

Cammineremo ugualmente spediti sulla Via del Signore, pur sollecitati da dubbi e indecisioni; senza retrocedere, persino quando ci sentiremo persi - ma col sapore del guadagno finanche nella perdita.

I momenti difficilissimi saranno ulteriori chiamate alla trasformazione.

E in ogni circostanza proveremo il gusto della vittoria della vita piena sul potere del male e sul tenore culturale imitativo, altrui, banale.

Qui - nella fedeltà al proprio mondo interiore che vuole esprimersi, e nel cambio di stile o immaginazione negli approcci - risolveremo i veri problemi e tutte le questioni, in modo ricco, personale.

Rinati in Cristo che tutela e promuove a partire dall’eccezionale originalità, non possiamo “morire” perdendo l’essenza e l’Incontro irripetibile.

Tornando a identificarci nei ruoli, quali fotocopie - senza il Viaggio dell’anima.

 

Liberi verso la terra promessa che ci appartiene, non cerchiamo perfezioni di circostanza, bensì pienezza.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Chi e cosa mi attiva o mi perde?

È Gesù il mio Signore o sono io (lo status, il mio gruppo, le maniere “perbene”, gli influssi anche religiosi...) il Suo padrone?

Come affronto le situazioni, apro brecce e non mi disperdo, in armonia con la Voce antica e nuova dell’anima, e nello Spirito?

Il Vangelo di questa domenica ci presenta Gesù raccolto in preghiera, un po’ appartato dai suoi discepoli. Quando ebbe finito, uno di loro gli disse: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1). Gesù non fece obiezioni, non parlò di formule strane o esoteriche, ma con molta semplicità disse: “Quando pregate, dite: «Padre…»”, e insegnò il Padre Nostro (cfr Lc 11,2-4), traendolo dalla sua stessa preghiera, con cui si rivolgeva a Dio, suo Padre. San Luca ci tramanda il Padre Nostro in una forma più breve rispetto a quella del Vangelo di san Matteo, che è entrata nell’uso comune. Siamo di fronte alle prime parole della Sacra Scrittura che apprendiamo fin da bambini. Esse si imprimono nella memoria, plasmano la nostra vita, ci accompagnano fino all’ultimo respiro. Esse svelano che “noi non siamo già in modo compiuto figli di Dio, ma dobbiamo diventarlo ed esserlo sempre di più mediante una nostra sempre più profonda comunione con Gesù. Essere figli diventa l’equivalente di seguire Cristo” (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano 2007, p. 168).

Questa preghiera accoglie ed esprime anche le umane necessità materiali e spirituali: “Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati” (Lc 11,3-4). E proprio a causa dei bisogni e delle difficoltà di ogni giorno, Gesù esorta con forza: “Io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto” (Lc 11,9-10). Non è un domandare per soddisfare le proprie voglie, quanto piuttosto per tenere desta l’amicizia con Dio, il quale – dice sempre il Vangelo – “darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!” (Lc 11,13). Lo hanno sperimentato gli antichi “padri del deserto” e i contemplativi di tutti i tempi, divenuti, a motivo della preghiera, amici di Dio, come Abramo, che implorò il Signore di risparmiare i pochi giusti dallo stermino della città di Sòdoma (cfr Gen 18,23-32). Santa Teresa d’Avila invitava le sue consorelle dicendo: “Dobbiamo supplicare Dio che ci liberi da ogni pericolo per sempre e ci tolga da ogni male. E per quanto imperfetto sia il nostro desiderio, sforziamoci di insistere in questa richiesta. Che ci costa chiedere molto, visto che ci rivolgiamo all’Onnipotente?» (Cammino, 60 (34), 4, in Opere complete, Milano 1998, p. 846). Ogniqualvolta recitiamo il Padre Nostro, la nostra voce s’intreccia con quella della Chiesa, perché chi prega non è mai solo. “Ogni fedele dovrà cercare e potrà trovare nella verità e ricchezza della preghiera cristiana, insegnata dalla Chiesa, la propria via, il proprio modo di preghiera… si lascerà quindi condurre… dallo Spirito Santo, il quale lo guida, attraverso Cristo, al Padre» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Alcuni aspetti della meditazione cristiana, 15 ottobre 1989, 29: AAS 82 [1990], 378).

[Papa Benedetto, Angelus 25 luglio 2010]

Sabato, 19 Luglio 2025 05:13

Padre e popolazione provata

1. “Padre nostro, che sei nei cieli . . .”.

Ci troviamo presso l’altare intorno al quale si raduna l’intera Chiesa che è in Sarajevo. Pronunciamo le parole che ci ha insegnato Cristo, Figlio del Dio Vivente: Figlio consustanziale al Padre. Solo Lui chiama Dio “Padre” (Abbà - Padre! Padre mio!) e Lui soltanto può autorizzarci a rivolgerci a Dio chiamandolo “Padre”, “Padre nostro”. Egli ci insegna questa preghiera in cui è contenuto tutto. Desideriamo oggi trovare in questa preghiera quello che si può e si deve dire a Dio - nostro Padre, in questo momento storico, qui a Sarajevo.

“Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra”. 

“Io, Vescovo di Roma, il primo Papa slavo, mi inginocchio davanti a Te per gridare:  “Dalla peste, dalla fame e dalla guerra - liberaci!””

2. Padre nostro! Padre degli uomini: Padre dei popoli. Padre di tutti i popoli che abitano nel mondo. Padre dei popoli d’Europa. Dei popoli dei Balcani.

Padre dei popoli che appartengono alla famiglia degli Slavi del Sud! Padre dei popoli che qui, in questa penisola, da secoli scrivono la loro storia. Padre dei popoli, toccati purtroppo non per la prima volta dal cataclisma della guerra.

“Padre nostro . . .”. Io, Vescovo di Roma, il primo Papa slavo, mi inginocchio davanti a Te per gridare: “Dalla peste, dalla fame e dalla guerra - liberaci!”. So che in questa supplica molti si uniscono a me. Non solo qui a Sarajevo, in Bosnia ed Erzegovina, ma nell’Europa intera ed oltre i suoi confini. Vengo qui portando con me la certezza di questa preghiera che pronunciano i cuori e le labbra di innumerevoli miei fratelli e sorelle. Da tanto tempo aspettavano che proprio questa “grande preghiera” della Chiesa, del popolo di Dio, si potesse compiere in questo luogo. Da tanto tempo, io stesso ho invitato tutti a partecipare a questa preghiera.

Come non ricordare qui la preghiera fatta in Assisi nel gennaio dell’anno scorso? E poi quella elevata a Roma, nella Basilica di San Pietro, nel gennaio di quest’anno? Dall’inizio dei tragici avvenimenti nei Balcani, nei Paesi dell’ex Jugoslavia, il pensiero-guida della Chiesa, e in particolare della Sede Apostolica, è stata la preghiera per la pace.

3. Padre nostro, “sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno . . .”. Risplenda fra gli uomini il tuo nome santo e misericordioso. Venga il tuo regno, regno di giustizia e di pace, di perdono e di amore.

Sia fatta la tua volontà . . .”.

Si compia nel mondo, e particolarmente in questa travagliata terra dei Balcani, la tua volontà. Tu non ami la violenza e l’odio. Tu rifuggi dall’ingiustizia e dall’egoismo. Tu vuoi che gli uomini siano tra loro fratelli e Ti riconoscano come loro Padre.

Padre nostro, Padre di ogni essere umano, “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”. Tua volontà è la pace!

4. È Cristo “la nostra pace” (Ef 2, 14). Egli che ci ha insegnato a rivolgerci a Dio chiamandolo “Padre”.

Egli che con il suo sangue ha vinto il mistero dell’iniquità e della divisione, e con la sua Croce ha abbattuto il muro massiccio che separava gli uomini, rendendoli estranei gli uni agli altri; Egli che ha riconciliato l’umanità con Dio e ha unito gli uomini tra loro come fratelli.

Per questo Cristo ha potuto dire un giorno agli Apostoli, prima del suo sacrificio sulla Croce: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14, 27). È allora che ha promesso lo Spirito di Verità, che è al tempo stesso Spirito dell’Amore, Spirito della Pace!

Vieni, Spirito Santo! “Veni, creator Spiritus, mentes tuorum visita . . .!”. “Vieni, Spirito creatore, visita le nostre menti, riempi della tua grazia i cuori che hai creato”.

Vieni, Spirito Santo! Ti invochiamo da questa città di Sarajevo, crocevia di tensioni tra culture e nazioni diverse, dove s’è accesa la miccia che, all’inizio del secolo, ha scatenato il primo conflitto mondiale, e dove alla fine del secondo millennio, si trovano ad essere concentrate tensioni analoghe capaci di distruggere popoli chiamati dalla storia a collaborare in armoniosa convivenza.

Vieni, Spirito della pace! Per mezzo tuo gridiamo: “Abbà, Padre” (Rm 8, 15).

5. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano . . .”.

Pregare per il pane, vuol dire pregare per tutto ciò che è necessario alla vita. Preghiamo perché, nella distribuzione delle risorse fra gli individui ed i popoli, si possa realizzare sempre il principio di una universale partecipazione degli uomini ai beni creati da Dio.

Preghiamo perché l’impiego delle risorse negli armamenti non danneggi o addirittura distrugga il patrimonio della cultura, che costituisce il bene superiore dell’umanità. Preghiamo perché le misure restrittive, giudicate necessarie per frenare il conflitto, non siano causa di disumane sofferenze per la popolazione inerme. Ogni uomo, ogni famiglia ha diritto al suo “pane quotidiano”.

6. “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori . . .”.

Con queste parole tocchiamo la questione cruciale. Ce ne ha resi avvertiti Cristo stesso, il quale, morendo sulla croce, ha detto a proposito dei suoi uccisori: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34).

La storia degli uomini, dei popoli e delle nazioni è piena di reciproci rancori e di ingiustizie. Quanta importanza ha avuto la storica espressione rivolta dai Vescovi polacchi ai loro Confratelli tedeschi alla fine del Concilio Vaticano II: “Perdoniamo e chiediamo perdono”! Se in quella regione d’Europa si è potuta avere la pace, sembra proprio che ciò sia avvenuto grazie all’atteggiamento efficacemente espresso da tali parole.

Oggi vogliamo pregare perché si rinnovi un simile gesto: “Perdoniamo e chiediamo perdono” per i nostri fratelli nei Balcani! Senza questo atteggiamento è difficile costruire la pace. La spirale delle “colpe” e delle “pene” non si chiuderà mai, se ad un certo punto non si arriverà al perdono.

Perdonare non significa dimenticare. Se la memoria è legge della storia, il perdono è potenza di Dio, potenza di Cristo che agisce nelle vicende degli uomini e dei popoli.

7. “Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male . . .”.

Non ci indurre in tentazione! Quali sono le tentazioni che oggi chiediamo al Padre di allontanare? Sono quelle che rendono il cuore dell’uomo un cuore di pietra, insensibile al richiamo del perdono e della concordia. Sono le tentazioni dei pregiudizi etnici, che rendono indifferenti ai diritti dell’altro e alla sua sofferenza. Sono le tentazioni dei nazionalismi esasperati, che conducono alla sopraffazione del prossimo e alla bramosia della vendetta. Sono tutte le tentazioni in cui s’esprime la civiltà della morte.

Di fronte al desolante spettacolo dei cedimenti umani, preghiamo con le parole del Venerato Fratello Bartolomeo I, Patriarca della Chiesa di Costantinopoli: “Signore, fa’ che i nostri cuori di pietra si sgretolino alla vista delle tue sofferenze e diventino cuori di carne. Fa’ che la tua Croce dissolva i nostri pregiudizi. Con la visione della tua lotta straziante contro la morte, fuga la nostra indifferenza o la nostra ribellione” (Via Crucis al Colosseo, Venerdì santo 1990, Preghiera iniziale).

Liberaci dal male! Ecco un’altra parola che appartiene completamente a Cristo e al suo Vangelo. “Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12, 47). L’umanità è chiamata alla salvezza in Cristo e mediante Cristo. A questa salvezza sono chiamate anche le Nazioni che la guerra in corso ha così terribilmente divise!

Preghiamo oggi perché la potenza salvifica della Croce aiuti a superare la storica tentazione dell’odio. Basta con le innumerevoli distruzioni! Preghiamo - seguendo il ritmo della preghiera del Signore - perché inizi il tempo della ricostruzione, il tempo della pace.

Pregano con noi i morti di Sarajevo, le cui spoglie giacciono nel vicino cimitero. Pregano tutte le vittime di questa guerra crudele, che nella luce di Dio invocano per i sopravvissuti riconciliazione e pace.

8. “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio!” (Mt 5, 9). Questo ci ha detto Gesù nell’odierno brano evangelico. Sì, carissimi Fratelli e Sorelle, saremo veramente beati, se ci renderemo artefici di quella pace che solo Cristo sa dare (cf. Gv 14, 27), anzi che è Cristo stesso. “Cristo è la nostra pace”. Diventeremo costruttori di pace, se come lui saremo disposti a perdonare.

“Padre, perdonali!” (Lc 23, 34). Cristo dalla Croce offre il perdono e chiede anche a noi di seguirlo sull’ardua via della Croce per ottenere la sua pace. Solo accogliendo questo suo invito si potrà impedire all’egoismo, al nazionalismo, alla violenza di continuare a seminare distruzione e morte.

Il male, in ogni sua manifestazione, costituisce un mistero d’iniquità, di fronte al quale si alza chiara e decisa la voce di Dio, che abbiamo ascoltato nella prima Lettura: “Così parla l’Alto e l’Eccelso . . . In luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati” (Is 57, 15). In queste parole profetiche si racchiude per tutti l’invito ad un serio esame di coscienza.

Dio è dalla parte degli oppressi: è accanto ai genitori che piangono i figli assassinati, ascolta il grido impotente degli inermi calpestati, è solidale con le donne umiliate dalla violenza, è vicino ai profughi costretti ad abbandonare la loro terra e le loro case. Non dimentica le sofferenze delle famiglie, degli anziani, delle vedove, dei giovani e dei bambini. È suo il popolo che sta morendo.

Occorre porre fine ad una simile barbarie! Basta con la guerra! Basta con la furia distruttiva! Non è più possibile tollerare una situazione che produce solo frutti di morte: uccisioni, città distrutte, economie dissestate, ospedali sprovvisti di farmaci, malati ed anziani abbandonati, famiglie in lacrime e dilaniate. Bisogna giungere al più presto ad una pace giusta. La pace è possibile, se viene riconosciuta la priorità dei valori morali sulle pretese della razza o della forza.

9. Carissimi Fratelli e Sorelle! In questo momento, assieme a voi, elevo al Signore il grido del salmista: “Aiutaci, Dio, nostra salvezza, per la gloria del tuo nome, salvaci e perdona i nostri peccati” (Sal 79, 9).

Affidiamo questa nostra supplica a Colei che “stava” sotto la Croce silenziosa ed orante (cf. Gv 19, 25). Guardiamo alla Vergine Santa, della quale la Chiesa celebra oggi con gioia la Natività.

È significativo che questa mia visita, da tempo desiderata, abbia potuto avere luogo proprio in questa festa mariana a voi tanto cara. Con la nascita di Maria è sbocciata nel mondo la speranza di una nuova umanità non più oppressa dall’egoismo, dall’odio, dalla violenza e dalle tante altre forme di peccato che hanno lordato di sangue i sentieri della storia. A Maria Santissima chiediamo che anche per questa vostra terra possa sorgere il giorno della piena riconciliazione e della pace. 

Regina della pace, prega per noi!

[Papa Giovanni Paolo II, in collegamento con Sarajevo, 8 settembre 1994]

Sabato, 19 Luglio 2025 05:04

Qualità della Preghiera

Nell’odierna pagina di Vangelo (cfr Lc 11,1-13), san Luca narra le circostanze nelle quali Gesù insegna il “Padre nostro”. Essi, i discepoli, sanno già pregare, recitando le formule della tradizione ebraica, ma desiderano poter vivere anche loro la stessa “qualità” della preghiera di Gesù. Perché loro possono constatare che la preghiera è una dimensione essenziale nella vita del loro Maestro, infatti ogni sua azione importante è caratterizzata da prolungate soste di preghiera. Inoltre, restano affascinati perché vedono che Egli non prega come gli altri maestri del tempo, ma la sua preghiera è un legame intimo con il Padre, tanto che desiderano essere partecipi di questi momenti di unione con Dio, per assaporarne completamente la dolcezza.

Così, un giorno, aspettano che Gesù concluda la preghiera, in un luogo appartato, e poi chiedono: «Signore, insegnaci a pregare» (v.1). Rispondendo alla domanda esplicita dei discepoli, Gesù non dà una definizione astratta della preghiera, né insegna una tecnica efficace per pregare ed “ottenere” qualcosa. Egli invece invita i suoi a fare esperienza di preghiera, mettendoli direttamente in comunicazione col Padre, suscitando in essi una nostalgia per una relazione personale con Dio, con il Padre. Sta qui la novità della preghiera cristiana! Essa è dialogo tra persone che si amano, un dialogo basato sulla fiducia, sostenuto dall’ascolto e aperto all’impegno solidale. E’ un dialogo del Figlio col Padre, un dialogo tra figli e Padre. Questa è la preghiera cristiana.

Pertanto consegna loro la preghiera del “Padre nostro”, forse il dono più prezioso lasciatoci dal divino Maestro nella sua missione terrena. Dopo averci svelato il suo mistero di Figlio e di fratello, con quella preghiera Gesù ci fa penetrare nella paternità di Dio; voglio sottolineare questo: quando Gesù ci insegna il Padre Nostro ci fa entrare nella paternità di Dio e ci indica il modo per entrare in dialogo orante e diretto con Lui, attraverso la via della confidenza filiale. È un dialogo tra il papà e suo figlio, del figlio con il papà. Ciò che chiediamo nel “Padre nostro” è già tutto realizzato in noi nel Figlio Unigenito: la santificazione del Nome, l’avvento del Regno, il dono del pane, del perdono e della liberazione dal male. Mentre chiediamo, noi apriamo la mano per ricevere. Ricevere i doni che il Padre ci ha fatto vedere nel Figlio. La preghiera che ci ha insegnato il Signore è la sintesi di ogni preghiera, e noi la rivolgiamo al Padre sempre in comunione con i fratelli. A volte succede che nella preghiera ci sono delle distrazioni ma tante volte sentiamo come la voglia di fermarci sulla prima parola: “Padre” e sentire quella paternità nel cuore.

Poi Gesù racconta la parabola dell’amico importuno e dice Gesù: “bisogna insistere nella preghiera”. A me viene in mente quello che fanno i bambini verso i tre anni, tre anni e mezzo: incominciano a domandare cose che non capiscono. Nella mia terra si chiama “l’età dei perché”, credo che anche qui sia lo stesso. I bambini incominciano a guardare il papà e dicono: “Papà, perché?, Papà, perché?”. Chiedono spiegazioni. Stiamo attenti: quando il papà incomincia a spiegare il perché, loro arrivano con un’altra domanda senza ascoltare tutta la spiegazione. Cosa succede? Succede che i bambini si sentono insicuri su tante cose che incominciano a capire a metà. Vogliono soltanto attirare su di loro lo sguardo del papà e per questo: “Perché, perché, perché?”. Noi, nel Padre Nostro, se ci fermiamo sulla prima parola, faremo lo stesso di quando eravamo bambini, attirare su di noi lo sguardo del padre. Dire: “Padre, Padre”, e anche dire: “Perché?” e Lui ci guarderà.

Chiediamo a Maria, donna orante, di aiutarci a pregare il Padre Nostro uniti a Gesù per vivere il Vangelo, guidati dallo Spirito Santo.

[Papa Francesco, Angelus 28 luglio 2019]

(Mt 13,24-30)

 

La metafora che segue la parabola iniziale vuole sottolineare che la presenza del “male” nel mondo non è da attribuire alla mancanza di vitalità del Seme, né all’Opera divina.

E Gesù sconvolge il cliché precipitoso della morale apostolica:

«Vuoi dunque che andando le raccogliamo? Ma Egli dichiara: No, perché raccogliendo le zizzanie non abbiate a sradicare con esse il grano. Lasciate crescere insieme ambedue fino alla mietitura» (vv.28-30).

 

Nel commento a Tao Tê Ching xxxvi il maestro Wang Pi scrive: «Uniformandosi alla natura delle creature, il modo migliore per evitare future difficoltà è d’indurle a correre spontaneamente alla rovina, senza sottoporle ai castighi».

Alle qualità s’intrecciano errori, debolezze e incoerenze, ma sin dai primi tempi nelle comunità alcuni credenti facevano fatica a convivere con le differenti mentalità dei fratelli di Fede - situazione che tuttavia consentiva poi di lasciar brulicare vita.

E si sperimentava che il tempo era la migliore medicina per far seccare spontaneamente l’erba parassita: essa in prospettiva neppure si rivelava tale; anzi, di frequente il viceversa.

La parabola del buon grano e delle zizzanie vuole aiutarci a non cadere nell’esclusivismo - non per questioni ideologiche, bensì vitali.

Le mani rozze di alcuni discepoli strapperebbero tutto l’intreccio delle radici varie con la terra e fra loro.

Le cernite anzitempo rovinerebbero ogni cosa buona nel presente, e il futuro stesso.

 

L’insegnamento del Signore è un richiamo.

Non è immediato comprendere la valenza poliedrica di queste energie preparatorie, che dal loro magma e dissidio faranno nascere le sintonie inattese del futuro inopinabile di Dio.

Nuove opportunità germogliano anche dalla mediocrità personale o istituzionale. Addirittura una paradossale condizione di crescita e prosperità della Chiesa, ‘perfetta’ nella misura in cui si riconosce sulla Via di conversione al Cristo: «semper conformanda».

Come nella Comunità, chi affronta la vita nello Spirito e desidera che la sua avventura fiorisca, deve imparare a rispettare i disagi e far convivere in sé le contraddizioni.

 

L’uniformità dei fondamentalisti o puristi vorrebbe una giustizia esterna, immediata e risolutiva (in forme eloquenti) ma solo Dio è in grado di sondare le profondità degli accadimenti.

Le Fraternità non devono chiudersi dentro siepi soffocanti.

Esse hanno la missione d’imparare il dialogo con le differenze e lo stare con le contrapposizioni disparate, affinché la vita diventi ricca attraverso le relazioni difformi e lo scambio concreto dei doni personali, in contesti variegati e persino discordi.

Tale il valore aggiunto che spalanca Vita Nuova, mentre il mito dell’indefettibilità rimane confinato alle sètte.

Infatti, non di rado proprio quel lato di noi stessi che non vogliamo, che rifiutiamo, che vorremmo escludere o correggere - e malgiudicato dagli altri - forse si è già rivelato o si rivelerà nel tempo la parte migliore di noi, sia dal punto di vista della realizzazione eccezionale della personalità che della Chiamata per Nome missionaria.

 

Ciascun credente è ‘alleato’ e infedele insieme, ma in tale attrito si annidano le nuove scintille [anche di disappunto fecondo] e il nostro completamento - percorrendo i paradossi della fallibilità.

Nonché i sentieri culturali inediti, persino economici, politici e sociali.

 

 

[Sabato 16.a sett. T.O.  26 luglio 2025]

Venerdì, 18 Luglio 2025 04:00

Zizzanie, fallibilità e Mistero felice

La Rinascita - dalle mancanze

(Mt 13,24-30)

 

La metafora che segue la parabola iniziale vuole sottolineare che la presenza del “male” nel mondo non è da attribuire alla mancanza di vitalità del Seme, né all’Opera divina.

 

Gesù sconvolge il cliché precipitoso della morale apostolica:

«Vuoi dunque che andando le raccogliamo? Ma Egli dichiara: No, perché raccogliendo le zizzanie non abbiate a sradicare con esse il grano. Lasciate crescere insieme ambedue fino alla mietitura» (vv.28-30).

 

Nel commento a Tao Tê Ching xxxvi il maestro Wang Pi scrive: «Uniformandosi alla natura delle creature, il modo migliore per evitare future difficoltà è d’indurle a correre spontaneamente alla rovina, senza sottoporle ai castighi».

Alle qualità s’intrecciano errori, debolezze e incoerenze, ma sin dai primi tempi nelle comunità alcuni credenti facevano fatica a convivere con le differenti mentalità dei fratelli di Fede - situazione che tuttavia consentiva poi di lasciar brulicare vita.

E si sperimentava che il tempo era la migliore medicina per far seccare spontaneamente l’erba parassita: essa in prospettiva neppure si rivelava tale; anzi, di frequente il viceversa.

La parabola del buon grano e delle zizzanie vuole aiutarci a non cadere nell’esclusivismo - non per questioni ideologiche, bensì vitali.

Le mani rozze di alcuni discepoli strapperebbero tutto l’intreccio delle radici varie con la terra e fra loro.

Le cernite anzitempo rovinerebbero ogni cosa buona nel presente, e il futuro stesso.

 

L’adempimento delle leggi di purità aveva assicurato la separazione del giudaismo dalle altre culture.

Così alcuni convertiti al Cristo Messia non volevano rinunciare ai loro marchi identitari.

Altri come Paolo insegnavano che l’impurità è bene sia perseguita, ma va tollerato il peccatore.

Il dibattito interno faceva crescere la consapevolezza: nella vita reale persiste una mescolanza di cose - in sintonia e [almeno a prima vista] contrarie alla Parola di Dio.

In apparenza c’è come un nemico ambizioso che dorme dentro ciascuno di noi e persino nelle chiese, il quale talora può sembrare voler farci smarrire la ragion d’essere stessa del credere.

Dinanzi all’ambiguità di bene e male - o meglio delle idee su bene e male - alcuni si precipitano a voler risolvere immediatamente.

Essi pretendono di poter estirpare l’indecorosità in modo definitivo sulla base di opinioni, preconcetti dottrinali e morali - i quali però non guardano le persone e gli accadimenti [se non nel solito modo (rigido)].

L’insegnamento del Signore è un richiamo.

Non è immediato comprendere la valenza poliedrica di queste energie preparatorie, che dal loro magma e dissidio faranno nascere le sintonie inattese del futuro inopinabile di Dio.

Nuove opportunità germogliano anche dalla mediocrità personale o istituzionale. Addirittura una paradossale condizione di crescita e prosperità della Chiesa, ‘perfetta’ nella misura in cui si riconosce sulla Via di conversione al Cristo: «semper conformanda».

 

L’uniformità dei fondamentalisti o puristi vorrebbe una giustizia esterna, immediata e risolutiva (in forme eloquenti) ma solo Dio è in grado di sondare le profondità degli accadimenti.

Alcuni si aggrappano alle sicurezze di norma, ma tali schemi chiudono subito gli squilibri del caos che avrebbe potuto farsi fecondo proprio di quelle novità provvidenziali: esse che soppiantano lo stantio, rielaborando e adattando l’insospettato [così risolvendo i veri problemi e facendo sognare ben difformi propositi - un altro destino].

Per non mortificare la vita nell’illusione di comportamenti e procedure “non negoziabili” [per lo più, sicurezze culturali e religiose che poi vengono abbandonate] le comunità non devono chiudersi dentro siepi soffocanti.

Sarebbero insopportabili: hanno la missione d’imparare il dialogo con le differenze e lo stare con le contrapposizioni disparate, affinché la vita diventi ricca attraverso le relazioni difformi e lo scambio concreto dei doni personali, in contesti variegati e persino discordi.

Tale il valore aggiunto che spalanca la Vita Nuova, mentre il mito dell’indefettibilità rimane confinato alle sètte.

Infatti, non di rado proprio quel lato di noi stessi che non vogliamo, che rifiutiamo, che vorremmo escludere o correggere - e malgiudicato dagli altri - forse si è già rivelato o si rivelerà nel tempo la parte migliore di noi, sia dal punto di vista della realizzazione eccezionale della personalità che della Chiamata per Nome missionaria.

 

Ciascun credente è ‘alleato’ e infedele insieme, ma in tale attrito si annidano le nuove scintille [anche di disappunto fecondo] e il nostro completamento - percorrendo i paradossi della fallibilità. Nonché i sentieri culturali inediti, persino economici, politici e sociali.

Dice il Tao (LVIII): «Quando il governo in tutto s’intromette, il popolo è frammentato [!]. La fortuna si origina nella sfortuna, la sfortuna si nasconde nella fortuna. Chi ne conosce il culmine? Quei che non corregge. La correzione si converte in falsità, il bene si converte in presagio di sventura, e ogni giorno lo sconcerto del popolo si fa più profondo e più durevole. Per questo il Santo è quadrato ma non taglia, è incorrotto ma non ferisce, è diritto ma non ostenta, è luminoso ma non abbaglia».

 

Come nella Chiesa, chi affronta la vita nello Spirito e desidera che la sua avventura fiorisca, deve imparare a rispettare i disagi e far convivere in sé le contraddizioni.

Abbracciare i lati opposti e le sue stesse diverse immagini - che dimorano dentro. E senza commentare, in modo più disinvolto, con percezione sgombra.

Respingere, denominare e reprimere quelli che immaginiamo essere “difetti”... ci preclude l’altro orizzonte - quello che diventa Alleato.

È il punto di vista inatteso, il quale recupera e rimette le cose a posto; generando saperi, vita completa e relazioni piene, imprevedibili, da stupore.

Ecco sprigionarsi la Felicità - quando non la si disturba a monte.

Ansie, pregiudizi, rimproveri, opinioni consuete, aspettative, propostiti innaturali, timori, falsi atteggiamenti dell’io omologato (e così via) non fanno crescere.

Le precomprensioni esterne ci relegano e tormentano in divagazioni fideistiche, storiche, moralistiche o di performance; infine confinando ciascuno nel senso d’inferiorità rispetto ai modelli.

Sentenze, paradigmi, epiteti a cliché, concezioni e atteggiamenti cerebrali, chiudono tutti noi nelle nevrosi, nei conflitti, nelle angosce, nei giri viziosi che alterano le possibilità di scoperta personale - tagliando il senso del Mistero e lo sguardo d’Altrove.

Il mondo di Dio fuori e dentro di noi non vive di comparazioni e giudizio di colpa, che ci trattengono - ma (sostando nelle “mancanze”) d’una Mèta che non si attende.

Energia eccessiva, Tendenza indomabile, che surclassa ogni devota unilateralità.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Sosti nelle “mancanze”, o guardi Altrove?

Venerdì, 18 Luglio 2025 03:55

Un’insopprimibile forza vitale

Il tema contenuto nel Vangelo di questa domenica è proprio il Regno dei cieli. Il “cielo” non va inteso soltanto nel senso dell’altezza che ci sovrasta, poiché tale spazio infinito possiede anche la forma dell’interiorità dell’uomo. Gesù paragona il Regno dei cieli ad un campo di grano, per farci comprendere che dentro di noi è seminato qualcosa di piccolo e nascosto, che, tuttavia, possiede un’insopprimibile forza vitale. Malgrado tutti gli ostacoli, il seme si svilupperà e il frutto maturerà. Questo frutto sarà buono solo se il terreno della vita sarà stato coltivato secondo la volontà divina. Per questo, nella parabola del buon grano e della zizzania (Mt 13,24-30), Gesù ci avverte che, dopo la semina fatta dal padrone, “mentre tutti dormivano” è intervenuto “il suo nemico”, che ha seminato l’erba cattiva. Questo significa che dobbiamo essere pronti a custodire la grazia ricevuta dal giorno del Battesimo, continuando ad alimentare la fede nel Signore, che impedisce al male di mettere radici. Sant’Agostino, commentando questa parabola, osserva che “molti prima sono zizzania e poi diventano buon grano” e aggiunge: “se costoro, quando sono cattivi, non venissero tollerati con pazienza, non giungerebbero al lodevole cambiamento” (Quaest. septend. in Ev. sec. Matth., 12, 4: PL 35, 1371).

[Papa Benedetto, Angelus 17 luglio 2011]

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The disciples, already know how to pray by reciting the formulas of the Jewish tradition, but they too wish to experience the same “quality” of Jesus’ prayer (Pope Francis)
I discepoli, sanno già pregare, recitando le formule della tradizione ebraica, ma desiderano poter vivere anche loro la stessa “qualità” della preghiera di Gesù (Papa Francesco)
Saint John Chrysostom affirms that all of the apostles were imperfect, whether it was the two who wished to lift themselves above the other ten, or whether it was the ten who were jealous of them (“Commentary on Matthew”, 65, 4: PG 58, 619-622) [Pope Benedict]
San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622) [Papa Benedetto]
St John Chrysostom explained: “And this he [Jesus] says to draw them unto him, and to provoke them and to signify that if they would covert he would heal them” (cf. Homily on the Gospel of Matthew, 45, 1-2). Basically, God's true “Parable” is Jesus himself, his Person who, in the sign of humanity, hides and at the same time reveals his divinity. In this manner God does not force us to believe in him but attracts us to him with the truth and goodness of his incarnate Son [Pope Benedict]
Spiega San Giovanni Crisostomo: “Gesù ha pronunciato queste parole con l’intento di attirare a sé i suoi ascoltatori e di sollecitarli assicurando che, se si rivolgeranno a Lui, Egli li guarirà” (Comm. al Vang. di Matt., 45,1-2). In fondo, la vera “Parabola” di Dio è Gesù stesso, la sua Persona che, nel segno dell’umanità, nasconde e al tempo stesso rivela la divinità. In questo modo Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira a Sé con la verità e la bontà del suo Figlio incarnato [Papa Benedetto]
This belonging to each other and to him is not some ideal, imaginary, symbolic relationship, but – I would almost want to say – a biological, life-transmitting state of belonging to Jesus Christ (Pope Benedict)
Questo appartenere l’uno all’altro e a Lui non è una qualsiasi relazione ideale, immaginaria, simbolica, ma – vorrei quasi dire – un appartenere a Gesù Cristo in senso biologico, pienamente vitale (Papa Benedetto)
She is finally called by her name: “Mary!” (v. 16). How nice it is to think that the first apparition of the Risen One — according to the Gospels — took place in such a personal way! [Pope Francis]
Viene chiamata per nome: «Maria!» (v. 16). Com’è bello pensare che la prima apparizione del Risorto – secondo i Vangeli – sia avvenuta in un modo così personale! [Papa Francesco]
Jesus invites us to discern the words and deeds which bear witness to the imminent coming of the Father’s kingdom. Indeed, he indicates and concentrates all the signs in the enigmatic “sign of Jonah”. By doing so, he overturns the worldly logic aimed at seeking signs that would confirm the human desire for self-affirmation and power (Pope John Paul II)
Gesù invita al discernimento in rapporto alle parole ed opere, che testimoniano l'imminente avvento del Regno del Padre. Anzi, Egli indirizza e concentra tutti i segni nell'enigmatico "segno di Giona". E con ciò rovescia la logica mondana tesa a cercare segni che confermino il desiderio di autoaffermazione e di potenza dell'uomo (Papa Giovanni Paolo II)
Without love, even the most important activities lose their value and give no joy. Without a profound meaning, all our activities are reduced to sterile and unorganised activism (Pope Benedict)

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don Giuseppe Nespeca

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