Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Ogni giorno, purtroppo, le cronache riportano notizie brutte: omicidi, incidenti, catastrofi…. Nel brano evangelico di oggi, Gesù accenna a due fatti tragici che a quel tempo avevano suscitato molto scalpore: una repressione cruenta compiuta dai soldati romani all’interno del tempio; e il crollo della torre di Siloe, a Gerusalemme, che aveva causato diciotto vittime (cfr Lc 13,1-5).
Gesù conosce la mentalità superstiziosa dei suoi ascoltatori e sa che essi interpretano quel tipo di avvenimenti in modo sbagliato. Infatti pensano che, se quegli uomini sono morti così crudelmente, è segno che Dio li ha castigati per qualche colpa grave che avevano commesso; come dire: “se lo meritavano”. E invece il fatto di essere stati risparmiati dalla disgrazia equivaleva a sentirsi “a posto”. Loro “se lo meritavano”; io sono “a posto”.
Gesù rifiuta nettamente questa visione, perché Dio non permette le tragedie per punire le colpe, e afferma che quelle povere vittime non erano affatto peggiori degli altri. Piuttosto, Egli invita a ricavare da questi fatti dolorosi un ammonimento che riguarda tutti, perché tutti siamo peccatori; dice infatti a coloro che lo avevano interpellato: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (v. 3).
Anche oggi, di fronte a certe disgrazie e ad eventi luttuosi, può venirci la tentazione di “scaricare” la responsabilità sulle vittime, o addirittura su Dio stesso. Ma il Vangelo ci invita a riflettere: che idea di Dio ci siamo fatti? Siamo proprio convinti che Dio sia così, o quella non è piuttosto una nostra proiezione, un dio fatto “a nostra immagine e somiglianza”? Gesù, al contrario, ci chiama a cambiare il cuore, a fare una radicale inversione nel cammino della nostra vita, abbandonando i compromessi con il male – e questo lo facciamo tutti, i compromessi con il male - le ipocrisie – io credo che quasi tutti ne abbiamo almeno un pezzetto di ipocrisia -, per imboccare decisamente la strada del Vangelo. Ma ecco di nuovo la tentazione di giustificarci: “Ma da che cosa dovremmo convertirci? Non siamo tutto sommato brava gente?”. Quante volte abbiamo pensato questo: “Ma, tutto sommato io sono uno bravo, sono una brava – non è così? – non siamo dei credenti, anche abbastanza praticanti?”. E noi crediamo che così siamo giustificati.
Purtroppo, ciascuno di noi assomiglia molto a un albero che, per anni, ha dato molteplici prove della sua sterilità. Ma, per nostra fortuna, Gesù è simile a quel contadino che, con una pazienza senza limiti, ottiene ancora una proroga per il fico infecondo: «Lascialo ancora quest’anno – dice al padrone – […] Vedremo se porterà frutto per l’avvenire» (v. 9). Un “anno” di grazia: il tempo del ministero di Cristo, il tempo della Chiesa prima del suo ritorno glorioso, il tempo della nostra vita, scandito da un certo numero di Quaresime, che ci vengono offerte come occasioni di ravvedimento e di salvezza, il tempo di un Anno Giubilare della Misericordia. L’invincibile pazienza di Gesù! Avete pensato, voi, alla pazienza di Dio? Avete pensato anche alla sua irriducibile preoccupazione per i peccatori, come dovrebbero provocarci all’impazienza nei confronti di noi stessi! Non è mai troppo tardi per convertirsi, mai! Fino all’ultimo momento: la pazienza di Dio che ci aspetta. Ricordate quella piccola storia di santa Teresa di Gesù Bambino, quando pregava per quell’uomo condannato a morte, un criminale, che non voleva ricevere il conforto della Chiesa, respingeva il sacerdote, non voleva: voleva morire così. E lei pregava, nel convento. E quanto quell’uomo era lì, proprio al momento di essere ucciso, si rivolge al sacerdote, prende il Crocifisso e lo bacia. La pazienza di Dio! E fa lo stesso anche con noi, con tutti noi! Quante volte – noi non lo sappiamo, lo sapremo in Cielo –, quante volte noi siamo lì, lì… [sul punto di cadere] e il Signore ci salva: ci salva perché ha una grande pazienza per noi. E questa è la sua misericordia. Mai è tardi per convertirci, ma è urgente, è ora! Incominciamo oggi.
La Vergine Maria ci sostenga, perché possiamo aprire il cuore alla grazia di Dio, alla sua misericordia; e ci aiuti a non giudicare mai gli altri, ma a lasciarci provocare dalle disgrazie quotidiane per fare un serio esame di coscienza e ravvederci.
[Papa Francesco, Angelus 28 febbraio 2016]
Segni del tempo e motivo [Persona] presente
(Lc 12,54-59)
«Ora, perché non giudicate anche da voi stessi ciò che è giusto?» (v.57).
Dalla natura e dagli accadimenti bisogna saper trarre lezione - anche per l’orizzonte del Mistero.
In Cristo abbiamo capacità di pensiero e veniamo fatti autonomi: dall’esteriorità delle cose siamo riportati all’Origine di quanto accade.
L’appello di Gesù sui Segni del Tempo fu il testo ispiratore di Papa Giovanni per la convocazione del Concilio Vaticano II, affinché fosse la Chiesa a interrogarsi, prestando maggiore attenzione alle Chiamate di Dio nella storia e alle speranze dell’umanità.
La prevedibilità non faceva cambiare passo spirituale; in ciascuno, il suo pronosticare non concedeva all’anima di vedere lontano.
L’Amore infatti non è mai secondo aspettative o convinzioni concatenate, normali, senza nuove soddisfazioni da sbigottimento.
Le idee di massa vengono distratte, imbrigliate, da pensieri conformisti. Le convinzioni mai sottoposte a prova inaridiscono lo sguardo, collocano gl’impeti caratteriali su binari morti.
Generano vie che girano attorno e sospendono l’accorgersi, la capacità di percepire le possibilità del mondo interiore; nonché le occasioni di comunione.
È il cuore che vede le minime possibilità. Le coglie su interrogativi perenni, in rapporto di reciprocità col senso della vita presente.
E Gesù vuole che la nostra pianta ributti ancora nuove foglie. Perché ciò che riteniamo ci appartenga, è già perso.
Allora l’invito alla Conversione - invece di arenare l'anima e il pensiero su modelli - rende attenti al poliedro dell’Amicizia con se stessi, con i fratelli anche lontani, e tutte le cose, ora.
Mondo di relazione che nulla ritiene irrilevante - e può farci arricchire (sbloccati) con difformità avventurose, fresche, vivaci, che si affacciano da libere energie che non vogliono vita standard; insieme.
Mutamento radicale è… non pensare solo al consenso veloce, al proprio tornaconto prossimo addirittura banale, che in fondo non desideriamo davvero - e sappiamo non funziona: non modificherebbe nulla.
L’Attimo per scoprire i contenuti e non lasciarci frastornati, la chance presente, lo spirito del pellegrino, il riconoscimento delle culture... hanno un carattere decisivo per l'evoluzione della vita nello Spirito.
Essa non poggia sul protagonismo codificato, arruolato, che sa già dove arrivare - e così incaglia, adegua, ci perde di vista, rende interdetti; miete vittime d’illusioni, di attriti esterni; intossicando la strada d’approcci muscolari e pensieri.
I complimenti fuori non riportano l’io e il tu alle Radici, né esplodono per il vero futuro, quello da vivere intensamente, che farà vibrare.
Ecco l’«Attimo presente»: la porta da aprire per introdursi nella stanza dell’energia felice, che permane magmatica - dono incessante, ‘unzione’ e Visione che non sappiamo.
Stupore che invita e conduce ben oltre l’aspetto omologante, conformista, unilaterale - di frastuono, cliché, tatticismo, o età altrui da riprodurre.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come vivi la tensione fra visione del genio del tempo e momento presente?
Quale relazione cogli fra Promessa di Dio e nostre speranze?
[Venerdì 29.a sett. T.O. 25 ottobre 2024]
La stanza della Felicità, nell’orizzonte decisivo
(Lc 12,54-59)
«Ora, perché non giudicate anche da voi stessi ciò che è giusto?» (v.57).
Dalla natura e dagli accadimenti bisogna saper trarre lezione - anche per l’orizzonte del Mistero.
In Cristo abbiamo capacità di pensiero e veniamo fatti autonomi: dall’esteriorità delle cose siamo riportati all’Origine di quanto accade.
L’appello di Gesù sui Segni del Tempo fu il testo ispiratore di Papa Giovanni per la convocazione del Concilio Vaticano II, affinché fosse la Chiesa finalmente a interrogarsi, prestando maggiore attenzione alle Chiamate di Dio nella storia e alle speranze dell’umanità.
La sicurezza autocelebrativa e la pompa delle grandi forme avevano attenuato il sentimento ardente e l’entusiasmo liberatorio del Risorto.
La prevedibilità non faceva cambiare passo spirituale; in ciascuno, il suo pronosticare non concedeva all’anima di vedere lontano.
Le certezze dei codici spegnevano la carica e facevano sì che i fedeli si lasciassero travolgere solo dalla routine e dai problemucci.
Anche oggi, le sicurezze di struttura e di circostanza - tutte stabilite - affievoliscono lo sbocciare nel presente; non consentono di percepire e vivere ciò che si fa Evento.
I luoghi comuni sono capaci di spostare la Vocazione dal magico territorio dove sorge (e bussa dentro), volgendola a una quotidianità sacramentale tutta pronosticabile - approvata dal contorno sociale o ecclesiale consolidati sul territorio.
Invece, il nostro Eros fondante va speso adesso e in uscita, perché vive di passioni, non di stallo; poggia sul desiderio e sulle complicità con lo Spirito, che col suo Fuoco rinnova la faccia della terra.
Ma esso si spegne se ci lasciamo trascinare da valutazioni ponderate circa le forze in campo: calcoli dare-avere, situazionalismi opportunistici... perfino propositi altrui, o puristi, e di circostanza.
Lo slancio convinto e personale impallidisce nelle forzature, nella programmazione, nelle ossessioni di controllo e nelle verifiche, senza svolte decisive - come se fossimo all’asilo.
L’Amore infatti non è mai secondo aspettative o convinzioni concatenate, normali, senza nuove soddisfazioni da sbigottimento - né ricalca idee di massa distratta da soliti pensieri conformisti, che inaridiscono lo sguardo.
Le convinzioni mai vagliate né sottoposte a prova collocano gl’impeti caratteriali su binari morti.
Le certezze inculcate generano vie che girano attorno, sospendono l’accorgersi, affievoliscono ogni capacità di percepire possibilità del mondo interiore; nonché le occasioni di comunione.
È il cuore che vede le minime possibilità. Le coglie su interrogativi perenni in rapporto di reciprocità col senso della vita presente.
E Gesù vuole che la nostra pianta ributti ancora nuove foglie, tutte verdi (non stagionate).
Non muffa: ciò che riteniamo ci appartenga, è già perso.
Allora l’invito alla Conversione - invece di arenare l'anima e il pensiero su modelli antichi o utopie astratte, unilaterali - rende attenti al poliedro dell’Amicizia con se stessi, con i fratelli anche lontani, e tutte le cose, ora.
Mondo di relazione che nulla ritiene irrilevante - e può farci arricchire (sbloccati) con difformità avventurose, fresche, vivaci, le quali si affacciano da libere energie che non vogliono la vita standard, né troppo il legame dei ricordi, bensì il mutamento radicale, insieme.
Come sottolinea l’enciclica Fratelli Tutti: «questo implica la capacità abituale di riconoscere all’altro il diritto di essere se stesso e di essere diverso» (n.218).
Mutamento radicale è… non pensare solo al consenso veloce, al proprio tornaconto prossimo (addirittura banale) che in fondo non desideriamo davvero - e sappiamo non funziona: non modificherebbe nulla.
Tale Appello intimo e sociale dev’essere colto immediatamente, qui e adesso, sino a che dura il tempo umano di grazia - momento di Dio a nostro favore.
L’Attimo per scoprire i contenuti e non lasciarci frastornati, la chance presente, lo spirito del pellegrino, il riconoscimento delle culture... hanno un carattere decisivo per l'evoluzione della vita nello Spirito.
Essa non poggia sul protagonismo codificato, arruolato, che sa già dove arrivare - e così incaglia, adegua, ci perde di vista, rende interdetti; miete vittime d’illusioni, di attriti esterni; intossicando la strada d’approcci muscolari e pensieri.
Cose caduche, come ad es. l’idolo fisso e poco affascinante che spesso pedina le anime: il “ciò che abbiamo ottenuto” - coi suoi traguardi conformisti, le promozioni strappate, gli altri che ci guardano...
I complimenti fuori non riportano l’io e il tu alle Radici, né esplodono per il vero futuro, quello da vivere intensamente, che farà vibrare.
L’«Attimo presente» è semplicemente la porta da aprire per introdursi nella stanza dell’energia felice, che permane magmatica - dono incessante, “unzione” e Visione che non sappiamo.
Stupore che invita e conduce ben oltre l’aspetto omologante, unilaterale, codino - di frastuono, cliché, tatticismo, o età altrui da riprodurre.
«Teatranti! L’aspetto della terra e del cielo sapete discernere, ma questo tempo come non sapete discernere?» (Lc 12,56).
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come vivi la tensione fra visione del genio del tempo e momento presente?
Quale relazione cogli fra Promessa di Dio e nostre speranze?
Fede e segno dei tempi
La Fede non è una sorta di oggetto né una ideologia (che si può avere o meno), bensì una Relazione.
Essa procede da un Dio che si rivela, c’interpella e chiama per nome.
Il suo Volto variegato e ricco non collima col pensiero comune, ma intercetta il nostro desiderio di pienezza di vita, e in tal modo ci corrisponde e conquista.
Non si tratta di una vicenda puntuale, ma che zampilla e procede di onda in onda nel corso dell’esistenza – con tutto il carico delle sue sorprese nel tempo [esse di quando in quando contestano, sabotandoci, o sbalordiscono].
In detto rapporto, la Fede che appunto nasce dall’ascolto si accende quando l’iniziativa del Padre che si manifesta e svela in una proposta che viene a noi, è accolta e non rifiutata.
Nell’evoluzione, tale dinamica stabilisce una Presenza invisibile nel Sé celato, fuoco inestinguibile del nostro Eros fondante; Eco percepibile – anche nel genio del tempo, nei solchi della storia personale, nelle pieghe delle vicende e relazioni, consigli, valutazioni opposte e persino fratture.
La Relazione di Fede ha diversi approcci. Un primo stadio è quello della Fede Assenso: la persona si riconosce in un mondo di saperi che gli corrisponde. È un livello assai dignitoso, ma comune a tutte le religioni e filosofie.
Scrutando la Parola, si comprende che lo specifico della Fede biblica riguarda assai più l’esistere concreto che il pensiero o la disciplina: ha un carattere diverso dai codici, è Sponsale.
La Fede già nel Primo Testamento è tipicamente quell’affidarsi della Sposa [in ebraico Israèl è termine di genere femminile] che ha piena fiducia nello Sposo.
Sa che poggiando sul Dio-Con fiorirà autenticamente e godrà di pienezza di vita, anche passando tra vicende spiacevoli.
La Fede vissuta nello Spirito del Risorto gode di altre sfaccettature, decisive per dare colore al nostro andare nel mondo e alla nostra maturazione piena e gioia di vivere.
[In tutto è fondamentale sia l’ascolto della Sacra Scrittura, che il passare dalla ridda di pensieri che frammentano il nostro occhio interiore alla percezione, ossia a uno sguardo contemplativo, che sappia posarsi su noi stessi e le cose].
Il terzo passo della fede cristologica è appunto una sorta di Appropriazione: il soggetto s’identifica e – sicuro della reciprocità amicale sperimentata nei Doni – s’impossessa del cuore mite e forte del Signore con un colpo di mano e senza alcun merito prescritto.
Citando s. Bernardo, Alfonso Maria de’ Liguori afferma: “Quel merito che manca a me per entrare nel Paradiso, io me l’usurpo da’ meriti di Gesù Cristo”. Nessuna trafila o disciplina dell’arcano.
Attenzione: non si tratta di “prove” di sostituzione vicaria, come se Gesù avesse dovuto colmare un debito di peccati, perché il Padre aveva bisogno di sangue e di almeno uno che la pagasse cara.
La persona si rende intima al Cristo non semplicemente con un credere comune, ma con una azione interiore personale.
Dio ci recupera educandoci.
È vero che inviando un agnello in mezzo ai lupi la sua fine è segnata. Ma è anche l’unico modo per insegnare agli uomini – ancora in condizione preumana – che quella della competizione non è vita da persone, ma di bestie feroci.
L’agnello è l’essere mansueto che fa riflettere persino i lupi: solo appropriandosene completamente, le belve si accorgono di essere tali.
Così possiamo cominciare a dire: “Io” da uomini invece che bestie.
Certo, solo le persone conciliate con la propria vicenda fanno il bene. Ma il meglio autentico e pieno è fuori della nostra portata; non produzione propria. Non siamo onnipotenti.
Una ulteriore tappa del percorso della vita in Cristo e nello Spirito è quella della Fede-Calamita.
Anch’essa si configura come un’Azione, perché l’anima-sposa legge il segno dei tempi, interpreta la realtà circostante e le proprie inclinazioni. E cogliendo la portata del Futuro, lo anticipa e attualizza.
Così evitiamo di sprecare la vita a sostegno di rami secchi.
Ma lo stadio ultimo e forse ancor più perfetto (direi la vetta) di tale Fede-Innesco, è quello della Fede-Meraviglia.
Essa è il credere specifico dell’Incarnazione, perché riconosce proprio i Tesori che si nascondono dietro i nostri lati oscuri.
Tali Perle scenderanno in campo nel corso dell’esistenza [faranno quel che devono quando sarà necessario] e sarà uno stupore scoprirle.
Il bozzolo bucato genererà la nostra Farfalla, che non è costruzione omologata a dei prototipi, ma Sbalordimento.
Cari amici, non desistete mai da questo compito educativo, anche quando la strada si fa dura e lo sforzo sembra non dare risultati. Vivetelo nella fedeltà alla Chiesa e nel rispetto dell’identità delle vostre Istituzioni, utilizzando gli strumenti che la storia vi ha consegnato e quelli che la «fantasia della carità» – come diceva il beato Giovanni Paolo II – vi suggerirà per l’avvenire. Nei quattro decenni trascorsi, avete potuto approfondire, sperimentare e attuare un metodo di lavoro basato su tre attenzioni tra loro correlate e sinergiche: ascoltare, osservare, discernere, mettendolo al servizio della vostra missione: l’animazione caritativa dentro le comunità e nei territori. Si tratta di uno stile che rende possibile agire pastoralmente, ma anche perseguire un dialogo profondo e proficuo con i vari ambiti della vita ecclesiale, con le associazioni, i movimenti e con il variegato mondo del volontariato organizzato.
Ascoltare per conoscere, certo, ma insieme per farsi prossimo, per sostenere le comunità cristiane nel prendersi cura di chi necessita di sentire il calore di Dio attraverso le mani aperte e disponibili dei discepoli di Gesù. Questo è importante: che le persone sofferenti possano sentire il calore di Dio e lo possano sentire tramite le nostre mani e i nostri cuori aperti. In questo modo le Caritas devono essere come “sentinelle” (cfr Is 21,11-12), capaci di accorgersi e di far accorgere, di anticipare e di prevenire, di sostenere e di proporre vie di soluzione nel solco sicuro del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa. L’individualismo dei nostri giorni, la presunta sufficienza della tecnica, il relativismo che influenza tutti, chiedono di provocare persone e comunità verso forme alte di ascolto, verso capacità di apertura dello sguardo e del cuore sulle necessità e sulle risorse, verso forme comunitarie di discernimento sul modo di essere e di porsi in un mondo in profondo cambiamento.
Scorrendo le pagine del Vangelo, restiamo colpiti dai gesti di Gesù: gesti che trasmettono la Grazia, educativi alla fede e alla sequela; gesti di guarigione e di accoglienza, di misericordia e di speranza, di futuro e di compassione; gesti che iniziano o perfezionano una chiamata a seguirlo e che sfociano nel riconoscimento del Signore come unica ragione del presente e del futuro. Quella dei gesti, dei segni è una modalità connaturata alla funzione pedagogica della Caritas. Attraverso i segni concreti, infatti, voi parlate, evangelizzate, educate. Un’opera di carità parla di Dio, annuncia una speranza, induce a porsi domande. Vi auguro di sapere coltivare al meglio la qualità delle opere che avete saputo inventare. Rendetele, per così dire, «parlanti», preoccupandovi soprattutto della motivazione interiore che le anima, e della qualità della testimonianza che da esse promana. Sono opere che nascono dalla fede. Sono opere di Chiesa, espressione dell’attenzione verso chi fa più fatica. Sono azioni pedagogiche, perché aiutano i più poveri a crescere nella loro dignità, le comunità cristiane a camminare nella sequela di Cristo, la società civile ad assumersi coscientemente i propri obblighi. Ricordiamo quanto insegna il Concilio Vaticano II: «Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia» (Apostolicam actuositatem, 8). L’umile e concreto servizio che la Chiesa offre non vuole sostituire né, tantomeno, assopire la coscienza collettiva e civile. Le si affianca con spirito di sincera collaborazione, nella dovuta autonomia e nella piena coscienza della sussidiarietà.
Fin dall’inizio del vostro cammino pastorale, vi è stato consegnato, come impegno prioritario, lo sforzo di realizzare una presenza capillare sul territorio, soprattutto attraverso le Caritas Diocesane e Parrocchiali. È obiettivo da perseguire anche nel presente. Sono certo che i Pastori sapranno sostenervi e orientarvi, soprattutto aiutando le comunità a comprendere il proprium di animazione pastorale che la Caritas porta nella vita di ogni Chiesa particolare, e sono certo che voi ascolterete i vostri Pastori e ne seguirete le indicazioni.
L’attenzione al territorio e alla sua animazione suscita, poi, la capacità di leggere l’evolversi della vita delle persone che lo abitano, le difficoltà e le preoccupazioni, ma anche le opportunità e le prospettive. La carità richiede apertura della mente, sguardo ampio, intuizione e previsione, un «cuore che vede» (cfr Enc. Deus caritas est, 25). Rispondere ai bisogni significa non solo dare il pane all’affamato, ma anche lasciarsi interpellare dalle cause per cui è affamato, con lo sguardo di Gesù che sapeva vedere la realtà profonda delle persone che gli si accostavano. È in questa prospettiva che l’oggi interpella il vostro modo di essere animatori e operatori di carità. Il pensiero non può non andare anche al vasto mondo della migrazione. Spesso calamità naturali e guerre creano situazioni di emergenza. La crisi economica globale è un ulteriore segno dei tempi che chiede il coraggio della fraternità. Il divario tra nord e sud del mondo e la lesione della dignità umana di tante persone, richiamano ad una carità che sappia allargarsi a cerchi concentrici dai piccoli ai grandi sistemi economici. Il crescente disagio, l’indebolimento delle famiglie, l’incertezza della condizione giovanile indicano il rischio di un calo di speranza. L’umanità non necessita solo di benefattori, ma anche di persone umili e concrete che, come Gesù, sappiano mettersi al fianco dei fratelli condividendo un po’ della loro fatica. In una parola, l’umanità cerca segni di speranza. La nostra fonte di speranza è nel Signore. Ed è per questo motivo che c’è bisogno della Caritas; non per delegarle il servizio di carità, ma perché sia un segno della carità di Cristo, un segno che porti speranza. Cari amici, aiutate la Chiesa tutta a rendere visibile l’amore di Dio. Vivete la gratuità e aiutate a viverla. Richiamate tutti all’essenzialità dell’amore che si fa servizio. Accompagnate i fratelli più deboli. Animate le comunità cristiane. Dite al mondo la parola dell’amore che viene da Dio. Ricercate la carità come sintesi di tutti i carismi dello Spirito (cfr 1 Cor 14,1).
Sia vostra guida la Beata Vergine Maria che, nella visita ad Elisabetta, portò il dono sublime di Gesù nell’umiltà del servizio (cfr Lc 1,39-43). Io vi accompagno con la preghiera e volentieri vi imparto la Benedizione Apostolica, estendendola a quanti quotidianamente incontrate nelle vostre molteplici attività. Grazie.
[Papa Benedetto, Discorso alla Caritas Italiana nel 40° di fondazione, 24 novembre 2011]
12.Non è difficile constatare che nel mondo contemporaneo il senso della giustizia si è risvegliato su vasta scala; e senza dubbio esso pone maggiormente in rilievo ciò che contrasta con la giustizia sia nei rapporti tra gli uomini, i gruppi sociali o le «classi», sia tra i singoli popoli e stati e, infine, tra interi sistemi politici ed anche tra interi cosiddetti mondi. Questa profonda e multiforme corrente, alla cui base la coscienza umana contemporanea ha posto la giustizia, attesta il carattere etico delle tensioni e delle lotte che pervadono il mondo.
La Chiesa condivide con gli uomini del nostro tempo questo profondo e ardente desiderio di una vita giusta sotto ogni aspetto, e non omette neppure di sottoporre alla riflessione i vari aspetti di quella giustizia, quale la vita degli uomini e delle società esige. Ne è conferma il campo della dottrina sociale cattolica, ampiamente sviluppata nell'arco dell'ultimo secolo. Sulle orme di tale insegnamento procedono sia l'educazione e la formazione delle coscienze umane nello spirito della giustizia, sia anche le singole iniziative, specie nell'ambito dell'apostolato dei laici, che appunto in tale spirito si vanno sviluppando.
Tuttavia, sarebbe difficile non avvedersi che molto spesso i programmi che prendono avvio dall'idea di giustizia e che debbono servire alla sua attuazione nella convivenza degli uomini, dei gruppi e delle società umane, in pratica subiscono deformazioni.
Avendo davanti agli occhi l'immagine della generazione a cui apparteniamo, la Chiesa condivide l'inquietudine di tanti uomini contemporanei. D'altronde, deve anche preoccupare il declino di molti valori fondamentali che costituiscono un bene incontestabile non soltanto della morale cristiana, ma semplicemente della morale umana, della cultura morale, quali il rispetto per la vita umana sin dal momento del concepimento, il rispetto per il matrimonio nella sua unità indissolubile, il rispetto per la stabilità della famiglia. Il permissivismo morale colpisce soprattutto questo ambito più sensibile della vita e della convivenza umana. Di pari passo con ciò vanno la crisi della verità nei rapporti interumani, la mancanza di responsabilità nel parlare, il rapporto puramente utilitario dell'uomo con l'uomo, il venir meno del senso dell'autentico bene comune e la facilità con cui questo viene alienato. Infìne, c'è la desacralizzazione che si trasforma spesso in «disumanizzazione»: l'uomo e la società, per i quali niente è «sacro», decadono moralmente - nonostante ogni apparenza.
14.Nel continuare il grande compito di attuare il Concilio Vaticano II, in cui giustamente possiamo vedere una nuova fase dell'autorealizzazione della Chiesa - su misura dell'epoca in cui ci tocca di vivere -, la Chiesa stessa deve essere costantemente guidata dalla piena coscienza che in quest'opera non le è lecito, a nessun patto, di ripiegarsi su se stessa. La ragione del suo essere è infatti quella di rivelare Dio, cioè quel Padre che ci consente di essere «visto» nel Cristo. Per quanto forte possa essere la resistenza della storia umana, per quanto marcata l'eterogeneità della civiltà contemporanea, per quanto grande la negazione di Dio nel mondo umano, tuttavia tanto più grande deve essere la vicinanza a quel mistero che, nascosto da secoli in Dio, è poi stato realmente partecipato nel tempo all'uomo mediante Gesù Cristo.
[Papa Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia]
«I tempi cambiano e noi cristiani dobbiamo cambiare continuamente». Papa Francesco ha ripetuto più volte questo invito al cambiamento, durante la messa celebrata venerdì mattina, 23 ottobre, nella cappella di Casa Santa Marta. Un invito ad agire «senza paura» e «con libertà», tenendosi alla larga dai conformismi tranquillizzanti e restando «saldi nella fede in Gesù» e «nella verità del Vangelo», ma muovendosi «continuamente secondo i segni dei tempi».
Lo spunto per la riflessione è stato offerto al Pontefice dalle letture di questa ultima parte dell’anno liturgico, che propongono in particolare la lettera ai Romani. «Abbiamo sottolineato — ha ricordato in proposito — come Paolo predica con tanta forza, la libertà che noi abbiamo in Cristo». Si tratta, ha spiegato il Papa, di «un dono, il dono della libertà, di quella libertà che ci ha salvato dal peccato, che ci ha fatto liberi, figli di Dio come Gesù; quella libertà che ci porta a chiamare Dio Padre». Quindi Francesco ha aggiunto che «per avere questa libertà dobbiamo aprirci alla forza dello Spirito e capire bene cosa accade dentro di noi e fuori di noi». E se nei «giorni passati, la settimana scorsa», ci si era soffermati «su come distinguere quello che succede dentro di noi: cosa viene dal buono Spirito o cosa non viene da lui», ovvero sul discernimento di quanto «succede dentro di noi», nella liturgia del giorno il brano del Vangelo di Luca (12, 54-59) esorta a «guardare fuori», facendo «riflettere su come noi valutiamo le cose che accadono fuori di noi».
Ecco allora la necessità di interrogarci su «come giudichiamo: siamo capaci di giudicare?». Per il Papa «le capacità le abbiamo» e lo stesso Paolo «ci dice che noi giudicheremo il mondo: noi cristiani giudicheremo il mondo». Anche l’apostolo Pietro dice una cosa analoga quando «ci chiama stirpe scelta, sacerdozio santo, nazione eletta proprio per la santità».
Insomma, ha chiarito il Pontefice, noi cristiani «abbiamo questa libertà di giudicare quello che succede fuori di noi». Ma — ha avvertito — «per giudicare dobbiamo conoscere bene quello che accade fuori di noi». E allora, si è domandato Francesco, «come si può fare questo, che la Chiesa chiama “conoscere i segni dei tempi”?».
In proposito il Papa ha osservato che «i tempi cambiano. È proprio della saggezza cristiana conoscere questi cambiamenti, conoscere i diversi tempi e conoscere i segni dei tempi. Cosa significa una cosa e cosa un’altra». Certo, il Papa è consapevole che ciò «non è facile. Perché noi sentiamo tanti commenti: “Ho sentito che quello che è accaduto là è questo o quello che accade là è l’altro; ho letto questo, mi hanno detto questo...». Però, ha subito aggiunto, «io sono libero, io devo fare il mio proprio giudizio e capire cosa significhi tutto ciò». Mentre «questo è un lavoro che di solito noi non facciamo: ci conformiamo, ci tranquillizziamo con “mi hanno detto; ho sentito; la gente dice; ho letto...”. E così siamo tranquilli». Quando invece dovremmo chiederci: «Qual è la verità? Qual è il messaggio che il Signore vuole darmi con quel segno dei tempi?».
Come di consueto il Papa ha anche proposto suggerimenti pratici «per capire i segni dei tempi». Anzitutto, ha detto, «è necessario il silenzio: fare silenzio e guardare, osservare. E dopo riflettere dentro di noi. Un esempio: perché ci sono tante guerre adesso? Perché è successo qualcosa? E pregare». Dunque «silenzio, riflessione e preghiera. Soltanto così potremo capire i segni dei tempi, cosa Gesù vuol dirci».
E in questo senso non ci sono alibi. Sebbene infatti ognuno di noi possa essere tentato di dire: «Ma, io non ho studiato tanto... Non sono andato all’università e neppure alla scuola media...», le parole di Gesù non lasciano spazio ai dubbi. Egli infatti non dice: «Guardate come fanno gli universitari, guardate come fanno i dottori, guardate come fanno gli intellettuali...». Al contrario, dice: «Guardate ai contadini, ai semplici: loro, nella loro semplicità, sanno capire quando arriva la pioggia, come cresce l’erba; sanno distinguere il grano dalla zizzania». Di conseguenza «quella semplicità — se viene accompagnata dal silenzio, dalla riflessione e dalla preghiera — ci farà capire i segni dei tempi». Perché, ha ribadito, «i tempi cambiano e noi cristiani dobbiamo cambiare continuamente. Dobbiamo cambiare saldi nella fede in Gesù Cristo, saldi nella verità del Vangelo, ma il nostro atteggiamento deve muoversi continuamente secondo i segni dei tempi».
Al termine della sua riflessione il Pontefice è ritornato sui pensieri iniziali. «Siamo liberi — ha affermato — per il dono della libertà che ci ha dato Gesù Cristo. Ma il nostro lavoro è esaminare cosa succede dentro di noi, discernere i nostri sentimenti, i nostri pensieri; e analizzare cosa accade fuori di noi, discernere i segni dei tempi». Come? «Col silenzio, con la riflessione e con la preghiera», ha ripetuto a conclusione dell’omelia.
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 24/10/2015]
XXVIII Domenica Tempo Ordinario (B) 13 ottobre 2024
1. “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna? Così si rivolge un tale sicuramente animato da buona volontà e da sincera intenzione a Gesù che gli risponde: se vuoi entrare nella vita eterna devi osservare i comandamenti cioè non uccidere, non rubare, non essere falso, non trattare male gli altri, onorare tuo padre e tua madre, e l’interlocutore replica che i comandamenti li conosce tutti e bene, li ha anche messi in pratica sin dalla sua giovinezza. Sicuramente si aspetta un plauso per questo, un giusto riconoscimento, cosa del resto ovvia se veramente è così fedele osservante della legge mosaica. Gesù però non è un dottore della legge, un rabbino maestro di dottrina e non si accontenta di spiegare che cosa bisogna fare per essere in regola con Dio. La fedele osservanza dei comandamenti costituisce solo una tappa e non il fine della vita. Come succede sempre quando s’incontra Dio, questa persona sta per incrociare la più grande occasione della sua esistenza: Gesù fissa lo sguardo su di lui, lo ama e in questo gesto c’è tutto. Qui siamo al centro del racconto ma anche della vita di quest’uomo, il momento in cui si può decidere il proprio destino lasciandosi fissare da uno sguardo d’amore che è proposta e richiesta, offerta e provocazione. In questi casi è rischioso e liberante fidarsi totalmente. Lasciarsi prendere o rifiutare l’amore di Dio è il problema stesso della vita eterna. Di questo incontro l’evangelista sembra offrire un dettaglio che solo l’interessato potrebbe riferire con tale finezza. Qualcuno pensa addirittura che san Marco stia raccontando ciò che ha vissuto da protagonista. Potrebbe essere infatti proprio lui, il giovane che nel racconto della passione (Mc14,51 s; 16,5 s) segue Gesù da lontano fino a quando nell’orto del Getsemani fugge nudo e abbandona tutto: diventerà poi fedele discepolo di Pietro e scriverà il secondo vangelo dove s’intravvedono tratti dal sapore autobiografico. Lo sguardo d’amore di Cristo continua ad essere fonte di tristezza fino a quando uno non si arrende e l’inquietudine che lascia nell’animo non può che essere feconda. Una sola cosa ti manca, gli dice Cristo! Non è un consiglio, è un invito ad aprire gli occhi, a svegliarsi dal sonno dell’incertezza, a capire di cosa abbiamo veramente bisogno per ereditare la vita eterna, per entrare nel Regno. Che cosa manca? Va', vendi tutto ciò che possiedi e donalo ai poveri. Non c’è qui una maniera diversa di esprimere il comandamento dell’amore per il prossimo? Il ricco ama il povero quando distribuisce tutto ciò che possiede a chi non ha nulla e nulla può rendergli in cambio. E l’amore per Dio va sempre unito a quest’amore concreto per gli altri: non si ama Dio che non si vede se non si ama il prossimo che invece ci attraversa la strada. Vendi tutto, poi seguimi! Solo se sei libero puoi abbracciare il vangelo: la proposta della sequela è immediata e chiara. Qui però si tocca con mano il lato fragile dell’esistenza di quest’uomo che la tradizione talora identifica come il giovane ricco: ha capito che per seguire il Cristo e far parte del gruppo dei suoi discepoli, occorre essere libero di tutto e si è reso conto che le sue ricchezze lo rendono schiavo, come un tossico dipende dalla droga. Il risultato è che se ne va veramente triste e la sua tristezza appare come la confessione del suo egoismo. Il fatto che diventi triste è comunque un segno positivo perché sta prendendo coscienza e quando finirà di pensare che il cielo non si guadagna ma è offerta d’amore di Dio, sarà pronto per accogliere la salvezza, dono gratuito del Padre celeste e non conquista dell’uomo. Gesù lo ha provocato a privarsi di tutto, ha invertito la prospettiva: la salvezza non si può meritare, ma si riceve in ginocchio con animo riconoscente. Per poter giungere a fare questo non esiste altra strada che la libertà del cuore: occorre cioè essere pronti a distaccarsi da tutto ciò che in qualsiasi modo ci tiene legati e c’impedisce di amare sul serio. A questo punto, san Marco sembra prendersi il gusto di mostrare che anche gli apostoli non sono in sintonia con il pensiero di Gesù perché pure loro ragionano con la logica del merito. Siamo in fondo tutti, in un modo o l’altro, sotto molti aspetti schiavi di noi stessi!
2. Cosa può fare Gesù se non costatare la realtà? Il Figlio dell’uomo, che è senza casa e non possiede nemmeno una pietra come cuscino, è venuto nel mondo per mostrare la strada della libertà che conduce alla felicità, e deve ammettere che anche persone buone come questo ricco personaggio e persino i suoi discepoli preferiscono il conto in banca al dono d’amore che egli propone. Narra il vangelo che alle parole di Gesù gli apostoli restano meravigliati, anzi sconcertati: nemmeno loro dunque sono in sintonia con il loro Maestro. Possiamo tuttavia capirli perché le ricchezze, come appare in alcuni testi dell’Antico Testamento, erano considerate un dono del cielo; colui pertanto che ne possedeva in abbondanza veniva considerato fortunato e benedetto. Gesù però, come in altre situazioni, non addolcisce il suo modo di esprimersi, non fa sconti perché non è venuto ad abolire la legge mosaica ma a portarla a pieno compimento e insiste: ”E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio. Ognuno di noi rassomiglia al cammello che pretende entrare attraverso la cruna di un ago. E’ un’immagine paradossale che sorprende sempre, anche se Gesù non è né il primo né l’unico a utilizzarla per indicare la quasi impossibilità di realizzare qualcosa. Esiste ad esempio un altro detto ebraico della stessa epoca, che troviamo nel Talmud di Babilonia, che parla di un elefante che passa per la cruna di un ago. Sicuramente l’immagine colpisce, anzi è shoccante, ma Gesù l’utilizza per mettere in guardia: è veramente difficile per chi ha il cuore appesantito da preoccupazioni materiali entrare nella logica del regno di Dio. L’attaccamento al benessere materiale, a ciò che possediamo finisce per farci sentire autosufficienti e facilmente ne diventiamo posseduti, perdendo l’opportunità di scoprire la bellezza della vita come dono. Tuttavia ciò che per gli uomini è impossibile diventa possibile a Dio e se lui può tutto, possiede anche ogni mezzo per salvarci: solo lui può e vuole salvarci perché salvarsi non è né facile né difficile: è assolutamente impossibile all’uomo. La salvezza non si acquista, è dono.
3. A questo punto Pietro prende la parola a nome di tutti: “Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”. Il passo necessario per. entrare nel Regno dei cieli lo abbiamo compiuto e ci siamo liberati di tutto, quindi meritiamo certamente qualcosa. Gesù li prende in parola e annuncia che hanno diritto alla ricompensa, ma questa ricompensa costa dolore e fatica: è la persecuzione seguendo le orme del Maestro perché la missione del discepolo conoscerà lo stesso mistero della croce, unico cammino di liberazione e di salvezza. Non vuole scoraggiarli e promette molto più di quanto hanno abbandonato per seguirlo: il centuplo di tutto, eccetto che per quanto riguarda il padre perché chi lascia tutto per seguire Gesù scopre il volto dell’unico Padre che è nei cieli. Il Padre ci attende nella vita eterna come dono e non come ricompensa. In definitiva staccarsi da tutto pone nel cuore umano le radici più profonde della speranza che spalanca le porte del cielo. Mi torna in mente in proposito una frase di Georges Bernanos, tratta dal celebre romanzo “Diario di un parroco di campagna” in cui esplora i temi della fede, della sofferenza e della speranza. Egli scrive: “credo proprio che il mondo sarà salvato dai poveri. Questi poveri ci sono solo che li conosciamo male perché si conoscono male anche tra di loro. Non hanno fatto alcun voto di povertà: è il buon Dio che glielo ha fatto, a loro insaputa. I poveri hanno il segreto della speranza”. Gesù è modello della povertà che incoraggia ad abbracciare, a servire e amare i poveri che diventano, come insegna san Vincenzo de Paoli “i nostri padroni” e san Luigi Orione aggiunge: “e noi i loro servitori” perché essi vivono concretamente, senza spesso rendersene conto, il dono della speranza e, oppressi dalle fatiche di questa vita terrena, attendono con fiducia il paradiso. “Tale povero – scrive Bernanos – mangia ogni giorno nella mano di Dio”.
+ Giovanni D’Ercole
Fiamma e Pace, Immersione e divisione. Non quietismo tattico
(Lc 12,49-53)
La differenza tra religiosità e Fede si rende palese nella comparazione tra la mentalità che identifica il Fuoco biblico con il castigo, e quella d’una sacra Fiamma riversata con passione d’amore (v.49) che evoca il Dono a nostro favore.
Francesco proclamava: «Laudato sie, mi Signore, per frate focu,/ per lo quale ennalumini la notte:/ et ello è bello e iocundo/ et robustoso et forte».
Per il Poverello d’Assisi il fuoco era elemento «nobile e utile fra le creature dell’Altissimo» [Legenda antiqua].
Egli aveva con «frate focu» uno sconcertante rapporto di cortesia. Certo esso non scacciava la notte allo stesso modo del Sole, ma vi portava luce.
Invece la vampa dei discepoli non era granché: Giacomo e Giovanni volevano che incenerisse avversari o malcapitati (Lc 9,54).
Prima di Gesù, Giovanni il battezzatore attendeva ancora un Messia che immergesse tutti in un falò divoratore e giustiziere (Lc 3,17).
L’incendio della Fede annunciata dalla Persona e dall’attività del Figlio non consuma, non corrode; è viceversa come un Pane: pienezza di energia per una ‘vita’ completa, non elemento distruttivo o separatore.
Tutto ciò fa Rinascere persone, rapporti e realtà circostante. Modifica la nostra Relazione con Dio, con noi stessi e il prossimo. Tale la ‘divisione’ proclamata (v.51): il discrimine della nostra Chiamata.
Nella devozione comune l’errore di valutazione o la condizione di debolezza è considerata un’infermità, da additare, correggere, punire.
Le “impurità” non andrebbero ‘fuse’ nel Fuoco divino e provvidente: solo normalizzate secondo ataviche prescrizioni, o idee sofisticate à la page.
Per la vita nello Spirito, viceversa, l’attenzione è altrove: le oscillazioni personali diventano possibilità; gli abbattimenti una nuova Forza.
Senso d’incapacità, insuccesso e impedimenti suscitano intensità, scambio, dialogo, nuove elaborazioni, ricerca di altri processi.
La Fede si accende onda su onda, nell’accogliere e corrispondere Dio che si rivela, chiama e ancora propone - addirittura mescolanze trasversali, che impigliano i purismi.
Sono Alimento e Fiamma anche le nostre situazioni insoddisfacenti: i macigni che sembravano schiacciare e ci facevano negativi vengono assunti, diventano benzina che proietta.
«Incarnazione» è il recupero dei lati opposti: l’imperfezione diventa una molla, coi suoi Tesori che non vediamo, nascosti dietro lati oscuri.
Sono quei versanti che poi domineranno il nostro Desiderio.
In tal guisa, il Battesimo non è una rubrica o una mano di grigio e d’opinione comune, né un congegno che marchia, mettendo immediatamente all’angolo personalità e tensioni - bensì una Immersione (v.50 testo greco).
Accudendo le parti trascurate e fondendo i lati estranei o difformi, dall’esteriorità delle cose siamo riportati all’Origine di quanto accade.
[Giovedì 29.a sett. T.O. 24 ottobre 2024]
Fiamma e Pace, Immersione e divisione. Non quietismo tattico
(Lc 12,49-53)
«Sono venuto a gettare un fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già divampato!» (Lc 12,49).
La differenza tra religiosità e Fede si rende palese nella comparazione tra la mentalità che identifica il Fuoco biblico con il castigo, e quella d’una sacra Fiamma riversata con passione d’amore (v.49) che evoca il Dono a nostro favore.
Francesco proclamava: «Laudato sie, mi Signore, per frate focu,/ per lo quale ennalumini la notte:/ et ello è bello e iocundo/ et robustoso et forte».
Per il Poverello d’Assisi il fuoco era elemento «nobile e utile fra le creature dell’Altissimo» [Legenda antiqua].
Egli aveva con «frate focu» uno sconcertante rapporto di cortesia. Certo esso non scacciava la notte allo stesso modo del Sole, ma vi portava luce.
Invece la vampa dei discepoli non era granché: Giacomo e Giovanni volevano che incenerisse avversari o malcapitati (Lc 9,54).
Prima di Gesù, Giovanni il battezzatore attendeva ancora un Messia che immergesse tutti in un falò divoratore e giustiziere (Lc 3,17).
Nel passo ad es. di Mt 19,13-15 la medesima tematica si confonde con l’ardore purista e fondamentalista degli apostoli che a tutti i costi volevano distaccare Gesù dai suoi diletti, i quali non avevano la minima intenzione di stare sottomessi.
L’incendio della Fede annunciata dalla Persona e dall’attività del Figlio non consuma, non corrode; è viceversa come un cibo: pienezza di energia per una vita completa, non elemento distruttivo o separatore.
Tutto ciò fa rinascere persone, rapporti e realtà circostante. Modifica la nostra Relazione con Dio, con noi stessi e il prossimo. Tale la divisione proclamata (v.51): il discrimine della nostra Chiamata.
Nella devozione comune l’errore di valutazione o la condizione di debolezza è considerata un’infermità, da additare, correggere, punire.
Dottrina e disciplina costituiscono l’armatura esteriore delle coscienze, e il culto le celebra e inculca [non di rado, in modo conformista e scadente, sebbene pretenzioso].
Le “impurità” non andrebbero “fuse” nel Fuoco divino e provvidente: solo normalizzate secondo ataviche prescrizioni, o idee sofisticate à la page.
Per la vita nello Spirito, viceversa, l’attenzione è altrove: le oscillazioni personali diventano possibilità; gli abbattimenti una nuova Forza.
Senso d’incapacità, insuccesso e impedimenti suscitano intensità, scambio, dialogo, nuove elaborazioni, ricerca di altri processi; anche rabbie di sdegno che divampano e stimolano al riscatto.
La Fede si accende onda su onda, nell’accogliere e corrispondere Dio che si rivela, chiama e ancora propone - addirittura mescolanze trasversali, che impigliano i purismi astratti.
«Sogniamo come un’unica umanità» - sottolinea l'enciclica Fratelli Tutti (n.8), gioendo «per la diversità» che ci abita (cf. n.10).
Nell’imperfezione di situazioni critiche, il Padre non ci scaglia addosso pietre, ma Pane [non raffermo - come nelle ideologie antiche].
Sono Alimento e Fiamma anche le nostre situazioni insoddisfacenti: i macigni che sembravano schiacciare e ci facevano negativi vengono assunti, diventano benzina che proietta; giubilo, che - invece di “sistemarci” - fa crescere ancora.
Chiamati a collaborare, partecipiamo alla stessa azione creatrice, gratuita e rallegrante del Signore.
Egli orienta alla Pace inedita della completezza in divenire, dell’umanizzazione a tutto tondo ancora da acquisire.
Il Disegno d’Amore evolve e irrobustisce attraverso eventi concreti, non escluse le coinvolgenti dinamiche che scaturiscono dalla consapevolezza del proprio confine - di cui non va fatta piazza pulita.
La Fede non crea idoli disgreganti, che parificano eccentricità e peccato, solo vi posa lo sguardo per capire, lasciando che si sciolgano e sboccino da quel magma energetico plasmabile, trasfigurandoci.
Per le credenze vetuste era inimmaginabile che l’Altissimo non provasse ripugnanza della nostra condizione - e proprio sulle pieghe della precarietà carnale volesse edificare una storia di salvezza.
Invece il Figlio ci è complice. Strizza l’occhiolino persino a quegli aspetti che lo sguardo conformista gabella come squilibri, disturbi, malattie.
Vuol fare di ciascuno di noi non un censore o un buonista, bensì un irripetibile capolavoro - non costruito in provetta, ma che non t’aspetti.
Il Signore non standardizza né sterilizza, pretendendo recite o scalate fuori natura. È Lui che si umanizza - persino nelle nostre stranezze.
Si riconosce in ciò ch’è impastato di attese e sudori, sebbene ritenuto sconveniente per l’uomo [anche devoto, o viceversa, sofisticato] che brama innalzarsi.
Ci sentiamo accasati e “arrivati”? Solo qui non c’è ‘fuoco’, passione, scoperta, genesi, né terapia - e non siamo neanche alle soglie della Fede.
«Incarnazione» è il recupero dei lati opposti: l’imperfezione diventa una molla, coi suoi Tesori che non vediamo, nascosti dietro lati oscuri.
Sono quei versanti che poi domineranno il nostro Desiderio.
Questa è tutta la partita: si parte da dove siamo, e l'attenzione alle occasioni del presente scorretto - che non bisogna precipitarsi a disinfettare - ci farà trasalire per la vita inattesa che lì ri-sorge.
La Fiamma dello Spirito che sta edificando la Novità di Dio si annida nelle braci e nei lati ritenuti inconcludenti o contrapposti - non colloca se stessa in vetrina per soffocare subito l’istinto.
Così la Chiesa: non “funzionale”, bensì capace di dare vita. Regno e territorio non segnati da pacifismo tattico, che anestetizza.
In tal guisa, il Battesimo non è una rubrica o una mano di grigio e d’opinione comune, né un congegno che marchia, mettendo immediatamente all’angolo personalità e tensioni - bensì una Immersione (v.50 testo greco).
«Ora, perché non giudicate anche da voi stessi ciò che è giusto?» (v.57).
In Cristo abbiamo capacità di pensiero e veniamo fatti autonomi, per una fraternità solida con noi stessi, che si è ‘fermata’ - e che si dispiega rivitalizzando l’Unicità.
Accudendo le parti trascurate e fondendo i lati estranei o difformi, dall’esteriorità delle cose siamo riportati all’Origine di quanto accade.
C’è un’espressione di Gesù, nel Vangelo di questa domenica, che attira ogni volta la nostra attenzione e richiede di essere ben compresa. Mentre è in cammino verso Gerusalemme, dove lo attende la morte di croce, Cristo confida ai suoi discepoli: "Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione". E aggiunge: "D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera" (Lc 12,51-53). Chiunque conosca minimamente il Vangelo di Cristo, sa che è messaggio di pace per eccellenza; Gesù stesso, come scrive san Paolo, "è la nostra pace" (Ef 2,14), morto e risorto per abbattere il muro dell’inimicizia e inaugurare il Regno di Dio che è amore, gioia e pace. Come si spiegano allora queste sue parole? A che cosa si riferisce il Signore quando dice di essere venuto a portare – secondo la redazione di san Luca – la "divisione", o – secondo quella di san Matteo – la "spada" (Mt 10,34)?
Questa espressione di Cristo significa che la pace che Egli è venuto a portare non è sinonimo di semplice assenza di conflitti. Al contrario, la pace di Gesù è frutto di una costante lotta contro il male. Lo scontro che Gesù è deciso a sostenere non è contro uomini o poteri umani, ma contro il nemico di Dio e dell’uomo, Satana. Chi vuole resistere a questo nemico rimanendo fedele a Dio e al bene deve necessariamente affrontare incomprensioni e qualche volta vere e proprie persecuzioni. Perciò, quanti intendono seguire Gesù e impegnarsi senza compromessi per la verità devono sapere che incontreranno opposizioni e diventeranno, loro malgrado, segno di divisione tra le persone, addirittura all’interno delle loro stesse famiglie. L’amore per i genitori infatti è un comandamento sacro, ma per essere vissuto in modo autentico non può mai essere anteposto all’amore di Dio e di Cristo. In tal modo, sulle orme del Signore Gesù, i cristiani diventano "strumenti della sua pace", secondo la celebre espressione di san Francesco d’Assisi. Non di una pace inconsistente e apparente, ma reale, perseguita con coraggio e tenacia nel quotidiano impegno di vincere il male con il bene (cfr Rm 12,21) e pagando di persona il prezzo che questo comporta.
La Vergine Maria, Regina della Pace, ha condiviso fino al martirio dell’anima la lotta del suo Figlio Gesù contro il Maligno, e continua a condividerla sino alla fine dei tempi. Invochiamo la sua materna intercessione, perché ci aiuti ad essere sempre testimoni della pace di Cristo, mai scendendo a compromessi con il male.
[Papa Benedetto, Angelus 19 agosto 2007]
Jesus has forever interrupted the succession of ferocious empires. He turned the values upside down. And he proposes the singular work - truly priestly - of the journey of Faith: the invitation to question oneself. At the end of his earthly life, the Lord is Silent, because he waits for everyone to pronounce, and choose
Gesù ha interrotto per sempre il susseguirsi degli imperi feroci. Ha capovolto i valori. E propone l’opera singolare - davvero sacerdotale - del cammino di Fede: l’invito a interrogarsi. Al termine della sua vicenda terrena il Signore è Silenzioso, perché attende che ciascuno si pronunci, e scelga
The Sadducees, addressing Jesus for a purely theoretical "case", at the same time attack the Pharisees' primitive conception of life after the resurrection of the bodies; they in fact insinuate that faith in the resurrection of the bodies leads to admitting polyandry, contrary to the law of God (Pope John Paul II)
I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio (Papa Giovanni Paolo II)
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Today, as yesterday, the Church needs you and turns to you. The Church tells you with our voice: don’t let such a fruitful alliance break! Do not refuse to put your talents at the service of divine truth! Do not close your spirit to the breath of the Holy Spirit! (Pope Paul VI)
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! (Papa Paolo VI)
Sometimes we try to correct or convert a sinner by scolding him, by pointing out his mistakes and wrongful behaviour. Jesus’ attitude toward Zacchaeus shows us another way: that of showing those who err their value, the value that God continues to see in spite of everything (Pope Francis)
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che continua a vedere malgrado tutto (Papa Francesco)
Deus dilexit mundum! God observes the depths of the human heart, which, even under the surface of sin and disorder, still possesses a wonderful richness of love; Jesus with his gaze draws it out, makes it overflow from the oppressed soul. To Jesus, therefore, nothing escapes of what is in men, of their total reality, in which good and evil are (Pope Paul VI)
don Giuseppe Nespeca
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