Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
(Mc 16,9-15)
«Come è universale la grande Via! Può stare a sinistra come a destra» [Tao Tê Ching (xxxiv)].
Malgrado le difficoltà a credere, i discepoli vengono costituiti araldi della Notizia di Dio.
Lieta Novella favorevole all’umanità che intende viaggiare verso se stessa - senza più il bagaglio dei soverchianti accumuli della tradizione, o il condizionamento delle mode.
Gesù fa emergere il portato delle capacità trasmutative già in dote a ciascuno, per la comunione con Dio e i fratelli, nel cammino della vita e nel senso di rinascita che vi si annida.
La sua Persona e vicenda c’insegna che tutto ciò si sviluppa dopo un dolore, i travagli, esperienze di rifiuto, pensieri di fallimento e morte... [per noi oggi, anche in riferimento a nuovi assetti, o crisi globali, guerra, emergenza sanitaria].
In tale ottica che pare rovesciata, la sua proposta soppianta il giogo oppressivo delle perfezioni esterne predicate dalla religione; sostituite da nostre semplici virtù famigliari, colte dal di dentro.
Non: fare proseliti, allestire, combattere, bensì ‘accogliere’. Non: ‘obbedire’ a Dio, ma ‘somigliare’ a Lui essendo se stessi; così via.
La Chiesa non avrebbe dovuto diventare una comunione etica di eroi e santi, ma di peccatori e indecisi.
Infatti, la vicenda degli apostoli increduli ci conforta: siamo già abilitati, e con attitudine alla pienezza. Ma nel suo capovolgimento.
È la risurrezione che ci manda fra gli uomini, appunto da rigenerare; proprio come noi.
Quindi la condizione di “apostolo” intreccia le proprie radici nel poco a poco dell’esistenza concreta.
Non è sottoposta alla solita trafila dottrinale, morale, devota, delle cose grandi; non tarda più ad essere assunta.
Malgrado il credere in sé rimanga fragile, facciamo di continuo esperienza di rigenerazione dalle nostre macerie - nel migliore dei casi continuando a far nascere ancora l’intero organismo dello spirito, e l’universo interiore.
Tutto ciò plasma una coscienza d’inadeguatezza differente: quella nella Fede - solo positiva, che capisce i fratelli e sa giustificare le resistenze all’Annuncio.
Infatti è nel recupero delle sorprese, dei lati opposti e delle contraddizioni che siamo diventati - nel proprio - esperti della difficoltà.
In tal guisa, più in grado di percepire i disagi; perfino il sentirsi svuotati - come stato energetico preparatorio.
Poi abbiamo imparato l’ascolto delle emozioni: anche il sentirci travolti - perfino nelle idee.
Nonché la necessità di cogliere o perdersi nei dolori, perfino insopportabili.
E non temere la solitudine, chiave d’accesso ai tesori della propria eccentricità e Chiamata per Nome.
Insomma, al fine di una realizzazione vocazionale, ciascuno è già perfetto.
Nel suo portato d’energie difformi, deve solo imparare a incontrare i lati di sé cui ancora non ha dato spazio.
Come se dentro di noi avessimo una molteplicità di ‘volti’ - spesso tutti da scoprire, dietro un qualche guscio che resiste.
Sono energie plasmabili, potenze, altri assetti; occasioni che completano, e guidano infallibilmente alla fioritura personale e sociale.
Qui passiamo dall’esperienza di morte-risurrezione alla vera testimonianza, nella spontanea franchezza d’essere stati abilitati come evangelizzatori.
Cosa che ci sorprende. Ma adesso il Messaggio fa corpo con noi stessi.
Richiamo di pace, però esplosivo - incredibile, e lo si vede più dai limiti (ora nulla da temere) che dalla capacità di allestire cattedre e vetrine.
Dopo Cristo non bisogna più “migliorare” secondo accezione comune.
Non v’è attesa e proposito à la page, o che guardino e si abbeverino alla fonte del passato. Essi che poi ci ricollocano nella medesima situazione prevedibile di sempre.
Per i malfermi discepoli, la religione era la negazione di se stessi nel profondo.
Viceversa, la vocazione diveniva lo sviluppo di ciò che ognuno era nell’intimo, e che non si era dato: la strada della realizzazione di sé nel contributo ai fratelli.
Unica arma convincente, la genuinità: franchezza che arde dentro per farci santuari inconsapevoli e incompleti, eppur viventi.
Sola via per incontrare le anime.
Le chiese di prima generazione erano piccole realtà sperdute nell’immensità dell’impero. Comunità minimali «in mezzo» alla vastità di un mondo segnato da princìpi differenti.
Fraternità popolari animate da una passione che le rendevano testimonianza visibile e Manifestazione della vita del Risorto.
Lo spirito delle origini era l’unica prova e possibilità di riconoscimento del Cristo.
Poi per difendersi dalle critiche iniziarono a spuntare le liste di “apparizioni”, ma solo a partire dalla seconda generazione di credenti.
Oggi non appare più? No, ancora si Manifesta nel suo popolo.
Questa è tutta la partita.
La difficoltà ad accettare i segnali che convincono della Presenza di Gesù e del suo stesso Spirito possono essere superati.
Non con l’organizzazione, che affievolisce l’unicità. Qui non si vive. Non col perfezionismo, che boicotta l’espressione delle nostre qualità.
Ma grazie alla convivialità delle differenze, e annunciando «a tutti» la «buona notizia» (v.15) che il Signore oltrepassa l’esperienza di quanto è già risaputo.
«Andate»: se non si fa Esodo, non si scatena lo Spirito. Non ci si deve perdere nella ricerca del consenso esterno.
È all’interno di un Cammino non selettivo che impariamo a trasformare i nostri disagi in risorse preziose per affrontare futuro.
La Lieta Novella da annunciare, appunto, è: il Padre è amabile; vuole prendersi cura.
Esatto contrario di ciò che predicavano le false guide sia del giudaismo che di qualsiasi cultura dell’impero.
Non un Dio sanguisuga che spersonalizza; viceversa, un Padre che dona.
Non il Dio della religione, che aspetta per la resa dei conti. Perché accentua le trasmutazioni.
Egli è Radice dell’essere e Relazione fondante. Dono che incessantemente Viene per attivare l’esuberanza di fioriture.
Non un grigio Legislatore e compassato Giudice, il quale impone norme o mette in castigo - per tenere tutti sotto controllo.
L’Eterno invita e trasmette la sua stessa eccedenza - persino discorde - per fondersi, e dilatare aspetti, risorse, volti difformi. Possibilità di realizzazione di ciascuno.
Impensabile, prima di Gesù.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come superi il dubbio, ripiegandoti? Cosa annunci con la tua vita? Essa oltrepassa l’esperienza diretta? Conosci realtà che manifestano il Risorto? Come additi sentieri esuberanti di speranza? Oppure sei selettivo e taci?
La Vittoria del Risorto è il suo Popolo, nella cura del creato
[Vangelo della Conversione di s. Paolo]
(Mc 16,15-18)
Paolo - che siamo noi - riesce a sganciarsi da pastoie d’asservimento a una religione antiquata e selettiva. Scopre la gioia di vivere.
La severa tradizione viene soppiantata, assieme a tutto il suo portato di falso e vuoto ideale di perfezione (individualista o di cerchia).
Vede le opportunità, appieno. Incontra e intuisce il meglio, che lo persuade a lanciarsi nel rischio della vita di Fede.
Riconosce l’Amore che ben dispone, umanizza, convince intimamente perché recupera, reintegra e fa conviviali le differenze e i propri stessi opposti.
Qui scopre l’autentico tratto divino. Qualità che surclassa le norme di purità farisaiche - solo sterilizzanti - cui aveva precipitosamente aderito.
Tutto ciò lo smonta, gli fa sperimentare un altro Regno, il quale trasmette una diversa Visione - senza più condizioni d’indefettibilità impossibili.
Il vissuto fraterno degli intimi al Signore lo costringe: sente di dover crollare dall’empireo in cui si era posto.
Cade non da cavallo, ma dai piedistalli artificiosi della credenza ereditata - che non lo incoraggiava a crescere, da dentro.
Sperimenta le dinamiche attive d’una grazia che non sovrasta; immeritata e preveniente - che fa il primo passo.
La riscontra fin nella propria vita intima lacerata, e nel carattere attento, ospitale, delle prime comunità: ne rimane affascinato.
Certo, l’improvvisa “conversione” può incidere a sua volta in modo altrettanto radicale, appassionato… e opposto alle scelte “inamidate”.
Il senso eccessivo, da capogiro - forse diversamente unilaterale, da “riformatori” - può essere tipico dei capovolgimenti dal precedente conformismo ingessato.
E può di nuovo diventare a senso unico.
Ma effettivamente, come segno della sua Presenza, Gesù ha lasciato uno spirito libero.
Non passerelle vintage, né sagre, o festival. Neppure fantasie di un mondo astratto e cerebrale, disincarnato.
Non un’ideologia fissa, e neppure una reliquia - o luoghi e tempi particolarmente dedicati.
In tale franchezza, che scatena lo Spirito, oggi ci riconosciamo tutti.
Segnatamente: nello spirito dell’Esodo e nell’afflato avventuroso dell’Apostolo delle genti, che ovunque e a chiunque proponeva il Risorto.
Questi è davvero Vivente nell’opera del suo Popolo che evangelizza senza posa né steccato (v.15) - ma nella misura in cui esso balza dall’idolo della distinzione alla convivialità delle differenze.
Dalle contrapposizioni e rovesciamenti, alla Comunione. La quale non è un torrente in piena, né attitudine urlata, perché fa spazio a migliore comprensione, valorizzando altri punti di vista.
Il compito appare grandioso e sembrerebbe superiore alle nostre forze, ma intanto possiamo dare inizio a un’atmosfera nuova vivendo in modo meno distratto; appunto, annunciando «a ogni creatura» (v.15).
L’espressione contiene l’invito a spalancare gli orizzonti di salvezza anche a tutto il creato - di cui non siamo i padroni.
Dopo decenni di saccheggio del territorio e proprio mentre il mondo delle devozioni è andato avanti indifferente, forse iniziamo a capire che Dio c’interpella a essere custodi, non predatori.
[Chiamati a una qualità di relazione totalmente differente da quella opportunista che abbiamo avuto sotto gli occhi e forse contribuito a perpetrare - proprio mentre le chiese erano ancora zeppe, assopendo le coscienze, nonché molte energie vitali].
Insomma, il Risorto attiva un modo, un luogo e tempo nuovi: sia per incontrare noi stessi e le persone, che piante e animali.
L’Annuncio della Salvezza che siamo invitati a proclamare continua con altri «segni» e messaggi assai pratici, i quali però nulla hanno a che fare con la competizione nei confronti di maghi e indovini (vv.17-18).
Purtroppo, il senso di queste righe interpretate a orecchio rischia di chiudere le folle in quel fraintendimento che può insinuare tutto un modo di pensare e uno stile ancorati allo strazio della spiritualità convenzionale, vuota di contenuto e incisività.
Siamo infatti ancora appassionatissimi della ricerca di visioni, prodigi dimostrativi e fenomeni da religione-spettacolo.
Abbiamo alle spalle un corposo filone storico che a partire dal secondo secolo ha voluto imporre una concezione apologetica dei “miracoli”: colpi di folgore assolutamente dozzinali e oggi motivo di giusto rifiuto.
In sostanza, la “predicazione del Vangelo” non tratta di cose arcigne, o di eccezionalità (pur qua e là plausibili).
È piuttosto un’opera di umanizzazione a maglie larghe, grazie alla quale le persone abbandonano l’aspetto aggressivo e pericoloso della loro natura.
Questo avviene sino a oggi, in favore dell’incontro e del dialogo.
Le forze di autodistruzione e morte vengono scacciate - non per prodigio puntuale, fulmineo, bensì a motivo d’un processo di assimilazione di contenuti, amicizia forte, esodo, e realizzazione.
Spesso l’accompagnamento spirituale della Parola e di una comunità autentica aiutano le persone a liberarsi dalle ossessioni d’indegnità che bloccano la vita - quindi a scoprire lati della personalità e potenze inespresse.
A commento del Tao Tê Ching (XLVII), il maestro Ho-shang Kung scrive: «Il santo [...] dalla propria persona conosce la persona altrui, dalla propria famiglia conosce la famiglia altrui: da queste egli guarda il mondo».
Sboccia in tale clima un linguaggio completamente nuovo: quello dell’accoglienza e Ascolto sensibili, primo passo per una nuova comunicazione.
Essa ad es. consente di spostare lo sguardo, di acquisire saperi, conoscere chi non immaginavamo, frequentare altre regioni e culture; così via.
I «veleni» - anche quelli che non è facile identificare - vengono resi innocui, non perché ci si passa sopra e si fa finta che non esistano. Non siamo chiamati a essere dissociati.
Semplicemente, si prende atto del proprio carattere vocazionale e delle variegate inclinazioni altrui. Niente di ciò che è umano è solo «letale» (v.18).
Così - lasciando che ciascuno segua la propria natura - si diventa reciprocamente tolleranti e più ricchi, migliorando la convivenza; senza isterismi o forme di maniera.
Su tale onda vitale, ovunque può apparire un’attenzione impareggiabile ai deboli, malati, emarginati.
Attitudine naturale sapiente di attenzione agli ultimi, non più forzata e faticosa o imposta, bensì spontanea e schietta.
Con estrema naturalezza, proprio i malfermi sono ora messi in grado di farsi centro della famiglia, di comitive, dei gruppi, dell'attività ministeriale.
Istituzione a servizio, la nuova Chiesa; che via via espunge il modello dirigista dei grandi e autosufficienti.
In tal guisa, il nostro dna divino si manifesta quando realizziamo recuperi impossibili.
Insomma, siamo portatori di una forza in grado di ricreare donne e uomini - persino disperati che hanno smarrito energie e la stima di sé.
Fin dai primordi, con stile pratico, di fatto ecumenico e interreligioso, nessuna appartenenza denominazionale particolare è stata in grado di annientare lo spirito di convegno e convivenza, innato nell’umanità in ricerca.
In concreto, la proposta del Signore ha sempre lasciato spazio agli apporti singolari, alle potenze e immagini anche istintive, alle lotte interiori - non denigrate in partenza come nelle religioni.
Il Risorto si è manifestato ed espresso attraverso la Missione della sua Comunità amabile, luogo favorevole allo scambio dei doni; alla composizione delle distanze, alla felicità profonda.
Questo è stato il suo modo proprio di rivelare al mondo l’Amore del Padre - senza eccesso di proclami - e rimanerci accanto.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quali sono i segnali di nuova vita che hai potuto e voluto ricevere, assimilare, mettere in atto, e più ti corrispondono?
Oltrepassare i confini culturali e religiosi
«Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15); «fate discepoli i popoli tutti», dice il Signore (Mt 28,19). Con queste parole Gesù invia gli Apostoli a tutte le creature, perché giunga dovunque l’azione salvifica di Dio. Ma se guardiamo al momento dell’ascensione di Gesù al Cielo, narrata negli Atti degli Apostoli, vediamo che i discepoli sono ancora chiusi nella loro visione, pensano alla restaurazione di un nuovo regno davidico, e domandano al Signore: «è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (At 1,6). E come risponde Gesù? Risponde aprendo i loro orizzonti e donando loro la promessa e un compito: promette che saranno ricolmi della potenza dello Spirito Santo e conferisce loro l’incarico di testimoniarlo in tutto il mondo oltrepassando i confini culturali e religiosi entro cui erano abituati a pensare e a vivere, per aprirsi al Regno universale di Dio. E agli inizi del cammino della Chiesa, gli Apostoli e i discepoli partono senza alcuna sicurezza umana, ma con l’unica forza dello Spirito Santo, del Vangelo e della fede. È il fermento che si sparge nel mondo, entra nelle diverse vicende e nei molteplici contesti culturali e sociali, ma rimane un’unica Chiesa. Intorno agli Apostoli fioriscono le comunità cristiane, ma esse sono «la» Chiesa, che, a Gerusalemme, ad Antiochia o a Roma, è sempre la stessa, una e universale. E quando gli Apostoli parlano di Chiesa, non parlano di una propria comunità, parlano della Chiesa di Cristo, e insistono su questa identità unica, universale e totale della Catholica, che si realizza in ogni Chiesa locale. La Chiesa è una, santa, cattolica e apostolica, riflette in se stessa la sorgente della sua vita e del suo cammino: l’unità e la comunione della Trinità.
(Papa Benedetto, allocuzione al concistoro 24 novembre 2012)
Fede non quieta.
Trasmessa non per convincere ma per offrire un Tesoro
San Marco, uno dei quattro evangelisti, è molto vicino all’apostolo Pietro. Il Vangelo di Marco è stato il primo a essere scritto. È semplice, uno stile semplice, molto vicino […]
E nel Vangelo che abbiamo letto adesso - che è la fine del Vangelo di Marco - c’è l’invio del Signore. Il Signore si è rivelato come salvatore, come il Figlio unico di Dio; si è rivelato a tutto Israele, al popolo, specialmente con più dettagli agli apostoli, ai discepoli. Questo è il congedo del Signore, il Signore se ne va: partì e «fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio» (Mc 16,19). Ma prima di partire, quando apparve agli Undici, disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). C’è la missionarietà della fede. La fede, o è missionaria o non è fede. La fede non è una cosa soltanto per me, perché io cresca con la fede: questa è un’eresia gnostica. La fede ti porta sempre a uscire da te. Uscire. La trasmissione della fede; la fede va trasmessa, va offerta, soprattutto con la testimonianza: “Andate, che la gente veda come vivete” (cfr v. 15).
Qualcuno mi diceva, un prete europeo, di una città europea: “C’è tanta incredulità, tanto agnosticismo nelle nostre città, perché i cristiani non hanno fede. Se l’avessero, sicuramente la darebbero alla gente”. Manca la missionarietà. Perché alla radice manca la convinzione: “Sì, io sono cristiano, sono cattolico…”. Come se fosse un atteggiamento sociale. Nella carta d’identità ti chiami così e così… e “sono cristiano”. È un dato della carta d’identità. Questa non è fede! Questa è una cosa culturale. La fede necessariamente ti porta fuori, ti porta a darla: perché la fede essenzialmente va trasmessa. Non è quieta. “Ah, Lei vuol dire, padre, che tutti dobbiamo essere missionari e andare nei Paesi lontani?”. No, questa è una parte della missionarietà. Questo vuol dire che se tu hai fede necessariamente devi uscire da te, e far vedere socialmente la fede. La fede è sociale, è per tutti: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura” (v. 15). E questo non vuol dire fare proselitismo, come se io fossi una squadra di calcio che fa proselitismo, o fossi una società di beneficenza. No, la fede è: “niente proselitismo”. È far vedere la rivelazione, perché lo Spirito Santo possa agire nella gente attraverso la testimonianza: come testimone, con servizio. Il servizio è un modo di vivere. Se io dico che sono cristiano e vivo come un pagano, non va! Questo non convince nessuno. Se io dico che sono cristiano e vivo da cristiano, questo attira. È la testimonianza.
Una volta, in Polonia, uno studente universitario mi ha domandato: “Nell’università io ho tanti compagni atei. Cosa devo dire loro per convincerli?” – “Niente, caro, niente! L’ultima cosa che tu devi fare è dire qualcosa. Incomincia a vivere, e loro, vedendo la tua testimonianza, ti domanderanno: ‘Ma perché tu vivi così?’”. La fede va trasmessa: non per convincere ma per offrire un tesoro. “È lì, vedete?”. E questa è anche l’umiltà della quale parlava San Pietro nella Prima Lettura: «Carissimi, rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili» (1Pt 5,5). Quante volte nella Chiesa, nella storia, sono nati movimenti, aggregazioni, di uomini o donne che volevano convincere della fede, convertire… Veri “proselitisti”. E come sono finiti? Nella corruzione.
È così tenero questo passo del Vangelo! Ma dov’è la sicurezza? Come posso essere sicuro che uscendo da me sarò fecondo nella trasmissione della fede? «Proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15), farete meraviglie (cfr vv. 17-18). E il Signore sarà con noi fino alla fine del mondo. Ci accompagna. Nella trasmissione della fede, c’è sempre il Signore con noi. Nella trasmissione dell’ideologia ci saranno i maestri, ma quando io ho un atteggiamento di fede che va trasmessa, c’è il Signore lì che mi accompagna. Mai, nella trasmissione della fede, sono solo. È il Signore con me che trasmette la fede. Lo ha promesso: “Io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (cfr Mt 28,20).
Preghiamo il Signore perché ci aiuti a vivere la nostra fede così: la fede da porte aperte, una fede trasparente, non “proselitista”, ma che faccia vedere: “Io sono così”. E con questa sana curiosità, aiuti la gente a ricevere questo messaggio che li salverà.
(Papa Francesco, s. Marta omelia 25 aprile 2020)
«Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15); «fate discepoli i popoli tutti», dice il Signore (Mt 28,19). Con queste parole Gesù invia gli Apostoli a tutte le creature, perché giunga dovunque l’azione salvifica di Dio. Ma se guardiamo al momento dell’ascensione di Gesù al Cielo, narrata negli Atti degli Apostoli, vediamo che i discepoli sono ancora chiusi nella loro visione, pensano alla restaurazione di un nuovo regno davidico, e domandano al Signore: «è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (At 1,6). E come risponde Gesù? Risponde aprendo i loro orizzonti e donando loro la promessa e un compito: promette che saranno ricolmi della potenza dello Spirito Santo e conferisce loro l’incarico di testimoniarlo in tutto il mondo oltrepassando i confini culturali e religiosi entro cui erano abituati a pensare e a vivere, per aprirsi al Regno universale di Dio. E agli inizi del cammino della Chiesa, gli Apostoli e i discepoli partono senza alcuna sicurezza umana, ma con l’unica forza dello Spirito Santo, del Vangelo e della fede. È il fermento che si sparge nel mondo, entra nelle diverse vicende e nei molteplici contesti culturali e sociali, ma rimane un’unica Chiesa. Intorno agli Apostoli fioriscono le comunità cristiane, ma esse sono «la» Chiesa, che, a Gerusalemme, ad Antiochia o a Roma, è sempre la stessa, una e universale. E quando gli Apostoli parlano di Chiesa, non parlano di una propria comunità, parlano della Chiesa di Cristo, e insistono su questa identità unica, universale e totale della Catholica, che si realizza in ogni Chiesa locale. La Chiesa è una, santa, cattolica e apostolica, riflette in se stessa la sorgente della sua vita e del suo cammino: l’unità e la comunione della Trinità.
[Papa Benedetto, allocuzione al concistoro 24 novembre 2012]
Carissimi giovani,
1. Il Signore ha benedetto in modo davvero straordinario la VI Giornata Mondiale della Gioventù, celebrata lo scorso agosto presso il Santuario di Jasna Gora a Czestochowa. Nell’annunziarvi il tema della prossima Giornata, ritorno con il pensiero a quei momenti meravigliosi, rendendo grazie alla divina Provvidenza per i frutti spirituali che quell’Incontro Mondiale ha portato non solo alla Chiesa, ma all’intera umanità.
Quanto vorrei che il soffio dello Spirito Santo, che abbiamo sentito a Czestochowa, si diffondesse dappertutto! In quei giorni indimenticabili il Santuario Mariano era diventato cenacolo di una nuova Pentecoste, con le porte spalancate verso il terzo Millennio. Ancora una volta il mondo ha potuto vedere la Chiesa, così giovane e così missionaria, piena di gioia e di speranza.
Ho provato una felicità immensa nel vedere tanti giovani, i quali, per la prima volta, si sono trovati insieme dall’Est e dall’Ovest, dal Nord e dal Sud, uniti dallo Spirito Santo nel vincolo della preghiera. Abbiamo vissuto un evento storico, un evento la cui incommensurabile portata salvifica ha aperto una nuova tappa nel cammino di evangelizzazione, del quale i giovani sono i protagonisti.
Eccoci, dunque, alla VII Giornata Mondiale della Gioventù 1992. Come tema di quest’anno, ho scelto le parole di Cristo: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo” (Mc 16, 15). Queste parole, indirizzate agli Apostoli, toccano, mediante la Chiesa, ogni battezzato. Come è facile notare, si tratta di una tematica intimamente collegata a quella dell’anno scorso. Lo stesso Spirito, che ci ha resi figli di Dio, ci spinge all’evangelizzazione. La vocazione cristiana, infatti, implica una missione.
Alla luce del mandato missionario che Cristo ci ha affidato, appaiono con maggior chiarezza il significato e l’importanza delle Giornate Mondiali della Gioventù nella Chiesa. Partecipando a questi raduni, i giovani intendono confermare e rinvigorire il proprio “sì” a Cristo e alla sua Chiesa, ripetendo, con le parole del profeta Isaia: “Eccomi, manda me!” (cf. Is 6, 8). È stato appunto questo il significato del rito di invio, che ha avuto luogo a Czestochowa, quando ho consegnato ad alcuni vostri rappresentanti dei ceri accesi, invitando tutti i giovani a portare la luce di Cristo nel mondo. Sì, a Jasna Gora - alla Montagna Luminosa - lo Spirito Santo ha acceso una luce che è segno di speranza per la Chiesa e per tuta l’unità.
2. La Chiesa è, per sua natura, una comunità missionaria (cf. Ad gentes, 2). Essa vive costantemente protesa in questo slancio missionario, che ha ricevuto dallo Spirito Santo nel giorno della Pentecoste: “avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni” (At 1, 7). Infatti, lo Spirito Santo è il protagonista di tutta la missione ecclesiale (cf. Ioannis Pauli PP. II, Redemptoris missio, III). Di conseguenza, anche la vocazione cristiana è proiettata verso l’apostolato, verso l’evangelizzazione, verso la missione. Ogni battezzato è chiamato da Cristo a diventare suo apostolo nel proprio ambiente di vita e nel mondo: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20, 21). Cristo, tramite la sua Chiesa, vi affida la missione fondamentale di comunicare agli altri il dono della salvezza e vi invita a partecipare alla costruzione del suo Regno. Sceglie voi, nonostante i limiti che ciascuno porta con sé, perché vi ama e crede in voi. Questo amore di Cristo, così incondizionato, deve costituire l’anima stessa del vostro apostolato, secondo le parole di San Paolo: “l’amore del Cristo ci spinge” (2 Cor 5, 14).
Essere discepoli di Cristo non è un fatto privato. Al contrario, il dono della fede deve essere condiviso con gli altri. Per questo lo stesso Apostolo scrive: “Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1 Cor 9, 16). Non dimenticate, inoltre, che la fede si fortifica e cresce proprio quando la si dona agli altri (cf. Ioannis Pauli PP. II, Redemptoris missio, 2).
3. “Andate in tutto il mondo”.
Le terre di missione, in cui siete chiamati ad operare, non sono situate necessariamente nei paesi lontani, ma possono trovarsi in tutto il mondo, anche nei vostri ambienti quotidiani. Nei paesi di più antica tradizione cristiana c’è oggi un urgente bisogno di rimettere in luce l’annuncio di Gesù tramite una nuova evangelizzazione, essendo ancora diffusa la schiera di persone che non conoscono Cristo, o che lo conoscono poco; molte, prese dai meccanismi del secolarismo e dell’indifferentismo religioso, se ne sono allontanate (cf. Eiusdem, Christifideles laici, 4).
Lo stesso mondo dei giovani, miei cari, costituisce per la Chiesa contemporanea una terra di missione. È a tutti noto quali problemi tormentano gli ambienti giovanili: la caduta dei valori, il dubbio, il consumismo, la droga, la delinquenza, l’erotismo, ecc. Ma, al tempo stesso, è viva in ogni giovane una grande sete di Dio, anche se a volte si nasconde dietro un atteggiamento di indifferenza o addirittura di ostilità. Quanti giovani, smarriti e insoddisfatti, sono andati a Czestochowa per dare un senso più profondo e decisivo alla propria vita! Quanti sono venuti da lontano - non solo geograficamente - pur non essendo battezzati! Sono certo che per la vita di molti giovani l’incontro a Czestochowa ha costituito una forma di “preparazione evangelica”; per alcuni, ha addirittura segnato una svolta essenziale, un’occasione di autentica conversione.
La messe è abbondante! Eppure, mentre sono tanti i giovani che cercano Cristo, sono ancora pochi gli apostoli in grado di annunciarlo in modo credibile. C’è bisogno di tanti sacerdoti, di maestri ed educatori nella fede, ma c’è anche bisogno di giovani animati dallo spirito missionario, poiché sono i giovani che “debbono diventare primi e immediati apostoli dei giovani, esercitando da loro stessi l’apostolato fra di loro” (Apostolicam actuositatem, 12). Questa è una basilare pedagogia della fede. Ecco, dunque, il vostro grande compito!
Il mondo di oggi lancia molte sfide al vostro impegno ecclesiale. In particolare, il crollo del sistema marxista nei paesi dell’Europa Centro-orientale e la conseguente apertura di numerosi paesi all’annuncio di Cristo costituiscono un nuovo segno dei tempi, a cui la Chiesa è chiamata a dare una risposta adeguata. Allo stesso modo la Chiesa cerca le vie per superare le barriere di varia natura che permangono in molti altri paesi. Sono indispensabili lo slancio e l’entusiasmo che proprio voi, carissimi giovani, potete offrire alla Chiesa.
4. “Predicate il Vangelo”.
Annunciare Cristo significa soprattutto esserne testimoni con la vita. Si tratta della forma di evangelizzazione più semplice e, al tempo stesso, più efficace a vostra disposizione. Essa consiste nel manifestare la presenza visibile di Cristo nella propria esistenza, attraverso l’impegno quotidiano e la coerenza con il Vangelo in ogni scelta concreta. Oggi il mondo ha bisogno innanzi tutto di testimoni credibili. Voi, cari giovani, che tanto amate l’autenticità nelle persone e che quasi istintivamente condannate ogni tipo di ipocrisia, siete disposti ad offrire al Cristo una testimonianza limpida e sincera.
Testimoniate, dunque, la vostra fede, anche tramite il vostro impegno nel mondo. Il discepolo di Cristo non è mai un osservatore passivo ed indifferente di fronte agli eventi. Al contrario, egli si sente responsabile della trasformazione della realtà sociale, politica, economica e culturale.
Annunziare, inoltre, significa propriamente proclamare, farsi portatore della Parola di salvezza agli altri. Molte persone rifiutano Dio per ignoranza. C’è, infatti, molta ignoranza intorno alla fede cristiana, ma c’è anche un profondo desiderio di ascoltare la Parola di Dio. E la fede nasce dall’ascolto. Scrive San Paolo: “E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?” (Rm 10, 14). Annunziare la Parola di Dio, cari giovani, non spetta soltanto ai sacerdoti o ai religiosi, ma anche a voi. Dovete avere il coraggio di parlare di Cristo nelle vostre famiglie, nel vostro ambiente di studio, di lavoro o di ricreazione, animati dallo stesso fervore degli Apostoli quando affermavano: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto ed ascoltato” (At 4, 20). Neanche voi dovete tacere! Esistono luoghi e situazioni in cui solo voi potete portare il seme della Parola di Dio.
Non abbiate paura di proporre Cristo a chi non lo conosce ancora. Cristo è la vera risposta, la più completa a tutte le domande che riguardano l’uomo e il suo destino. Senza di lui l’uomo rimane un enigma senza soluzione. Abbiate, dunque, il coraggio di proporre Cristo! Certo, bisogna farlo con il dovuto rispetto della libertà di coscienza di ciascuno, ma bisogna pur farlo (cf. Ioannis Pauli PP. II, Redemptoris missio, 39). Aiutare un fratello o una sorella a scoprire Cristo, Via, Verità e Vita (cf. Gv 14, 6) è un vero atto di amore verso il prossimo.
Parlare di Dio, oggi, non è un compito facile. Molte volte si incontra un muro di indifferenza, e anche una certa ostilità. Quante volte sarete tentati di ripetere con il profeta Geremia: “Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane!” Ma Dio risponde sempre: “Non dire: sono giovane, ma va’ da coloro a cui ti manderò” (cf. Ger 1, 6-7). Quindi non scoraggiatevi, perché non siete mai soli. Il Signore non mancherà di accompagnarvi, come ha promesso: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).
5. “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo”.
Il tema della VII Giornata Mondiale della Gioventù vi invita anche a guardare la storia dei popoli, in particolare la storia della loro evangelizzazione.
In vari casi si tratta di storia antichissima, in altri è, invece, storia recente. Ma è meraviglioso il dinamismo con cui proprio le Chiese più giovani crescono nella fede, arricchendo il patrimonio spirituale dell’intera Chiesa universale.
In occasione di questa Giornata, carissimi giovani di tutto il mondo, vi invito a riflettere, alla luce della fede, sulle figure degli apostoli e missionari, i quali per primi hanno innalzato la Croce di Cristo nei vostri paesi. Cercate di trarre dal loro esempio lo zelo e il coraggio per meglio affrontare le sfide dei nostri tempi.
Grati per il dono della fede che hanno portato ai popoli, vogliate assumervi in prima persona la responsabilità della eredità della Croce di Cristo, che siete chiamati a trasmettere alle generazioni future.
A questo punto, desidero rivolgere un incoraggiamento speciale ai giovani del Continente Latinoamericano, dove quest’anno si celebra il V Centenario della prima evangelizzazione. Questo evento, di grande importanza per la Chiesa intera, è per voi un’occasione per ringraziare il Signore della fede che vi ha donato e per rinnovare il vostro impegno di fronte alle sfide della nuova evangelizzazione, alle soglie del terzo Millennio.
6. Con la pubblicazione di questo Messaggio, si apre il cammino di preparazione spirituale alla celebrazione della prossima Giornata Mondiale della Gioventù, che vi riunirà intorno ai vostri Vescovi, il giorno della Domenica delle Palme.
Il carattere ordinario della celebrazione, tuttavia, non deve significare un impegno minore. Al contrario, invito voi, giovani, e gli animatori della pastorale giovanile, nonché i responsabili dei movimenti, associazioni e comunità ecclesiali a intensificare lo sforzo, affinché questo cammino si trasformi in una vera scuola di evangelizzazione e di formazione apostolica.
Spero che molti ragazzi e ragazze, animati da sincero zelo apostolico, vorranno consacrare la propria vita a Cristo e alla sua Chiesa, come sacerdoti, religiosi e religiose, oppure come laici disposti anche a lasciare il proprio paese per accorrere là dove scarseggiano gli operai della vigna di Cristo. Ascoltate, dunque, con attenzione la voce del Signore, che anche oggi non cessa di chiamarvi, così come chiamò Pietro ed Andrea: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini” (Mt 4, 19).
Nell’approssimarsi dell’anno 2000, la Chiesa sente l’esigenza di un rinnovato slancio missionario e ripone molta speranza in voi, carissimi giovani, proprio per questo. Non dimenticate di ringraziare ogni giorno lo Spirito Santo, il quale continua ad accendere tanti focolai di impegno apostolico nella Chiesa di oggi. Le comunità parrocchiali vive e dinamiche ne costituiscono un terreno assai fertile, così come le associazioni, i movimenti ecclesiali e le nuove comunità che crescono e si diffondono con tanta abbondanza di carismi, soprattutto negli ambienti giovanili. È, questo, un nuovo soffio che lo Spirito Santo dona ai nostri tempi: come vorrei che esso entrasse nella vita di ciascuno di voi!
Affido a Maria, Regina degli Apostoli, la celebrazione della Giornata Mondiale della Gioventù 1992. Ella vi insegni che per portare Gesù agli altri non è necessario compiere gesti straordinari, ma occorre semplicemente avere un cuore ricolmo d’amore per Dio e i fratelli, un amore che spinga a condividere i tesori inestimabili della fede, della speranza e della carità.
Lungo tutto il cammino di preparazione alla VII Giornata Mondiale della Gioventù vi accompagni, carissimi giovani e carissime giovani, la mia speciale benedizione apostolica.
Dal Vaticano, il 24 novembre 1991, Solennità di N. S. Gesù Cristo, Re dell’Universo.
[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per annunciare il Tema della VII GMG]
Trasmessa non per convincere ma per offrire un Tesoro
San Marco, uno dei quattro evangelisti, è molto vicino all’apostolo Pietro. Il Vangelo di Marco è stato il primo a essere scritto. È semplice, uno stile semplice, molto vicino […]
E nel Vangelo che abbiamo letto adesso - che è la fine del Vangelo di Marco - c’è l’invio del Signore. Il Signore si è rivelato come salvatore, come il Figlio unico di Dio; si è rivelato a tutto Israele, al popolo, specialmente con più dettagli agli apostoli, ai discepoli. Questo è il congedo del Signore, il Signore se ne va: partì e «fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio» (Mc 16,19). Ma prima di partire, quando apparve agli Undici, disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). C’è la missionarietà della fede. La fede, o è missionaria o non è fede. La fede non è una cosa soltanto per me, perché io cresca con la fede: questa è un’eresia gnostica. La fede ti porta sempre a uscire da te. Uscire. La trasmissione della fede; la fede va trasmessa, va offerta, soprattutto con la testimonianza: “Andate, che la gente veda come vivete” (cfr v. 15).
Qualcuno mi diceva, un prete europeo, di una città europea: “C’è tanta incredulità, tanto agnosticismo nelle nostre città, perché i cristiani non hanno fede. Se l’avessero, sicuramente la darebbero alla gente”. Manca la missionarietà. Perché alla radice manca la convinzione: “Sì, io sono cristiano, sono cattolico…”. Come se fosse un atteggiamento sociale. Nella carta d’identità ti chiami così e così… e “sono cristiano”. È un dato della carta d’identità. Questa non è fede! Questa è una cosa culturale. La fede necessariamente ti porta fuori, ti porta a darla: perché la fede essenzialmente va trasmessa. Non è quieta. “Ah, Lei vuol dire, padre, che tutti dobbiamo essere missionari e andare nei Paesi lontani?”. No, questa è una parte della missionarietà. Questo vuol dire che se tu hai fede necessariamente devi uscire da te, e far vedere socialmente la fede. La fede è sociale, è per tutti: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura” (v. 15). E questo non vuol dire fare proselitismo, come se io fossi una squadra di calcio che fa proselitismo, o fossi una società di beneficenza. No, la fede è: “niente proselitismo”. È far vedere la rivelazione, perché lo Spirito Santo possa agire nella gente attraverso la testimonianza: come testimone, con servizio. Il servizio è un modo di vivere. Se io dico che sono cristiano e vivo come un pagano, non va! Questo non convince nessuno. Se io dico che sono cristiano e vivo da cristiano, questo attira. È la testimonianza.
Una volta, in Polonia, uno studente universitario mi ha domandato: “Nell’università io ho tanti compagni atei. Cosa devo dire loro per convincerli?” – “Niente, caro, niente! L’ultima cosa che tu devi fare è dire qualcosa. Incomincia a vivere, e loro, vedendo la tua testimonianza, ti domanderanno: ‘Ma perché tu vivi così?’”. La fede va trasmessa: non per convincere ma per offrire un tesoro. “È lì, vedete?”. E questa è anche l’umiltà della quale parlava San Pietro nella Prima Lettura: «Carissimi, rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili» (1Pt 5,5). Quante volte nella Chiesa, nella storia, sono nati movimenti, aggregazioni, di uomini o donne che volevano convincere della fede, convertire… Veri “proselitisti”. E come sono finiti? Nella corruzione.
È così tenero questo passo del Vangelo! Ma dov’è la sicurezza? Come posso essere sicuro che uscendo da me sarò fecondo nella trasmissione della fede? «Proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15), farete meraviglie (cfr vv. 17-18). E il Signore sarà con noi fino alla fine del mondo. Ci accompagna. Nella trasmissione della fede, c’è sempre il Signore con noi. Nella trasmissione dell’ideologia ci saranno i maestri, ma quando io ho un atteggiamento di fede che va trasmessa, c’è il Signore lì che mi accompagna. Mai, nella trasmissione della fede, sono solo. È il Signore con me che trasmette la fede. Lo ha promesso: “Io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (cfr Mt 28,20).
Preghiamo il Signore perché ci aiuti a vivere la nostra fede così: la fede da porte aperte, una fede trasparente, non “proselitista”, ma che faccia vedere: “Io sono così”. E con questa sana curiosità, aiuti la gente a ricevere questo messaggio che li salverà.
[Papa Francesco, s. Marta omelia 25 aprile 2020]
(Gv 21,1-14)
Il medesimo segno della pesca sovrabbondante, in Lc 5,1-11 si colloca addirittura nel giorno in cui Gesù invita i primi discepoli a seguirlo per diventare “pescatori” di uomini.
Il prodigio della Vocazione espande il cammino del fedele in Cristo e interessa ogni esperienza che possiamo fare del Risorto nel lavoro ordinario - e quale Missione ci è affidata per sperimentarlo Vivente.
La Chiesa non è composta da fenomeni, ma da un cocciuto e smanioso a capo (Pietro). Qualcuno sta dentro e fuori (Tommaso), altri restano legati al passato (Natanaele), e non mancano i fanatici (i figli di Zebedeo); quindi gli anonimi, ossia tutti noi.
Pietro si rende conto che prima di dare ordini deve fare ed esporsi lui: se così, gli altri decideranno spontaneamente (v.3).
Ma senza la fiaccola della Parola, nessun risultato. Seguire Pietro non basta.
Ecco Gesù: sulla Riva della condizione definitiva ci chiama e ci fa strada, fa da guida all’attività, ed è finalmente Luce - l’Alba.
La rete va gettata dalla «parte destra» (v.6), ossia dalla parte buona!
Per tirar su persone da abissi d’acque inquinate e flutti di morte bisogna iniziare e puntare al meglio di ciascuno, far emergere il bene che sempre c’è.
Richiamo per noi.
Quindi Pietro - ciascun responsabile di comunità - non deve avere preconcetti, ma svestirsi della talare di capogruppo e cingersi il grembiule da servo [v.7: il verbo greco è quello della lavanda dei piedi].
Per un lavoro che doni risultato secondo Dio (l’amore) bisogna indossare la stessa veste di Cristo - unico distintivo: l’abito di chi non dà ordini, ma li riceve.
È il tratto della Chiesa autentica - nulla di grande: non arriva su un transatlantico, ma su una «barchetta» [v.8 testo greco].
E resta di bassa misura: come un poco di lievito, per abbracciare chiunque.
Tutto ciò plasma una coscienza d’inadeguatezza differente: quella nella Fede - solo positiva, perché capisce i fratelli. Li riconosce nell’intimo di sé, e sa giustificare le resistenze all’Annuncio.
Siamo collaboratori del grembiule, per dialogare con chi ha bisogno di recupero, in qualsiasi condizione di vortice o periferia si trovi.
Pertanto, «pascere» (vv.15-17) significa precedere e nutrire, non comandare.
Coloro che guidano devono essere segno di un Dio che non si stufa né ripicca.
Volto amabile e invitante di Colui che è capace di stupire e rimettere in piedi pure Simone. L’apostolo capo, che era stato chiamato a libertà e aveva scelto la condizione di lacchè [cf. Gv 21,9; con il «fuoco di brace» in Gv 18,18].
Dunque “nemico” di Dio è la ricerca della ‘vita media’. Pantano ove non ci si getta.
[Una riflessione per il capo scout recita: «Ricorda, capo scout: se tu rallenti, essi si arrestano; se tu cedi, essi indietreggiano; se tu ti siedi, essi si sdraiano. Se tu cammini avanti, essi ti supereranno; se tu dai la tua mano, essi daranno la loro pelle»].
Adesso il Messaggio fa corpo con noi stessi.
[Venerdì fra l’Ottava di Pasqua, 25 aprile 2025]
Gv 21,1-14 (1-19)
Il medesimo segno della pesca sovrabbondante, in Lc 5,1-11 non riguarda la vicenda della Chiesa dopo la Pasqua, ma si colloca addirittura nel giorno in cui Gesù invita i primi discepoli a seguirlo per diventare “pescatori” di uomini.
Il prodigio della Vocazione espande il cammino del fedele in Cristo e interessa ogni esperienza che possiamo fare del Risorto nel lavoro ordinario - e quale Missione ci è affidata per sperimentarlo Vivente.
La Chiesa non è composta da fenomeni, ma da un cocciuto e smanioso a capo [Pietro]. Qualcuno sta dentro e fuori [Tommaso], altri restano legati al passato [Natanaele], e non mancano i fanatici [i figli di Zebedeo]; quindi gli anonimi, ossia tutti noi.
Pietro si rende conto che prima di dare ordini deve fare ed esporsi lui: se così, gli altri pur insubordinati decideranno spontaneamente (v.3), dilatando la loro vita.
Ma senza la fiaccola della Parola, nessun risultato. Seguire Pietro non basta e non salva nessuno.
Ecco Gesù: sulla Riva della condizione definitiva ci chiama e ci fa strada, fa da guida all’attività, ed è finalmente Luce - l’Alba.
La rete va gettata dalla «parte destra» (v.6), ossia dalla parte buona!
Per tirar su persone da abissi d’acque inquinate e flutti di morte verso una possibilità di respiro o stima di sé e vita piena, bisogna iniziare e puntare al meglio di ciascuno, far emergere il bene che sempre c’è.
Richiamo per noi. Ogni cultura possiede molte qualità: si faccia leva su di esse, invece di approcciare donne e uomini, etnie o situazioni, evidenziando limiti e problemi.
Quindi il Pietro - ciascun responsabile di comunità - non deve avere preconcetti, ma svestirsi della talare di capogruppo e cingersi il grembiule da servo [v.7: il verbo greco è quello della lavanda dei piedi].
Per un lavoro che doni risultato secondo Dio (l’amore) bisogna indossare la stessa veste di Cristo - unico distintivo: l’abito di chi non dà ordini, ma li riceve.
È il tratto della Chiesa autentica - nulla di grande: non arriva su un transatlantico, ma su una «barchetta» [v.8 testo greco].
E resta di bassa misura: come un poco di lievito, per abbracciare tutti.
Malgrado le difficoltà a credere, i discepoli vengono costituiti araldi della notizia di Dio favorevole all’umanità che intende viaggiare verso se stessa - senza più il bagaglio dei soverchianti accumuli di maniera.
Per la comunione con Dio e i fratelli, nel cammino della vita e nel senso di rinascita che vi si annida [ad es. dopo un dolore, i travagli, esperienze di rifiuto, pensieri di fallimento e morte...] Gesù aveva fatto emergere il portato delle capacità trasmutative già in dote a ciascuno.
La sua proposta aveva soppiantato il giogo oppressivo delle perfezioni esterne predicate dalla religione, sostituite appunto con le nostre semplici virtù famigliari, colte dal di dentro. Non: combattere, bensì accogliere. Non: obbedire, ma somigliare. E così via.
La chiesa non avrebbe dovuto diventare una comunione etica di santi, ma di peccatori e indecisi. La vicenda degli apostoli increduli ci conforta: siamo già abilitati, e con attitudine alla pienezza. Ma nel suo capovolgimento.
È la risurrezione che ci manda fra gli uomini, appunto da rigenerare; proprio come noi. Quindi la condizione di apostolo non è sottoposta alla solita trafila dottrinale, moralistica, di costume, e religiosa; non tarda più ad essere assunta.
Malgrado il credere in sé rimanga fragile, facciamo di continuo esperienza di risuscitazione dalle nostre macerie - risollevando o nel migliore dei casi rigenerando l’intero organismo dello spirito, e l’universo interiore.
Tutto ciò plasma una coscienza d’inadeguatezza differente: quella nella Fede - solo positiva, perché capisce i fratelli. Li riconosce nell’intimo di sé, e in tal guisa sa giustificare le resistenze all’Annuncio.
Infatti è nel recupero dei lati opposti e nella sinergia delle contraddizioni che siamo diventati - nel proprio - esperti della difficoltà. Più in grado di cogliere i disagi; perfino il sentimento di sentirsi svuotati, che presto o tardi darà spazio al capovolgimento; inedito felice.
Poi abbiamo imparato l’ascolto delle emozioni: l’intuirsi travolti - persino nelle idee. E la necessità di cogliere e perderci nei dolori, assurdi o insopportabili. Lati dignitosi; volti di noi stessi.
Insomma, al fine di una realizzazione vocazionale, ciascuno è già “perfetto”.
Nel suo portato di energie difformi, deve solo imparare a incontrare i rilievi di sé cui ancora non ha fatto largo.
Come se dentro di noi avessimo una molteplicità di aspetti, spesso tutti da scoprire, dietro un qualche guscio che resiste - i quali ci completano e guidano infallibilmente alla fioritura personale e sociale.
Così nell’esodo passiamo dall’esperienza di morte-risurrezione alla vera testimonianza - nella spontanea franchezza di venire abilitati come evangelizzatori.
Cosa che ci sorprende. Ma adesso il Messaggio fa corpo con noi stessi.
Diventa Richiamo di pace, però esplosivo - incredibile, e lo si vede più dai limiti (ora nulla da temere) che dall’abilità, o dallo stile esterno, dalla capacità di allestire cattedre sentenziose, nonché vetrine.
Dopo Cristo non bisogna più “migliorare” secondo accezione comune - né attesa, o proposito, che guardino e si abbeverino alla fonte del già detto da altri [in passato, o per la moda] che poi ricolloca nella medesima situazione prevedibile di sempre.
Per i malfermi apostoli, il consenso, la religione antica o glamour, l’identificazione, erano la negazione di se stessi nel cuore.
Viceversa la Chiamata per Nome diveniva lo sviluppo di ciò che ognuno era nel profondo e che non si era dato, manipolandosi.
Strada della realizzazione di sé, anche nel contributo ai fratelli. Anch’essi non intimamente dissociati.
Unica arma convincente, la genuinità - che arde dentro per farci santuari, inconsapevoli e incompleti ma viventi.
Contemplativi e in azione. Sola via per incontrare le anime.
Siamo collaboratori del grembiule, per dialogare con chi ha bisogno di recupero, in qualsiasi condizione di vortice o periferia si trovi.
Pertanto, «pascere» (vv.15-17) significa precedere e nutrire, non comandare.
Coloro che guidano devono essere segno di un Dio che non si stufa né ripicca.
Volto amabile e invitante di Colui che è capace di stupire e rimettere in piedi pure Simone. L’apostolo a capo, che era stato chiamato a libertà e aveva scelto la condizione di lacchè [cf. Gv 21,9; con il «fuoco di brace» in Gv 18,18].
Al termine d’un gioco di riproposte, nel dialogo con lo stesso Simone - «di Giovanni» perché ancora spiritualmente allievo del Battista (!) - è Gesù che si “accontenta” d’un amore di amicizia [cf. testo greco] modificando la doppia domanda «mi ami?» con la terza: «mi vuoi bene?».
L’amore umano attende un minimo di soddisfazione, non riesce a configurarsi in pura perdita - aspetta qualcosina, almeno un cenno di approvazione e gratitudine.
Nessun riconoscimento? Allora è il più Forte che cede.
‘Attendere’ è l’infinito del verbo ‘amare’, perché consente di nascere ancora.
Il sentimento umano ha fretta: regola la sua condotta sulla base del successo o delle perfezioni dell’amato.
L’Amore divino recupera; aiuta a diventare un’altra ‘persona’, a tutto tondo - non rompe l’intesa.
La sua Chiamata non è legata a meriti e prestazioni: anche attraverso le opere, dire «ti amo» è (purtroppo non di rado) una dichiarazione fatua.
O un’espressione sincera, ma spesso animata dall’entusiasmo senza radice profonda, che ad una successiva prova dei fatti trasforma il giuramento di fedeltà in sentimento fragile e incerto.
È la consapevolezza della propria impresentabilità gratuitamente redenta e trasformata in terreno di assurda fiducia, che tramuta la presunzione di sé in apostolato!
Per questo Gesù chiede a Pietro d’iniziare cominciando dai piccoli del gregge (v.15).
E «pascere» (vv.15.17) o «pasturiare» (v.16) significa «alimentare»: nutrire, aver cura, proteggere, favorire; avviare, rischiare in prima persona, difendere e metterci la faccia - non “comandare”.
Pascere è farsi presente, in un continuo di rimandi. È questo clima che convince, educa, sfama e sostiene, lasciando crescere e fiorire.
«Pascere» non è [appunto] dominare, ma alimentare l’ideale. E cominciare dal gregge minuto (v.15).
Insomma, onde assicurarsi l’esito “felice”, il credente vero, l’amico del Signore, il figlio di Dio, non si allea con gente che conta, poi si vedrà.
Neppure deve “pescare” proseliti, bensì dilatare e rallegrare la vita.
La pienezza del ‘risultato’ è la Felicità di ogni singola persona reale - così com’è - non come “dovrebbe essere” secondo opinione acclarata.
Infatti Gesù non chiede a Pietro: sei un buon amministratore? sei un bravo organizzatore? sei un abile animatore? sei abbastanza attrezzato, intelligente, furbo e introdotto per tener testa agli avversari?
Dunque “nemico” di Dio non è l’incertezza o il peccato - ossessione che genera squilibrati - bensì la ricerca della “vita media”. Pantano ove non ci si getta.
[Una riflessione per il capo scout recita: «Ricorda, capo scout: se tu rallenti, essi si arrestano; se tu cedi, essi indietreggiano; se tu ti siedi, essi si sdraiano. Se tu cammini avanti, essi ti supereranno; se tu dai la tua mano, essi daranno la loro pelle»].
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Sei un inviato o un semplice ammiratore?
Qual è la tua personale Sorgente?
Qual è la Fonte delle tue relazioni?
E la radice della fedeltà e di ogni generosità che ti trascina, e mostri?
La chiamata di Pietro ad essere pastore, che abbiamo udito nel Vangelo, fa seguito alla narrazione di una pesca abbondante: dopo una notte, nella quale avevano gettato le reti senza successo, i discepoli vedono sulla riva il Signore Risorto. Egli comanda loro di tornare a pescare ancora una volta ed ecco che la rete diviene così piena che essi non riescono a tirarla su; 153 grossi pesci: “E sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò” (Gv 21, 11). Questo racconto, al termine del cammino terreno di Gesù con i suoi discepoli, corrisponde ad un racconto dell’inizio: anche allora i discepoli non avevano pescato nulla durante tutta la notte; anche allora Gesù aveva invitato Simone ad andare al largo ancora una volta. E Simone, che ancora non era chiamato Pietro, diede la mirabile risposta: Maestro, sulla tua parola getterò le reti! Ed ecco il conferimento della missione: “Non temere! D’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5, 1–11). Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo – a Dio, a Cristo, alla vera vita. I Padri hanno dedicato un commento molto particolare anche a questo singolare compito. Essi dicono così: per il pesce, creato per l’acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all’uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita. E’ proprio così – nella missione di pescatore di uomini, al seguito di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio. E’ proprio così: noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita.
[Papa Benedetto, omelia inizio Ministero Petrino 24 aprile 2005]
1. "Quando già era l'alba Gesù si presentò sulla riva" (Gv 21,4). Sul far del mattino, il Risorto apparve agli Apostoli, reduci da una nottata di vano lavoro sul Lago di Tiberiade. L'evangelista precisa che in quella notte "non presero nulla" (Gv 21,3), e aggiunge che niente avevano da mangiare. All'invito di Gesù: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete" (Gv 21,6) essi ubbidirono senza esitare. Pronta fu la loro risposta e grande la ricompensa, perché quella rete, rimasta vuota la notte, poi "non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci" (Gv 21,6).
Come non vedere in questo episodio, che san Giovanni riferisce nell'epilogo del suo Vangelo, un segno eloquente di ciò che il Signore continua a compiere nella Chiesa e nel cuore dei credenti, che confidano senza riserve in Lui?
2. "Quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: "È il Signore!"" (Gv 21, 7). Nel Vangelo abbiamo ascoltato, dinanzi al miracolo compiuto, un discepolo riconoscere Gesù. Anche gli altri lo faranno in seguito. Il passaggio evangelico, nel presentarci Gesù che "si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro" (Gv 21, 13), ci indica come e quando possiamo incontrare Cristo risorto: nell'Eucaristia, dove Gesù è realmente presente sotto le specie del pane e del vino. Sarebbe triste se questa presenza amorosa del Salvatore, dopo tanto tempo, fosse ancora disconosciuta dall'umanità.
3. "E nessuno dei discepoli osava domandargli: "Chi sei?", poiché sapevano bene che era il Signore" (Gv 21, 12). Quando i discepoli lo riconoscono sulle rive del lago di Tiberiade, si rafforza la loro fede nel fatto che Cristo è risorto ed è presente in mezzo ai suoi. La Chiesa, da millenni, non si stanca di annunciare e di ripetere questa verità fondamentale della fede.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 29 aprile 2001]
Il Vangelo di oggi narra la terza apparizione di Gesù risorto ai discepoli, sulla riva del lago di Galilea, con la descrizione della pesca miracolosa (cfr Gv 21,1-19). Il racconto è collocato nella cornice della vita quotidiana dei discepoli, tornati alla loro terra e al loro lavoro di pescatori, dopo i giorni sconvolgenti della passione, morte e risurrezione del Signore. Era difficile per loro comprendere ciò che era avvenuto. Ma, mentre tutto sembrava finito, è ancora Gesù a “cercare” nuovamente i suoi discepoli. E’ Lui che va a cercarli. Questa volta li incontra presso il lago, dove loro hanno passato la notte sulle barche senza pescare nulla. Le reti vuote appaiono, in un certo senso, come il bilancio della loro esperienza con Gesù: lo avevano conosciuto, avevano lasciato tutto per seguirlo, pieni di speranza… e adesso? Sì, lo avevano visto risorto, ma poi pensavano: “Se n’è andato e ci ha lasciati… E’ stato come un sogno…”.
Ma ecco che all’alba Gesù si presenta sulla riva del lago; essi però non lo riconoscono (cfr v. 4). A quei pescatori, stanchi e delusi, il Signore dice: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (v. 6). I discepoli si fidarono di Gesù e il risultato fu una pesca incredibilmente abbondante. A questo punto Giovanni si rivolge a Pietro e dice: «È il Signore!» (v. 7). E subito Pietro si tuffa in acqua e nuota verso la riva, verso Gesù. In quella esclamazione: “E’ il Signore!”, c’è tutto l’entusiasmo della fede pasquale, piena di gioia e di stupore, che contrasta fortemente con lo smarrimento, lo sconforto, il senso di impotenza che si erano accumulati nell’animo dei discepoli. La presenza di Gesù risorto trasforma ogni cosa: il buio è vinto dalla luce, il lavoro inutile diventa nuovamente fruttuoso e promettente, il senso di stanchezza e di abbandono lascia il posto a un nuovo slancio e alla certezza che Lui è con noi.
Da allora, questi stessi sentimenti animano la Chiesa, la Comunità del Risorto. Tutti noi siamo la comunità del Risorto! Se a uno sguardo superficiale può sembrare a volte che le tenebre del male e la fatica del vivere quotidiano abbiano il sopravvento, la Chiesa sa con certezza che su quanti seguono il Signore Gesù risplende ormai intramontabile la luce della Pasqua. Il grande annuncio della Risurrezione infonde nei cuori dei credenti un’intima gioia e una speranza invincibile. Cristo è veramente risorto! Anche oggi la Chiesa continua a far risuonare questo annuncio festoso: la gioia e la speranza continuano a scorrere nei cuori, nei volti, nei gesti, nelle parole. Tutti noi cristiani siamo chiamati a comunicare questo messaggio di risurrezione a quanti incontriamo, specialmente a chi soffre, a chi è solo, a chi si trova in condizioni precarie, agli ammalati, ai rifugiati, agli emarginati. A tutti facciamo arrivare un raggio della luce di Cristo risorto, un segno della sua misericordiosa potenza.
Egli, il Signore, rinnovi anche in noi la fede pasquale. Ci renda sempre più consapevoli della nostra missione al servizio del Vangelo e dei fratelli; ci riempia del suo Santo Spirito perché, sostenuti dall’intercessione di Maria, con tutta la Chiesa possiamo proclamare la grandezza del suo amore e la ricchezza della sua misericordia.
[Papa Francesco, Regina Coeli 10 aprile 2016]
(Lc 24,35-48)
Non riconosciamo una persona da mani e piedi (v.39).
Il Risorto ha una vita che sfugge alla percezione dei sensi, tuttavia la Risurrezione non annulla la ‘persona’, bensì la dilata.
L’identità e l’essere che lo contraddistingue è di altra natura, ma il cuore è quello, caratterizzante. Amore sino in fondo: azione [mani] e cammino [piedi] senza risparmio, che la non-fede emargina, umilia, uccide.
Non si coglie Cristo fuori dall’esperienza di condivisione, testimonianza, Missione - punta del testo - che si estende fra tutti gli uomini.
Un’evangelizzazione a partire da araldi diretti e banditori entusiasti. Centrati nel nucleo dell’Annuncio, che smuove tutto e dà accesso (vv.35ss).
E finalmente, grazie all’intelligenza delle Scritture - che fa uscire da luoghi comuni e automatismi interpretativi vaghi.
Tutto ciò, nell’ascolto specifico e nel perdono che ci rende partecipi; nell’impegno che rischia, cammina, e parla.
Il progetto umano del Creatore ha assunto una configurazione pedagogica nella Legge; è stato ripreso, attualizzato e purificato dai profeti, e cantato nei salmi (v.44).
Ma coloro che «vedono e toccano» sono discepoli che si coinvolgono fino a far coincidere i loro moti dell’anima, i loro esodi verso le periferie, e i loro gesti appassionati, con le stesse piaghe d’amore del Maestro: «Palpatemi e vedete» (v.39).
Nei primi tempi, i credenti - qua e là - ce la facevano grazie all’aiuto di fraternità nelle quali la Persona del Signore si ‘manifestava’ persuasivo, perché «in mezzo» (v.36).
Non “sopra” o “davanti”, bensì da fratello a fratello: testimonianza del divino (v.48).
Egli ‘si svelava’ Vivente nella convivialità - Parola chiave, apice della Bibbia intera.
Condivisione che trovava anche le vie dell’intimità e confidenza sensibile, personale: «Essi gli porsero una porzione» (v.42).
Per questo motivo l’Annuncio doveva iniziare da Gerusalemme, primo dei «popoli pagani» [v.47 testo greco] da evangelizzare!
E in tal guisa non rendere Cristo un fantasma (v.37).
Nelle comunità dei primi tempi l’ascolto del mondo interiore personale e comune era particolarmente accentuato, perché il senso di marcia proposto dal Maestro sembrava tutto contromano.
Malgrado il caos delle sicurezze esterne, la traversata dal timore alla Libertà proveniva da una percezione tollerante - a partire da nuclei di esperienza viscerali.
Proprio le strettoie accentuavano il cambiamento e l’interiorizzazione, e strappavano i discepoli dall’abitudine ad allestire armonie conformiste.
Ci si affidava allora più volentieri ai tracciati dell’anima, incontrando così la propria natura profonda; nuovo asse della vita, a partire dalle ‘radici’.
La ricerca di una nuova bussola per i propri percorsi, la perdita dei riferimenti prevedibili, il disagio sociale, mettevano in contatto con se stessi e gli altri, in modo autentico.
Sentire l’ansia, il malessere e le piaghe, lasciava conoscere la propria Chiamata… anche se il modo esterno in cui si vedeva e affrontava l’esistenza normale o spirituale, “faceva per loro”.
Dovendosi spostare dalle abitudini, non ci si sottraeva più alla rivelazione preziosissima: dell’intimità primordiale e umanizzante depositata nella fraternità della nuova Via crocifissa.
Educati dal paradosso delle strettezze, gl’incerti apostoli diventavano così passo dopo passo i cercatori di una traccia, di una rotta più pertinente.
Pellegrini di codici inattesi. «Testimoni» (v.48): padri e madri di un’umanità nuova.
[Giovedì fra l’Ottava di Pasqua, 24 aprile 2025]
St Teresa of Avila wrote: “the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ” (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7) [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6) [Papa Benedetto]
Dear friends, the mission of the Church bears fruit because Christ is truly present among us in a quite special way in the Holy Eucharist. His is a dynamic presence which grasps us in order to make us his, to liken us to him. Christ draws us to himself, he brings us out of ourselves to make us all one with him. In this way he also inserts us into the community of brothers and sisters: communion with the Lord is always also communion with others (Pope Benedict)
Cari amici, la missione della Chiesa porta frutto perché Cristo è realmente presente tra noi, in modo del tutto particolare nella Santa Eucaristia. La sua è una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a Sé. Cristo ci attira a Sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli: la comunione con il Signore è sempre anche comunione con gli altri (Papa Benedetto)
Jesus asks us to abide in his love, to dwell in his love, not in our ideas, not in our own self-worship. Those who dwell in self-worship live in the mirror: always looking at themselves. He asks us to overcome the ambition to control and manage others. Not controlling, serving them (Pope Francis)
Gesù ci chiede di rimanere nel suo amore, abitare nel suo amore, non nelle nostre idee, non nel culto di noi stessi. Chi abita nel culto di sé stesso, abita nello specchio: sempre a guardarsi. Ci chiede di uscire dalla pretesa di controllare e gestire gli altri. Non controllare, servirli (Papa Francesco)
In this passage, the Lord tells us three things about the true shepherd: he gives his own life for his sheep; he knows them and they know him; he is at the service of unity [Pope Benedict]
In questo brano il Signore ci dice tre cose sul vero pastore: egli dà la propria vita per le pecore; le conosce ed esse lo conoscono; sta a servizio dell'unità [Papa Benedetto]
Jesus, Good Shepherd and door of the sheep, is a leader whose authority is expressed in service, a leader who, in order to command, gives his life and does not ask others to sacrifice theirs. One can trust in a leader like this (Pope Francis)
Gesù, pastore buono e porta delle pecore, è un capo la cui autorità si esprime nel servizio, un capo che per comandare dona la vita e non chiede ad altri di sacrificarla. Di un capo così ci si può fidare (Papa Francesco)
In today’s Gospel passage (cf. Jn 10:27-30) Jesus is presented to us as the true Shepherd of the People of God. He speaks about the relationship that binds him to the sheep of the flock, namely, to his disciples, and he emphasizes the fact that it is a relationship of mutual recognition […] we see that Jesus’ work is explained in several actions: Jesus speaks; Jesus knows; Jesus gives eternal life; Jesus safeguards (Pope Francis)
Nel Vangelo di oggi (cfr Gv 10,27-30) Gesù si presenta come il vero Pastore del popolo di Dio. Egli parla del rapporto che lo lega alle pecore del gregge, cioè ai suoi discepoli, e insiste sul fatto che è un rapporto di conoscenza reciproca […] vediamo che l’opera di Gesù si esplica in alcune azioni: Gesù parla, Gesù conosce, Gesù dà la vita eterna, Gesù custodisce (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
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