don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

(Gv 3,1-8)

 

Gv introduce il passo di Vangelo con il dirigente giudeo assai rappresentativo, insistendo sull’imperfezione del credere ai prodigi. Essi afferrano solo il lato esteriore.

Anzi, sembra sottolineare che la religione-spettacolo tanto bramata dai capi religiosi denominati Giudei, perché affini ai giudaizzanti delle prime comunità, non susciti che aspettative devianti e cuori ambigui (2,18-25).

Nicodemo era un fariseo, persona di spicco, leader fra i responsabili della devozione antica e addirittura membro del Sinedrio [tribunale supremo] che però riconosce in Cristo un inviato da Dio.

Nel quarto Vangelo il notabile rappresenta appunto i giudei incuriositi dalla figura di Gesù. Alcuni di essi s’interrogano e non tacitano le domande, ma restano perplessi - perché educati ad altre attese messianiche, perentorie e clamorose.

Infatti le autorità coltivavano tutta la problematica concernente il «Regno di Dio» (vv.3.5) in modo approssimativo e conformista. [L’espressione così frequente nei sinottici - ‘regno dei cieli’ in Mt - si trova unicamente in questo passo del quarto Vangelo].

Ma è solo un punto d’appoggio, perché Gesù insegna che tutte le speculazioni non recano buoni risultati per la vita nello Spirito, la quale non si genera a partire da ciò che l’uomo escogita o fa per Dio, dalle sue possibilità - come nelle religioni.

Bisogna contare sulla Grazia, che entra in scena ribaltando le speranze piccine - in tal guisa, non far leva sulle nostre misure, perizie e destrezze; né su pensieri, assodati quanto inadeguati.

Il nuovo Rabbi lascia capire che per comprendere il Mistero bisogna scrollarsi di dosso il libro esterno della Legge, e intraprendere un’esperienza di trasmutazione ideale e pratica, come una Nascita - accanto a un Agente rigeneratore.

Cristo stimola Nicodemo al salto dalla normale religiosità tradizionale, coi suoi propositi e aspettative ragionevoli, all’avventura di Fede che coglie, sogna e traccia futuro, surclassando la catena abitudinaria delle attese.

Non si comprende la Novità di Dio secondo il sapere antico, a partire dai patriarchi - o leggendola in filigrana d’una normativa pur condivisibile.

Il nuovo ordine d’esistenza è superiore a tutte le capacità, a tutte le tenute e le resilienze. Quello che nasce a partire dalla carne è comunque soggetto a troppi confini.

Viceversa, il sentiero dall’alto crea una personalità nuova, grazie alla quale siamo abilitati a corrispondere perfettamente alla Chiamata per Nome, la quale si ripropone onda su onda in modo crescente e difforme.

Ricreati dalla Vita indistruttibile che Viene, anche noi siamo messi in grado di generare qualcosa di simile alla medesima Natura che ci partorisce. Quali scintille in qualche modo conformi al divino: similis sibi similem parit.

Appunto: il troppo normale non è in grado di ridefinire i codici di un nuovo sguardo, e dell’inconcepibile spazio d’amore sconosciuto.

Non è questione di cambiare stendardo, o “tagliare qualcosa” e mortificarsi di più. Piuttosto, integrare e far brillare, cambiando le convinzioni.

Ciò che non coincide con le idee ereditate, in realtà sta attivando i nuovi sviluppi.

Quel ch’è contrario alle costumanze consolidate, o alle mode, sta preparando un altro mondo, una diversa persona, una nuova chiamata (nella stessa vocazione personale), un’altra scia tutta da percorrere.

Non è più il Dio delle religioni, tutto ancora e sempre da raggiungere con disposizioni, agilità nei minimi dettagli, e ritmi cesellati, accumulando meriti secondo cliché.

Il Regno non si allestisce: lo si accoglie - perché ci spiazza sempre.

Dunque non lo si può predeterminare: è impossibile allestirlo sulla base del nostro genio, muscoli, virtù, perfezioni. Lo si riceve in dono gratuito e senza i “dovuti” presupposti.

Il Dio che Viene senza preavviso chiama all’ascolto, alla conoscenza di ciò che è incredibile - a lasciarsi salvare in modo impensabile, quindi a farci cogliere anche di sorpresa dai fatti che la Provvidenza porge.

E lì stare, sino alla prossima novità.

Gesù invita Nicodemo a scrutare la realtà dell’anima e gli accadimenti come una sfera globale, di energie complessive che si richiamano in paradossale sinergia, per recuperare i lati opposti - tutti utili.

Forze innate che si attivano da sintonie e modi reciproci, facendosi Guida infallibile: cosmiche fuori e acutamente divine in noi.

I recuperi che Gesù compie attraverso la qualità di vita dei suoi e delle comunità generano in colui che è nella «notte» del dubbio (v.2) una prima ricerca e dedizione, ma non suscitano Fede attiva.

Insomma, non si comprende Dio dagli argomenti, ma dall’esperienza di coinvolgimento onda su onda; ricreante, a partire dal Dono accettato della propria storia, nel segno dei tempi.

Bisogna deporre le certezze rassicuranti del catechismo religioso normale, e aprire cuore e mano alla realtà che giunge come una marea - non per metterci sulla difensiva, ma affinché la cavalchiamo.

Lanciarsi nella vita dello Spirito ci recupera, ma soppianta e sorvola l’organizzazione delle sinagoghe stanziali; non è alla portata di meccanismi compiaciuti o finti equilibri impersonali.

Al massimo ne comprendiamo la rotta intrinseca - la pienezza di umanizzazione, nel progetto creaturale - non l’Origine e la Meta.

L'umanità nel suo piano volontarista e persino nei suoi buoni propositi a modo, non è in grado di risolvere i veri problemi. Non riesce a darsi salvezza; solo maniere - avviando al contempo processi di comunione e individuazione.

Questa l’inquietudine nuova e la «notte» degli interrogativi che noi come Nicodemo avvertiamo, praticando l’insegnamento e le opere a norma - che non trasmettono senso di pienezza di essere, anzi malgrado grandi promesse sembrano attirare proprio la tristezza.

È lo Spirito d’unicità che domina il caos, che dà forma a cielo e terra, e prende possesso dei personaggi eminenti del Primo Testamento, spingendoli a realizzare azioni in favore dell’emancipazione del popolo - agendo con potenza contagiosa.

Ma posatosi «come colomba» - figura di una forza non più aggressiva - su Gesù nel Battesimo (Gv 1,32) dà inizio a una Creazione nuova, all’Uomo conciliato, in grado di corrispondere alla propria vocazione.

Beninteso, ciò che caratterizza questo Vento è la libertà, non il controllo

Esso agisce energicamente su di noi, ma noi non agiamo su di Lui. Non possiamo intaccarlo. Solo collocare le vele secondo la sua direzione, e guardare con occhi nuovi.

Anche nelle difficoltà, il Dono dello Spirito ci prepara ad un’altra Nascita. Allora la Parola di Gesù annuncia uno sconvolgimento che va alla radice della vita devota comune.

Il rapporto col Dio delle religioni sovviene di norma con ricette statiche e rassicuranti, ma l’esperienza di Fede in Cristo convince “per Via” che ad ogni tappa deve invece corrispondere un’altra genesi.

Invero le prove spinose sono tutte Chiamate a un balzo di sovra-natura; a germogliare ancora.

La nascita nello Spirito non avviene una volta per tutte: solo così vivere non sarà un premio, né perire un castigo.

Perché siamo diventati simili a un Vento.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Accetti la sorpresa? La senti come Rivelazione dell’azione dello Spirito? Come reagisci di fronte alle novità che l’apostolato propone? In che occasione hai percepito di nascere di nuovo?

Venerdì, 18 Aprile 2025 11:04

Come rispondere all’Amore radicale

Il Vangelo ci presenta un personaggio di nome Nicodemo, membro del Sinedrio di Gerusalemme, che va di notte a cercare Gesù. Si tratta di un uomo per bene, attirato dalle parole e dall’esempio del Signore, ma che ha paura degli altri, esita a compiere il salto della fede. Avverte il fascino di questo Rabbì così diverso dagli altri, ma non riesce a sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente contrario a Gesù e resta titubante sulla soglia della fede. Quanti, anche nel nostro tempo, sono in ricerca di Dio, in ricerca di Gesù e della sua Chiesa, in ricerca della misericordia divina, e attendono un “segno” che tocchi la loro mente e il loro cuore! Oggi come allora l’evangelista ci ricorda che il solo “segno” è Gesù innalzato sulla croce: Gesù morto e risorto è il segno assolutamente sufficiente. In Lui possiamo comprendere la verità della vita e ottenere la salvezza. E’ questo l’annuncio centrale della Chiesa, che resta nei secoli immutato. La fede cristiana pertanto non è ideologia, ma incontro personale con Cristo crocifisso e risorto. Da questa esperienza, che è individuale e comunitaria, scaturisce poi un nuovo modo di pensare e di agire: ha origine, come testimoniano i santi, un’esistenza segnata dall’amore.

[Papa Benedetto, omelia 26 marzo 2006]

Venerdì, 18 Aprile 2025 10:58

Incontri decisivi

1. Gli disse Nicodemo: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?” (Gv 3, 4).

La domanda di Nicodemo a Gesù esprime bene la meraviglia inquieta dell’uomo di fronte al mistero di Dio, un mistero che egli scopre nell’incontro con Cristo. Tutto il dialogo tra Gesù e Nicodemo rivela la straordinaria ricchezza di significato di ogni incontro, anche di quello dell’uomo con l’altro uomo. L’incontro infatti è il fenomeno sorprendente e reale con cui l’uomo esce dalla sua solitudine originaria per affrontare l’esistenza. È la condizione normale attraverso la quale egli è condotto a cogliere il valore della realtà, delle persone e delle cose che la costituiscono, in una parola, della storia. In questo senso è paragonabile ad una nuova nascita.

Nel Vangelo di Giovanni l’incontro di Cristo con Nicodemo ha come contenuto la nascita alla vita definitiva, quella del Regno di Dio. Ma nella vita di ogni uomo non sono forse gli incontri a tessere la trama imprevista e concreta dell’esistenza? Non sono essi alla base della nascita di quella autocoscienza capace di azione, che sola consente un vivere degno del nome di uomo?

Nell’incontro con l’altro, l’uomo scopre di essere persona e di dover riconoscere pari dignità agli altri uomini. Attraverso incontri significativi egli impara a conoscere il valore delle dimensioni costitutive dell’esistere umano, prime fra tutte quelle della religione, della famiglia e del popolo cui appartiene.

2. Il valore dell’essere con le sue connotazioni universali - il vero, il bene, il bello - si presenta all’uomo sensibilmente incarnato negli incontri decisivi della sua esistenza.

Nell’affezione coniugale l’incontro fra l’amante e l’amato, che trova compimento nel matrimonio, incomincia dall’esperienza sensibile del bello incarnato nella “forma” dell’altro. Ma l’essere, attraverso l’attrattiva del bello, chiede di esprimersi nella pienezza del bene autentico. Che l’altro sia, che il suo bene si realizzi, che il destino tracciato su di lui dal Dio provvidente si compia, è il desiderio vivo e disinteressato di ogni persona che ama veramente. La volontà di bene duraturo, capace di generare e di rigenerarsi nei figli, non sarebbe, per altro, possibile, se non poggiasse sul vero. Non si può dare all’attrattiva del bello la consistenza di un bene definitivo senza la ricerca della verità di sé e la volontà di perseverare in essa.

E proseguendo: come potrebbe aversi un uomo pienamente realizzato, senza l’incontro, che avviene nell’intimo di sé, con la propria terra, con gli uomini che ne hanno costruito la storia mediante la preghiera, la testimonianza, il sangue, l’ingegno, la poesia? A loro volta il fascino per la bellezza della terra natale e il desiderio di verità e di bene per il popolo che continuamente la “rigenera”, accrescono il desiderio della pace, che sola rende attuabile l’unità del genere umano. Il cristiano è educato a comprendere l’urgenza del ministero della pace dal suo incontro con la Chiesa, dove vive il popolo di Dio che il mio predecessore Paolo VI ebbe a definire “. . . entità etnica sui generis”.

La sua storia sfida il tempo ormai da duemila anni lasciandone inalterata, nonostante le miserie degli uomini che vi appartengono, l’originaria apertura al vero, al bene e al bello.

3. Ma l’uomo prima o poi si accorge, in termini drammatici, che di tali incontri multiformi e irripetibili egli non possiede ancora il significato ultimo, capace di renderli definitivamente buoni, veri, belli. Intuisce in essi la presenza dell’essere, ma l’essere in quanto tale gli sfugge. Il bene da cui si sente attratto, il vero che sa affermare, il bello che sa scoprire sono infatti lontani dal soddisfarlo. L’indigenza strutturale o il desiderio incolmabile si parano davanti all’uomo ancor più drammaticamente, dopo che l’altro è entrato nella sua vita. Fatto per l’infinito, l’uomo si sente prigioniero del finito!

Quale tragitto può ancora compiere, quale altra misteriosa sortita dall’intimo di sé potrà tentare colui che ha lasciato la sua originaria solitudine per andare incontro all’altro, cercandovi definitivo appagamento? L’uomo, impegnatosi con genuina serietà nella sua esperienza umana, si trova posto di fronte a un tremendo aut aut: domandare a un Altro, con la A maiuscola, che sorga all’orizzonte dell’esistenza per svelarne e renderne possibile il pieno avveramento o ritrarsi in sé, in una solitudine esistenziale in cui è negata la possibilità stessa dell’essere. Il grido di domanda o la bestemmia: ecco ciò che gli resta!

Ma la misericordia con cui Dio ci ha amati è più forte di ogni dilemma. Non si ferma neppure di fronte alla bestemmia. Anche dall’interno dell’esperienza del peccato l’uomo può riflettere sempre e ancora sulla sua fragilità metafisica e uscirne. Può cogliere il bisogno assoluto di quell’Altro con la A maiuscola, che può colmare per sempre la sua sete! L’uomo può ritrovare la strada dell’invocazione all’Artefice della nostra salvezza, perch’egli venga! Allora l’animo si abbandona all’abbraccio misericordioso di Dio, sperimentando infine, in questo incontro risolutivo, la gioia di una speranza “che non delude” (Rm 5, 5).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 16 novembre 1983]

Venerdì, 18 Aprile 2025 10:39

La luce ci schiaffeggia

C’è gente – anche noi, tante volte – che non può vivere nella luce perché abituata alle tenebre. La luce li abbaglia, sono incapaci di vedere. Sono dei pipistrelli umani: soltanto sanno muoversi nella notte. E anche noi, quando siamo nel peccato, siamo in questo stato: non tolleriamo la luce. È più comodo per noi vivere nelle tenebre; la luce ci schiaffeggia, ci fa vedere quello che noi non vogliamo vedere. Ma il peggio è che gli occhi, gli occhi dell’anima dal tanto vivere nelle tenebre si abituano a tal punto che finiscono per ignorare cosa sia la luce. Perdere il senso della luce, perché mi abituo più alle tenebre. E tanti scandali umani, tante corruzioni ci segnalano questo. I corrotti non sanno cosa sia la luce, non conoscono. Anche noi, quando siamo in stato di peccato, in stato di allontanamento dal Signore, diventiamo ciechi e ci sentiamo meglio nelle tenebre e andiamo così, senza vedere, come i ciechi, muovendoci come possiamo.

Lasciamo che l’amore di Dio, che ha inviato Gesù per salvarci, entri in noi e “la luce che porta Gesù” (cfr v. 19), la luce dello Spirito entri in noi e ci aiuti a vedere le cose con la luce di Dio, con la luce vera e non con le tenebre che ci dà il signore delle tenebre.

Due cose, oggi: l’amore di Dio nel Cristo, nel crocifisso, nel quotidiano. E la domanda quotidiana che noi possiamo farci: “Io cammino nella luce o cammino nelle tenebre? Sono figlio di Dio o sono finito per essere un povero pipistrello?”.

[Papa Francesco, da: omelia s. Marta 22 aprile 2020 (su Gv 3,16–21)]

Gv 20,19-31 (24-31)

 

Il brano ha un sapore liturgico, ma la domanda che scorgiamo in filigrana è cruda. Anche noi vogliamo «vederlo».

Come credere senza avere visto?

È il quesito più diffuso a partire dalla terza generazione di credenti, i quali non solo non avevano conosciuto gli Apostoli, ma molti di essi neppure i loro allievi.

In particolare: come passare dal «vedere»… al «credere» in uno sconfitto, addirittura sottoposto a supplizio?

Esiste una Chiesa autentica, ma tenuta insieme dalla paura (v.19).

Non solo perché il mandato di cattura pende sempre sui veri testimoni. Anche per timore del confronto col mondo, o per incapacità di dialogo.

Tommaso non si spaventa a stare fuori dalle porte sbarrate.

Non si ripiega; non teme l’incontro, il confronto con la vita che pulsa e viene.

In tal senso è «detto gemello» [δίδυμο] di ciascuno - e di Gesù.

 

Il nostro contesto somiglia a quello delle piccole realtà giovannee dell’Asia Minore, sperdute nell’immensità dell’impero romano; talora sedotte dalle sue attrattive.

Efeso in particolare contava centinaia di migliaia di abitanti. Emporio commerciale, centro bancario e città cosmopolita di rilievo [il cui fulcro era naturalmente il grande Tempio di Artemide - meraviglia del mondo antico] era la quarta città dell’impero.

Le distrazioni erano molte.

E già dalle prime generazioni di fedeli iniziava a subentrare la routine: il fervore degli inizi si andava spegnendo; la partecipazione diventava saltuaria.

Sotto Domiziano, i credenti subivano emarginazione sociale, discriminazioni.

 

Anche oggi, uno degli elementi decisivi della capacità di manifestare il Risorto Presente resta l’incontro diretto con i fratelli, all’interno di una fraternità viva.

Persone che accolgono sorprese e sollecitano la capacità di pensiero e dibattito; che sono se stesse e fanno respirare gli altri.

Donne e uomini che spendono le loro risorse materiali e di saggezza, secondo storia e sensibilità particolari.

Dove ciascuno così com’è e dov’è - reale a tutto tondo, non dissociato da sé - si rende alimento altrui con le briciole che ha.

 

Ecco allora il «riconoscimento»: è una questione non di obbedienza a un mondo astratto, bensì di Somiglianza personale.

Si tratta di sintonizzare la fisionomia e le nostre piccole «azioni» con la Sorgente dell’Amore consumato sino in fondo [il nostro «dito» e le sue «Mani»; la nostra «mano» e il suo «Costato trafitto»].

Pur col nostro limite, ‘entrando nelle piaghe’. Per attrazione, la Fede sgorgherà spontanea (v.28).

In tal guisa (vv.29-31 e 21,25) Gv invita ciascuno a scrivere un suo personale Vangelo.

Quando le nostre opere saranno almeno un poco le medesime di Cristo, tutti lo ‘vedranno’.

 

Ci sono dunque prove che Gesù vive?

Certo, Egli si manifesta concretamente in una assemblea di persone non conformiste, che sono se stesse; dotate di capacità di pensiero autonomo.

«Gemelli» suoi e di Tommaso.

Persone Libere di starsene nel mondo; fuori degli usci chiusi a chiave - per ascoltare, scendere, servire.

E farlo con convinzione: personalmente, senza forzature, né isterismi.

 

Anche noi vogliamo «vederlo».

 

 

[2.a Domenica di Pasqua (della Divina Misericordia), 27 aprile 2025]

(Gv 20,19-31)

 

La Manifestazione, lo Spirito, la remissione

(Gv 20,19-23)

 

La Pentecoste giovannea non subisce ritardo temporale alcuno (v.22) tuttavia anche il racconto lucano evidenzia il legame con la Pasqua, di cui in filigrana non è che ulteriore specificazione.

Pentecoste non è questione di data, bensì evento che accade senza posa, nell’assemblea riunita; dove si fa presente una Pace-pienezza di gioia colma di conciliazione, che fonda la Missione.

Gesù non aveva assicurato vita facile. Ma le «porte chiuse» stanno a indicare che il Risorto non è ritornato all’esistenza di prima: è stato introdotto nella condizione divina, in una forma di vita totale.

La configurazione completa del suo essere non è nell’ordine di carne e ossa; sfugge ai nostri sensi.

“Risurrezione della carne” non equivale al miglioramento delle condizioni precedenti. Da un uomo [come da un seme] è sbocciata una forma di vita che sussiste in Dio stesso.

I discepoli gioiscono nel vedere le piaghe (v.20). La reazione non sorprende: si tratta della percezione-vertigine di Presenza, che sgorga e si riversa da sensi interiori.

Il Risorto che si rivela è lo stesso Gesù che ha consegnato in dono la vita, nello Spirito.

Il Mondo del Padre porta il suo Nome - ossia l’intera sua storia, tutta reale.

Il Mondo celeste non resta più quello delle religioni. Non è esclusivo, né fantasioso o astratto; neppure  sterilizzato.

 

La Manifestazione è collocata ne «l’uno dei sabati» (v.19) a dire che i discepoli possono incontrare e vedere il Risorto ogni volta che si ritrovano insieme nel giorno del Signore.

Grazie al Dono dello Spirito (v.22) i suoi sono inviati in Missione, per continuare e dilatare l’azione del Maestro - insistendo in particolare sull’opera di remissione dei peccati (v.23).

Al tempo era diffusa la concezione che gli uomini agissero male e si lasciassero contaminare dagli idoli, perché mossi da un istinto immondo che iniziava a manifestarsi già in tenera età.

Ci si illudeva che si potesse riuscire a vincere o almeno tenere a bada tale spirito maligno con lo studio della Torah - ma era facile verificarne gli insuccessi: le indicazioni della Legge, pur giuste, non davano la Forza di percorrere quel sentiero.

Dopo tanti fallimenti anche di Re e dell’intera classe sacerdotale, si attendeva che Dio stesso venisse, proprio per liberarci dalle impurità, attraverso l’effusione di un impulso buono.

In tutto il mondo antico [anche nella cultura classica: in particolare Ovidio] ci si chiedeva il senso di questo blocco creaturale.

Dentro, nell’intimo, l'umanità si trovava accomunata e lacerata tra intuizione e desiderio del bene, e incapacità di attuarlo (cf. Rm 7, 15-19).

Nessuna religione o filosofia aveva mai intuito che è nel disagio e nella imperfezione che covano le più preziose energie plasmabili, la nostra unicità, e la soluzione non conformista dei problemi.

Per bocca dei Profeti, Dio aveva promesso il dono di un cuore nuovo - di carne e non di pietra (Ez 36,25-27).

Un’effusione di Spirito che avrebbe rinnovato il mondo, vivificato e reso fecondo il deserto.

Nel giorno di Pasqua si compirono le profezie.

Il «soffio» di Cristo richiama il momento della Creazione (Gn 2,7; cf. Ez 37,7-14).

 

Siamo all’origine di una nuova umanità di madri e padri che generano - ora in grado di far apparire solo vita, eliminando la morte dalla faccia della terra.

Gesù crea l’uomo nuovo, non più vittima delle forze invincibili che lo portano al male, malgrado le sue aspirazioni profonde.

Egli trasmette un’energia intraprendente, nitida, alternativa, sicura di sé, che spinge spontaneamente al bene.

Dove giunge questo Spirito, il peccato viene annientato.

Fu la prima esperienza ecclesiale: l’azione inequivocabile della Potenza divina, che si faceva presente e operante in persone timorose e non tenute in conto alcuno.

In tutto il libro di Atti degli Apostoli il protagonista è appunto il Vento impetuoso dello Spirito.

 

Fin qui, in Gv mancava il concetto di perdono dei peccati. Ma il senso dell’espressione al v.23 non è strettamente sacramentale.

Neutralizzare e sconfiggere le inadempienze riguarda ciascuno che si coinvolga nell’opera di miglioramento della vita nel mondo.

Insomma, siamo chiamati a creare le condizioni affinché dissodando il terreno dei cuori, tutti si aprano all’azione divina.

Viceversa, l’incapacità al bene si trascina: in tal guisa, il peccato non viene ‘rimesso’.

Lo Shalôm ricevuto dai discepoli va da essi stessi annunciato e trasmesso al mondo.

È una Pace non frutto mondano di compromessi soppesati e astuti: unico mezzo potente da utilizzare è il perdono.

Non tanto per la tranquillità e la “permanenza”, bensì per introdurre potenze sconosciute, accentuare vita, far affiorare gli aspetti cui non abbiamo dato spazio; trasmettere senso di adeguatezza e libertà.

In ciascuno e per tutti i tempi, la Chiesa è chiamata a rendere efficace il Gratis completo e personale del Signore.

Come un Dono nello Spirito: senza mai «ritenere» (v.23) i problemi, né renderli paradossali protagonisti della vita [perfino di assemblea].

Tale la dimensione sacerdotale, regale e profetica della Comunità fraterna. Tale la sua Novità.

 

 

Vittoria del Risorto, Chiesa di persone libere

 

Senza isterismi

(Gv 20,24-31)

 

Il brano ha un sapore liturgico, ma la domanda che scorgiamo in filigrana è cruda. Anche noi vogliamo «vederlo».

Come credere senza avere visto?

E addirittura come poteva andare da sé l’identificazione del sottoposto a supplizio con la beatitudine vissuta, e la stessa divinità?

È il quesito più diffuso a partire dalla terza generazione di credenti, i quali non solo non avevano avuto modo di conoscere gli Apostoli, ma molti di essi neppure i loro allievi.

L’evangelista assicura: rispetto ai primi testimoni della Risurrezione, la nostra condizione non è per nulla sfavorita, anzi: più aperta e meno soggetta a condizionamenti o circostanze particolari.

Bisogna andare più a fondo dell’esperienza immediata.

Anche i discepoli diretti hanno fatto una gran fatica, cercando di passare ad un altro vocabolario e grammatica della rivelazione; e dal “vedere”, al ‘credere’.

Ci sono purtroppo tratti comuni, come ad es. la ricerca della Maddalena nei luoghi della morte. O qui le porte accuratamente sbarrate, dove non si entra senza forzare le chiusure - ma soprattutto scarti significativi.

In particolare, ribadiamo il quesito più bruciante. Come passare dal «vedere»… al «credere» in uno sconfitto, addirittura sottoposto a supplizio?

 

Non crediamo, solo perché ci sono testimoni veritieri.

Siamo certi che la vita soppianta la morte, perché abbiamo «veduto» in prima persona; perché siamo passati attraverso un riconoscimento personale.

Infatti Egli non si fa condottiero, bensì ripetutamente «in mezzo»(vv.19.26).

Nella raccolta delle Manifestazioni del Risorto [cosiddetto “Libro della risurrezione”] Gv designa le condizioni della Fede pasquale.

Egli espone le esperienze di testimonianza delle prime chiese (mattina e sera, e otto giorni dopo) nonché dei discepoli che accettano il mandato missionario.

Allora come oggi, percepire le realtà nascoste al semplice sguardo, interiorizzare la disponibilità a fare esodo verso le periferie, dipende dalla profondità della Fede.

Né consegue la disponibilità a giocarsi la vita, per edificare un regno dai valori capovolti rispetto a quelli religiosi comuni, antichi, imperiali.

 

Nel momento in cui viene redatto l’episodio di Tommaso, la dimensione dell’ottavo giorno [Dies Domini] aveva già una configurazione prevalente, rispetto al sabato dei primi Messianici radicalmente giudaizzanti.

«Shalôm» è inteso però ancora in senso antico: non si tratta di un augurio, ma del compimento presente delle Promesse divine.

La «Pace» messianica avrebbe evocato la disfatta delle paure, la liberazione dalla morte; la conciliazione con la propria vita, il mondo, e Dio.

«Shalôm» - qui - viene a sorprenderci: giunge dal dono di sé portato sino in fondo; oltre, le capacità.

Le piaghe sono parte del carattere del Risorto.

È fuorviante ogni immagine che non espliciti i segni della gratuità eccessiva del nuovo regno inaugurato da Cristo [perfino la scultura in bronzo dorato della Sala Nervi].

La Gioia viene dalla percezione della Presenza ‘oltre’ la vita biologica.

 

La nostra felicità si attenua e smarrisce, se perdiamo il Testimone della vita - grazie al quale ogni minimo gesto o stato d’animo (anche il timore) diventa svelamento, senso, intensità di relazione.

Riversandosi nel mondo, gli Inviati abbracciano la medesima missione di Gesù: che tutti si lascino salvare.

E il dono dello Spirito operante è appunto come l’inizio di una creazione nuova.

Infatti la Pentecoste giovannea scaturisce dalla prospettiva inedita e genuina di salvezza: amabile, serena, non “integra”, né forzata.

A ben vedere, secondo il libro degli Atti, la predicazione di Pietro suscita un putiferio di conversioni. In Gv tutto è viceversa discreto: nessun rombo né fuoco e tempesta; nulla appare di fuori, né permane esteriore.

Si tratta di apostoli abilitati ad aprire gli usci chiusi a chiave, e a disporre le condizioni della gratuità.

Ciò con virtù passive più che attive; ad es. il ‘perdono’, dov’esso non c’è. 

In tal guisa, ogni Gratuità per risollevare gli uomini da qualsivoglia problematica, affinché il bene trionfi sul male e la vita sulla morte.

 

Tutto nel concreto, quindi attraverso un processo che chiede tempo; come percorrendo a piedi una Via.

Intensità di ben ‘altra’ natura, cui si addice da parte nostra la sola contemplazione - a paragone della letteratura più di propaganda e poco raccolta di At 2, dove scompaiono i riflessi d’incredulità e dubbi.

Come se l'identità del Gesù Crocifisso e del Risorto non facesse problema alcuno!

E nel quarto Vangelo mancava fin qui il concetto di «perdono dei peccati».

Ma appunto occorre passare dalla “visione” oculare alla Fede.

Il modo nuovo di vita del Figlio si conosce nella vita della Chiesa, ma è meglio e pienamente accessibile solo a chi sebbene un po’ dentro e un poco fuori, non permane nelle chiusure.

Tommaso è scelto da Gv come punto di congiunzione fra generazioni di credenti.

Come ognuno di noi, non è uno scettico indifferente: non ha paura del mondo, anzi vuol verificare, vagliare bene.

In lui Gesù lancia il suo apprezzamento verso i credenti futuri, che ne riconosceranno la condizione divina sulla base della propria esperienza - tanto profonda quanto intensamente vissuta.

 

Esiste forse una parte élitaria di Chiesa autentica, eppur tenuta insieme dalla paura (v.19).

Non solo perché il mandato di cattura pende sempre sui veri testimoni. Anche per timore del confronto col mondo, o per incapacità di dialogo.

Anche oggi: timore della cultura, della scienza, degli studi biblici, dell’emancipazione, del confronto filosofico, ecumenico, interreligioso; così via.

Tommaso non si spaventa di stare fuori dalle porte sbarrate.

Non si ripiega e non teme l’incontro, il rapporto con la vita che pulsa e viene.

In tal senso è «detto gemello» [δίδυμο] di ciascuno - e di Gesù.

 

Il nostro contesto somiglia a quello delle piccole realtà giovannee dell’Asia Minore, sperdute nell’immensità dell’impero romano; talora sedotte dalle sue attrattive.

Efeso in particolare contava centinaia di migliaia di abitanti.

Emporio commerciale, centro bancario e città cosmopolita di rilievo [il cui fulcro era naturalmente il grande Tempio di Artemide - meraviglia del mondo antico] era la quarta città dell’impero.

Le distrazioni erano molte.

Già dalle prime generazioni di fedeli iniziava a subentrare la routine: il fervore degli inizi si andava spegnendo; la partecipazione diventava saltuaria.

Sotto Domiziano i credenti subivano anche emarginazione e discriminazioni.

 

Qualche fedele poi rimaneva deluso dall’atteggiamento di chiusura e monologo dei responsabili di comunità. Altri da ambigue zone d’ombra interne e dal frammisto di compromessi (in specie dei responsabili) che scoraggiavano i più sensibili.

Anche oggi, uno degli elementi discrimine della capacità di manifestare il Risorto Presente resta l’incontro diretto con i fratelli, all’interno di una solidarietà viva.

Coesistenza non tenuta in ostaggio da cerchie confinate, che integrano membri solo su designazione di quelli già in carica.

Persone che accolgono sorprese e sollecitano la capacità di pensiero e dibattito.

Donne e uomini che sono se stesse, e fanno respirare gli altri.

Non creduloni indottrinati e plagiati - o finti sofisticati, senza spina dorsale.

Sorelle e fratelli che spendono le loro risorse materiali e di saggezza, secondo storia e sensibilità particolari.

Dove ciascuno così com’è e dov’è - reale a tutto tondo, non dissociato da sé - si rende alimento altrui con le briciole che ha.

 

Ecco allora il «riconoscimento»: è una questione non di obbedienza a un mondo astratto, bensì di Somiglianza personale.

Si tratta di sintonizzare la fisionomia e le nostre piccole «azioni» con la Sorgente dell’Amore consumato sino in fondo [il nostro «dito» e le sue «Mani»; la nostra «mano» e il suo «Costato trafitto»].

Pur col nostro limite, ‘entrando nelle piaghe’. Per attrazione, la Fede sgorgherà spontanea (v.28).

Così (vv.29-31 e 21,25) Gv invita ciascuno a scrivere un suo personale Vangelo.

Quando le nostre opere saranno almeno un poco le medesime di Cristo, tutti lo ‘vedranno’.

 

Ci sono dunque prove che Gesù vive?

Certo, Egli si manifesta concretamente in una assemblea di persone non conformiste; che sono se stesse.

Anime dotate di capacità di pensiero autonomo. «Gemelli» suoi e di Tommaso.

Creature Libere di starsene nel mondo; fuori degli usci chiusi a chiave - per ascoltare, scendere, servire.

E farlo con convinzione: personalmente, senza forzature, né isterismi.

 

Anche noi vogliamo «vederlo».

Venerdì, 18 Aprile 2025 04:07

Fede spenta, riaccesa

Cristo è risorto! Pace a voi! Si celebra oggi il grande mistero, fondamento della fede e della speranza cristiana: Gesù di Nazaret, il Crocifisso, è risuscitato dai morti il terzo giorno, secondo le Scritture. L’annuncio dato dagli angeli, in quell’alba del primo giorno dopo il sabato, a Maria di Magdala e alle donne accorse al sepolcro, lo riascoltiamo oggi con rinnovata emozione: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato!” (Lc 24,5-6).

Non è difficile immaginare quali fossero, in quel momento, i sentimenti di queste donne: sentimenti di tristezza e sgomento per la morte del loro Signore, sentimenti di incredulità e stupore per un fatto troppo sorprendente per essere vero. La tomba però era aperta e vuota: il corpo non c’era più. Pietro e Giovanni, avvertiti dalle donne, corsero al sepolcro e verificarono che esse avevano ragione. La fede degli Apostoli in Gesù, l’atteso Messia, era stata messa a durissima prova dallo scandalo della croce. Durante il suo arresto, la sua condanna e la sua morte si erano dispersi, ed ora si ritrovavano insieme, perplessi e disorientati. Ma il Risorto stesso venne incontro alla loro incredula sete di certezze. Non fu sogno, né illusione o immaginazione soggettiva quell’incontro; fu un’esperienza vera, anche se inattesa e proprio per questo particolarmente toccante. “Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!»” (Gv 20,19).

A quelle parole, la fede quasi spenta nei loro animi si riaccese. Gli Apostoli riferirono a Tommaso, assente in quel primo incontro straordinario: Sì, il Signore ha compiuto quanto aveva preannunciato; è veramente risorto e noi lo abbiamo visto e toccato! Tommaso però rimase dubbioso e perplesso. Quando Gesù venne una seconda volta, otto giorni dopo nel Cenacolo, gli disse: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. La risposta dell’Apostolo è una commovente professione di fede: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,27-28).

“Mio Signore e mio Dio”! Rinnoviamo anche noi la professione di fede di Tommaso. Come augurio pasquale, quest’anno, ho voluto scegliere proprio le sue parole, perché l’odierna umanità attende dai cristiani una rinnovata testimonianza della risurrezione di Cristo; ha bisogno di incontrarlo e di poterlo conoscere come vero Dio e vero Uomo. Se in questo Apostolo possiamo riscontrare i dubbi e le incertezze di tanti cristiani di oggi, le paure e le delusioni di innumerevoli nostri contemporanei, con lui possiamo anche riscoprire con convinzione rinnovata la fede in Cristo morto e risorto per noi. Questa fede, tramandata nel corso dei secoli dai successori degli Apostoli, continua, perché il Signore risorto non muore più. Egli vive nella Chiesa e la guida saldamente verso il compimento del suo eterno disegno di salvezza.

Ciascuno di noi può essere tentato dall’incredulità di Tommaso. Il dolore, il male, le ingiustizie, la morte, specialmente quando colpiscono gli innocenti - ad esempio, i bambini vittime della guerra e del terrorismo, delle malattie e della fame - non mettono forse a dura prova la nostra fede? Eppure paradossalmente, proprio in questi casi, l’incredulità di Tommaso ci è utile e preziosa, perché ci aiuta a purificare ogni falsa concezione di Dio e ci conduce a scoprirne il volto autentico: il volto di un Dio che, in Cristo, si è caricato delle piaghe dell’umanità ferita. Tommaso ha ricevuto dal Signore e, a sua volta, ha trasmesso alla Chiesa il dono di una fede provata dalla passione e morte di Gesù e confermata dall’incontro con Lui risorto. Una fede che era quasi morta ed è rinata grazie al contatto con le piaghe di Cristo, con le ferite che il Risorto non ha nascosto, ma ha mostrato e continua a indicarci nelle pene e nelle sofferenze di ogni essere umano.

“Dalle sue piaghe siete stati guariti” (1 Pt 2,24), è questo l’annuncio che Pietro rivolgeva ai primi convertiti. Quelle piaghe, che per Tommaso erano dapprima un ostacolo alla fede, perché segni dell’apparente fallimento di Gesù; quelle stesse piaghe sono diventate, nell’incontro con il Risorto, prove di un amore vittorioso. Queste piaghe che Cristo ha contratto per amore nostro ci aiutano a capire chi è Dio e a ripetere anche noi: “Mio Signore e mio Dio”. Solo un Dio che ci ama fino a prendere su di sé le nostre ferite e il nostro dolore, soprattutto quello innocente, è degno di fede. 

[Papa Benedetto, Benedizione Urbi et Orbi 8 aprile 2007]

Venerdì, 18 Aprile 2025 04:03

Laboratorio della Fede: Incontro diretto

Anche il Cenacolo di Gerusalemme fu per gli Apostoli una sorta di "laboratorio della fede". Tuttavia quanto lì avvenne con Tommaso va, in un certo senso, oltre quello che successe nei pressi di Cesarea di Filippo. Nel Cenacolo ci troviamo di fronte ad una dialettica della fede e dell'incredulità più radicale e, allo stesso tempo, di fronte ad una ancor più profonda confessione della verità su Cristo. Non era davvero facile credere che fosse nuovamente vivo Colui che avevano deposto nel sepolcro tre giorni prima.

Il Maestro divino aveva più volte preannunciato che sarebbe risuscitato dai morti e più volte aveva dato le prove di essere il Signore della vita. E tuttavia l'esperienza della sua morte era stata così forte, che tutti avevano bisogno di un incontro diretto con Lui, per credere nella sua resurrezione: gli Apostoli nel Cenacolo, i discepoli sulla via per Emmaus, le pie donne accanto al sepolcro... Ne aveva bisogno anche Tommaso. Ma quando la sua incredulità si incontrò con l'esperienza diretta della presenza di Cristo, l'Apostolo dubbioso pronunciò quelle parole in cui si esprime il nucleo più intimo della fede: Se è così, se Tu davvero sei vivo pur essendo stato ucciso, vuol dire che sei "il mio Signore e il mio Dio".

Con la vicenda di Tommaso, il "laboratorio della fede" si è arricchito di un nuovo elemento. La Rivelazione divina, la domanda di Cristo e la risposta dell'uomo si sono completate nell'incontro personale del discepolo col Cristo vivente, con il Risorto. Quell'incontro divenne l'inizio di una nuova relazione tra l'uomo e Cristo, una relazione in cui l'uomo riconosce esistenzialmente che Cristo è Signore e Dio; non soltanto Signore e Dio del mondo e dell'umanità, ma Signore e Dio di questa mia concreta esistenza umana.

[Papa Giovanni Paolo II, veglia a Tor Vergata, 19 agosto 2000]

Venerdì, 18 Aprile 2025 03:32

Sulle strade dell’uomo

Bisogna uscire da noi stessi e andare sulle strade dell’uomo per scoprire che le piaghe di Gesù sono visibili ancora oggi sul corpo di tutti quei fratelli che hanno fame, sete, che sono nudi, umiliati, schiavi, che si trovano in carcere e in ospedale. E proprio toccando queste piaghe, accarezzandole, è possibile «adorare il Dio vivo in mezzo a noi».

La ricorrenza della festa di san Tommaso apostolo ha offerto a Papa Francesco l’occasione di tornare su un concetto che gli è particolarmente a cuore: mettere le mani nella carne di Gesù. Il gesto di Tommaso che mette il dito nelle piaghe di Gesù risorto è stato infatti il tema centrale dell’omelia tenuta durante la messa celebrata questa mattina, mercoledì 3 luglio, nella cappella della Domus Sanctae Marthae. Con il Papa ha concelebrato tra gli altri il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, che accompagnava un gruppo di dipendenti del dicastero.

Dopo le letture (Efesini 2,19-22; Salmo 116; Giovanni 20,24-29) il Santo Padre si è innanzitutto soffermato sul diverso atteggiamento assunto dai discepoli «quando Gesù, dopo la risurrezione, si è fatto vedere»: alcuni erano felici e allegri, altri dubbiosi.

Incredulo era anche Tommaso al quale il Signore si è mostrato solo otto giorni dopo quella prima apparizione. «Il Signore — ha detto il Papa spiegando questo ritardo — sa quando e perché fa le cose. A ciascuno dà il tempo che lui crede più opportuno». A Tommaso ha concesso otto giorni; e ha voluto che sul proprio corpo apparissero ancora le piaghe, nonostante fosse «pulito, bellissimo, pieno di luce», proprio perché l’apostolo, ha ricordato il Papa, aveva detto che se non avesse messo il dito nelle piaghe del Signore non avrebbe creduto. «Era un testardo! Ma il Signore — ha commentato il Pontefice — ha voluto proprio un testardo per farci capire una cosa più grande. Tommaso ha visto il Signore, è stato invitato a mettere il suo dito nella piaga dei chiodi, a mettere la mano nel fianco. Ma poi non ha detto: “È vero, il Signore è risorto”. No. È andato oltre, ha detto: “Mio Signore e mio Dio”. È il primo dei discepoli che fa la confessione della divinità di Cristo dopo la risurrezione. E l’ha adorato».

Da questa confessione, ha spiegato il vescovo di Roma, si capisce quale era l’intenzione di Dio: sfruttando l’incredulità ha portato Tommaso non tanto ad affermare la risurrezione di Gesù, quanto piuttosto la sua divinità. «E Tommaso — ha detto il Papa — adora il Figlio di Dio. Ma per adorare, per trovare Dio, il Figlio di Dio ha dovuto mettere il dito nelle piaghe, mettere la mano al fianco. Questo è il cammino». Non ce n’è un altro.

Naturalmente «nella storia della Chiesa — ha proseguito nella sua spiegazione il Pontefice — ci sono stati alcuni sbagli nel cammino verso Dio. Alcuni hanno creduto che il Dio vivente, il Dio dei cristiani» si potesse trovare andando «più alto nella meditazione». Ma questo è «pericoloso; quanti si perdono in quel cammino e non arrivano?», ha detto il Papa. «Arrivano sì, forse, alla conoscenza di Dio, ma non di Gesù Cristo, Figlio di Dio, seconda Persona della Trinità — ha precisato —. A quello non ci arrivano. È il cammino degli gnostici: sono buoni, lavorano, ma quello non è il cammino giusto, è molto complicato» e non porta a buon fine.

Altri, ha continuato il Santo Padre «hanno pensato che per arrivare a Dio dobbiamo essere buoni, mortificati, austeri e hanno scelto la strada della penitenza, soltanto la penitenza, il digiuno. Neppure questi sono arrivati al Dio vivo, a Gesù Cristo Dio vivo». Questi, ha aggiunto, «sono i pelagiani, che credono che con il loro sforzo possono arrivare. Ma Gesù ci dice questo: “Nel cammino abbiamo visto Tommaso”. Ma come posso trovare le piaghe di Gesù oggi? Io non le posso vedere come le ha viste Tommaso. Le piaghe di Gesù le trovi facendo opere di misericordia, dando al corpo, al corpo e anche all’anima, ma sottolineo al corpo del tuo fratello piagato, perché ha fame, perché ha sete, perché è nudo, perché è umiliato, perché è schiavo, perché è in carcere, perché è in ospedale. Quelle sono le piaghe di Gesù oggi. E Gesù ci chiede di fare un atto di fede a lui tramite queste piaghe».

Non è sufficiente, ha aggiunto ancora il Papa, costituire «una fondazione per aiutare tutti», né fare «tante cose buone per aiutarli». Tutto questo è importante, ma sarebbe solo un comportamento da filantropi. Invece, ha detto Papa Francesco, «dobbiamo toccare le piaghe di Gesù, dobbiamo accarezzare le piaghe di Gesù. Dobbiamo curare le piaghe di Gesù con tenerezza. Dobbiamo letteralmente baciare le piaghe di Gesù». La vita di san Francesco, ha ricordato, è cambiata quando ha abbracciato il lebbroso perché «ha toccato il Dio vivo e ha vissuto in adorazione». «Quello che Gesù ci chiede di fare con le nostre opere di misericordia — ha concluso il Pontefice — è quello che Tommaso aveva chiesto: entrare nelle piaghe».

[Papa Francesco a s. Marta, in L’Osservatore Romano del 04.07.2013]

(Mc 16,9-15)

 

Malgrado le difficoltà a credere, i discepoli vengono costituiti araldi della Notizia di Dio.

Lieta Novella favorevole all’umanità che intende viaggiare verso se stessa - senza più il bagaglio dei soverchianti accumuli della tradizione, o il condizionamento delle mode.

Gesù fa emergere il portato delle capacità trasmutative già in dote a ciascuno.

La sua proposta soppianta il giogo oppressivo delle perfezioni esterne predicate dalla religione antica; sostituite appunto con le nostre semplici virtù famigliari, colte dal di dentro.

Non: fare proseliti, allestire, combattere, bensì ‘accogliere’. Non: ‘obbedire’ a Dio, ma ‘somigliare’ a Lui essendo se stessi; così via.

La chiesa non avrebbe dovuto diventare una comunione etica di eroi e santi; piuttosto, di peccatori e indecisi.

Infatti, la vicenda degli apostoli increduli ci conforta: siamo già abilitati, e con attitudine alla pienezza. Ma nel suo capovolgimento.

È infatti nel rovesciamento che abbiamo imparato l’ascolto delle emozioni. Anche la necessità di cogliere i dolori.

E non temere la solitudine, chiave d’accesso ai tesori della propria eccentricità e Chiamata per Nome.

 

Le chiese di prima generazione erano piccole realtà sperdute nell’immensità dell’impero. Comunità minimali «in mezzo» alla vastità di un mondo segnato da princìpi differenti.

Fraternità popolari animate da una passione che le rendevano testimonianza visibile e Manifestazione della vita del Risorto.

Lo spirito delle origini era l’unica prova e possibilità di riconoscimento del Cristo.

Poi per difendersi dalle critiche iniziarono a spuntare le liste di “apparizioni”, ma solo a partire dalla seconda generazione di credenti.

Oggi non appare più? No, ancora si «manifesta» nel suo popolo.

Questa è tutta la partita.

La difficoltà ad accettare i segnali che convincono della Presenza di Gesù e del suo stesso Spirito possono essere superati.

Non con l’organizzazione, che affievolisce l’unicità. Qui non si vive. Non col perfezionismo, che boicotta l’espressione delle nostre qualità.

Ma grazie alla convivialità delle differenze, e annunciando «a tutti» la «buona notizia» (v.15) che il Signore oltrepassa l’esperienza di quanto è già risaputo.

«Andate»: se non si fa Esodo, non si scatena lo Spirito. Non ci si deve perdere nella ricerca del consenso esterno.

È all’interno di un Cammino non selettivo che impariamo a trasformare i nostri disagi in risorse preziose per affrontare futuro.

La Lieta Novella da annunciare, appunto, è: il Padre è amabile; vuole prendersi cura.

Esatto contrario di ciò che predicavano le false guide sia del giudaismo che di qualsiasi cultura dell’impero.

Non un Dio sanguisuga che spersonalizza; viceversa, un Padre che dona.

Non il Dio della religione, che aspetta per la resa dei conti. Perché accentua le trasmutazioni.

Egli è Radice dell’essere e Relazione fondante. Dono che incessantemente Viene per attivare l’esuberanza di fioriture.

Non un grigio Legislatore e compassato Giudice, il quale impone norme o mette in castigo - per tenere tutti sotto controllo.

L’Eterno invita e trasmette la sua stessa eccedenza - persino discorde - per fondersi, e dilatare aspetti, risorse, volti difformi. Possibilità di realizzazione di ciascuno.

Impensabile, prima di Gesù.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa annunci con la tua vita? Essa oltrepassa l’esperienza diretta?

Come additi sentieri esuberanti di speranza? Oppure sei selettivo e taci?

 

 

[Sabato fra l’Ottava di Pasqua, 26 aprile 2025]

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St Teresa of Avila wrote: “the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ” (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7) [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6) [Papa Benedetto]
Dear friends, the mission of the Church bears fruit because Christ is truly present among us in a quite special way in the Holy Eucharist. His is a dynamic presence which grasps us in order to make us his, to liken us to him. Christ draws us to himself, he brings us out of ourselves to make us all one with him. In this way he also inserts us into the community of brothers and sisters: communion with the Lord is always also communion with others (Pope Benedict)
Cari amici, la missione della Chiesa porta frutto perché Cristo è realmente presente tra noi, in modo del tutto particolare nella Santa Eucaristia. La sua è una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a Sé. Cristo ci attira a Sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli: la comunione con il Signore è sempre anche comunione con gli altri (Papa Benedetto)
Jesus asks us to abide in his love, to dwell in his love, not in our ideas, not in our own self-worship. Those who dwell in self-worship live in the mirror: always looking at themselves. He asks us to overcome the ambition to control and manage others. Not controlling, serving them (Pope Francis)
Gesù ci chiede di rimanere nel suo amore, abitare nel suo amore, non nelle nostre idee, non nel culto di noi stessi. Chi abita nel culto di sé stesso, abita nello specchio: sempre a guardarsi. Ci chiede di uscire dalla pretesa di controllare e gestire gli altri. Non controllare, servirli (Papa Francesco)
In this passage, the Lord tells us three things about the true shepherd:  he gives his own life for his sheep; he knows them and they know him; he is at the service of unity [Pope Benedict]
In questo brano il Signore ci dice tre cose sul vero pastore: egli dà la propria vita per le pecore; le conosce ed esse lo conoscono; sta a servizio dell'unità [Papa Benedetto]
Jesus, Good Shepherd and door of the sheep, is a leader whose authority is expressed in service, a leader who, in order to command, gives his life and does not ask others to sacrifice theirs. One can trust in a leader like this (Pope Francis)
Gesù, pastore buono e porta delle pecore, è un capo la cui autorità si esprime nel servizio, un capo che per comandare dona la vita e non chiede ad altri di sacrificarla. Di un capo così ci si può fidare (Papa Francesco)
In today’s Gospel passage (cf. Jn 10:27-30) Jesus is presented to us as the true Shepherd of the People of God. He speaks about the relationship that binds him to the sheep of the flock, namely, to his disciples, and he emphasizes the fact that it is a relationship of mutual recognition […] we see that Jesus’ work is explained in several actions: Jesus speaks; Jesus knows; Jesus gives eternal life; Jesus safeguards (Pope Francis)
Nel Vangelo di oggi (cfr Gv 10,27-30) Gesù si presenta come il vero Pastore del popolo di Dio. Egli parla del rapporto che lo lega alle pecore del gregge, cioè ai suoi discepoli, e insiste sul fatto che è un rapporto di conoscenza reciproca […] vediamo che l’opera di Gesù si esplica in alcune azioni: Gesù parla, Gesù conosce, Gesù dà la vita eterna, Gesù custodisce (Papa Francesco)

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