(Gv 15,9-17)
Giovanni 15:12 Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati.
Giovanni 15:13 Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.
Giovanni 15:14 Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando.
Giovanni 15:15 Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi.
Giovanni 15:16 Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda.
Giovanni 15:17 Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.
“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”. Il v. 12 si apre in modo imperioso e autoritario, che dice tutta l'impellenza di tale comando, ma che nel contempo funge anche da eredità spirituale, che Gesù lascia ai suoi: “Questo è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati”. È un comandamento finalizzato a inculcare l'amore vicendevole all'interno dei rapporti comunitari; un amore da cui non si può prescindere se si vuole “rimanere nel suo amore” (v. 10) e quindi essere in comunione di vita con Gesù e il Padre, evitando così di diventare tralci che il Padre taglia. Una comunione di vita che deve riflettersi nelle reciproche relazioni tra credenti.
Il v. 13 decreta le dimensioni e la qualità di questo amore, che va ben al di là di ogni sentimentalismo. Un dono che avviene attraverso la modalità del sacrificio e che le espressioni “nessuno” e “più grande” rendono esclusivo, unico e superlativo, poiché è un dono che spinge colui che ama a offrire tutto se stesso fino all'atto estremo della vita. Ma nel contempo quel “nessuno” assegna a questo tipo di amore sacrificale una valenza universale, in cui tutti sono chiamati a configurarsi, riparametrando il proprio vivere su quel “come io vi ho amati”.
Questo amore ha il suo parametro di confronto nel Gesù crocifisso, che della sua vita ha fatto un dono di amore per gli altri. Significativo è qui l'uso del sostantivo “psiché” per indicare la vita. Secondo l'antropologia degli antichi l'uomo è un composto di spirito e di carne, due elementi tra loro inconciliabili, ma tenuti assieme dalla “psiché”, che diviene pertanto l'espressione dell'interezza e della totalità dell'essere umano. L'offerta sacrificale della “psiché” definisce il dono come totale, che non ammette condizioni o riserve. Questo è stato il dono che Gesù ha fatto di se stesso a favore dei suoi; questo è l'amore che i suoi devono lasciar trasparire dalle loro relazioni intracomunitarie.
Il v. 13 oltre che definire la natura di questo amore ne precisa anche l'oggetto: “gli amici”. Il termine greco “phílon” significa prevalentemente caro, diletto, amato, gradito, definendo la natura dell'amico come colui che rientra nell'intimità di chi dona la propria amicizia. Tuttavia questi aspetti umani dell'amicizia sono del tutto insufficienti a spiegare un rapporto che implica di fatto il dono totale della vita, che per l'amico viene sacrificata. Ecco dunque l'ulteriore passo che attribuisce all'amico un nuovo significato: “Voi siete miei amici se farete quello che io vi comando” (v. 14).
L'amico dunque è colui che “fa” quanto gli viene comandato. Amico, dunque, è colui che conforma il proprio vivere a chi gli offre la sua amicizia. Ed infine, il v. 15, se da un lato qualifica ulteriormente la figura di questo amico, che ormai ha perso ogni suo connotato umano per assumere aspetti squisitamente divini, dall'altro spiega la dinamica che ha prodotto il passaggio da uno stato di servitù a quello di amicizia: “Non vi chiamo più servi, poiché il servo non sa che cosa fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi”. Qui ci si trova di fronte ad un passaggio fondamentale che va a modificare ontologicamente l'essere proprio del discepolo, definito come “amico” e quindi in qualche modo associato alla persona di Gesù e ai suoi destini.
La conoscenza vera di Dio non si acquisisce per studio. Per studio possiamo acquisire ciò che gli altri hanno pensato e scritto di Dio. Ma è la loro conoscenza di Dio, non la nostra. Invece osservando i comandamenti diventiamo amici di Gesù Cristo. Diventati amici di Cristo, non siamo più servi. Non essendo più servi, Gesù ci apre il suo cuore, svela il mistero del Padre. Nell’amicizia Gesù conversa con noi e la nostra mente si illumina del mistero di Dio e dell’uomo. L’amicizia con Gesù è la vera via per conoscere Dio.
Il v. 15 è scandito in due parti: la prima definisce la natura del servo come colui che è al seguito del suo padrone, ma non partecipa alla sua vita: il servo non sa cosa fa il suo padrone. La condizione di servo, infatti, definisce la posizione iniziale del discepolo, tale per la sequela, ma che ancora non ha accesso al sapere del maestro. Prima di giungere a tale sapere il discepolo doveva compiere un lungo tirocinio che prevedeva obbedienza, sudditanza e servizio al proprio maestro, con il quale conviveva per apprendere, e poi poter perpetuare il suo insegnamento. Questa la posizione iniziale dei discepoli di Gesù, che, giunti al termine della missione terrena del loro Maestro, hanno avuto accesso alla sua conoscenza.
La seconda parte del v. 15 segna il passaggio sostanziale dallo stato di servi a quello di amici, poiché ora i discepoli sono stati resi partecipi del mistero rivelato. Vi è una vera e propria costituzione che eleva i discepoli dal rango di servi a quello di amici, che incide a livello ontologico, cioè sullo stato dell'essere dei discepoli, che determina un passaggio relazionale con Gesù. Vi è dunque un'evoluzione spirituale, che prelude al v. 16 in cui si dirà che i discepoli sono stati “scelti e costituiti”, gettando le fondamenta dell'apostolato, cioè del proseguimento della missione di Gesù.
Di solito nell’antichità era il discepolo che sceglieva il suo maestro. Lo sceglieva secondo le sue speranze, i suoi desideri, le sue attese ed anche secondo i talenti che pensava di possedere. Con Gesù tutto si capovolge. È il Maestro che sceglie i discepoli. Cosa comporta questa verità? Che non sono più le attese, le speranze, i desideri del discepolo che si devono realizzare. Non sono le aspirazioni del discepolo che si devono compiere, ma quelle del Maestro. Quali sono le aspirazioni del Maestro? Che i suoi discepoli vadano e portino molto frutto. Qual è il frutto che dovranno portare? Quello di condurre molti uomini a Cristo Gesù. Frutto che rimane in eterno è solo l’anima salvata. Quando il discepolo di Gesù va e produce frutti che rimangono in eterno, tutto quello che chiede al Padre nel suo nome, il Padre glielo concede. Noi compiamo i desideri e le attese di Gesù, il Padre compie i desideri e le attese del discepolo di Gesù. Noi lavoriamo per Gesù, il Padre lavora per tutti coloro che operano per Gesù.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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