Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Ecclesiologia assente
(Mc 9,38-40)
Non è strano che la santa Inquisizione sia nata nel tempo di una ecclesiologia assente.
Il ‘lievito’ dei farisei e di Erode (Mc 8,14) porta anche i discepoli diretti di Cristo a una mentalità sigillata - secondo la quale se qualcuno “non è dei nostri” [«non ‘ci’ seguiva» v.38] dev’essere emarginato.
Non c’è nessun criterio banale che porga l’imprimatur di poter discriminare “fedeli” e “non”.
Vale: quanto conta la Persona del Figlio dell’uomo, per la nostra vita e nelle scelte quotidiane?
Per il Signore ciò che conta non è l’appartenenza formale - che tende a omologare.
Vediamo infatti che proprio le situazioni fuori le righe diventano pungolo: sollecitano i ‘cristiani’ scialbi e opachi a farsi Seme.
Così, anche la “comunità” non è importante perché si ritiene tale.
La chiamata universale alla promozione dell’umanità è divina: ricchezza che sorvola gli ostacoli, patrimonio di gioia da qualsiasi parte provenga.
Se relegata e stretta negli schedari, la storia della Salvezza non si fa vita da salvati.
«Ma Gesù disse: Non glielo impedite. Infatti non c’è nessuno che faccia una meraviglia potente nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me» (v.39).
Con i suoi intimi, il Maestro non usa un linguaggio diplomatico [espressioni attente a non offendere la loro suscettibilità di esperti].
La formazione dei discepoli è essenziale alla costruzione del Regno dai larghi confini, anzitutto mentali.
Nelle religioni esoteriche esistono modelli. Qui no, solo carismi, anche personalissimi - condizione dell’amore vero.
Siamo governati da Dio solo - unico a sapere quel che suscita in ciascuno, e ‘dove andare’.
Gesù è rivelatore e cardine di questa Notizia lieta, impensabile: ma nel senso di Motivo e Motore intimo, del tutto non esteriore - che chiama la persona nel modo che agli altri pare incomprensibile.
Cristo marca la sua Amicizia nella vita dei credenti, quale centro e asse. Eppure sono moltissimi i gesti e le sensibilità che il mondo nuovo suscita, e parimenti segnano la sua Presenza.
Né si stanca di ripetere ciò che non desideriamo capire.
Ordina solo di ‘percepire’ bene la realtà (Mc 8,27-29) dove si annida il segreto di Dio - che il pensiero conformista non riesce neanche lontanamente a immaginare (Mc 8,30-35).
Lo standard non ha peso specifico per l’eccedenza dell'avventura di Fede.
Lo squilibrio dell’amore è personale: serenamente ammette la diversità e l’incremento eccentrico di vita che ne sussegue.
È tale la nuova coscienza della Missione fatta nell’Ascolto, e nel rispetto non solo nei confronti dell’intelligenza e cultura altrui, ma anche di se stessi.
Nessuno ha il monopolio della Grazia: motivo per non rattrappire il cuore sui canoni o sulle mode.
Nella verità del Bene, il senso di proprietà è fuori luogo.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Che peso hanno su di te gli interessi materiali, le vuote rigidezze, o le fantasie senza nerbo, di chi (senza neppure aver titolo) scimmiotta piccole gerarchie e fulmina i diversi con mediocri sentenze impersonali?
Come vivi la Parola: «Chi non è contro, è per»?
[Mercoledì 7.a sett. T.O. 26 febbraio 2025]
Il Vangelo di questa domenica presenta uno di quegli episodi della vita di Cristo che, pur essendo colti, per così dire, en passant, contengono un profondo significato (cfr Mc 9,38-41). Si tratta del fatto che un tale, che non era dei seguaci di Gesù, aveva scacciato dei demoni nel suo nome. L’apostolo Giovanni, giovane e zelante come era, vorrebbe impedirglielo, ma Gesù non lo permette, anzi, prende spunto da quella occasione per insegnare ai suoi discepoli che Dio può operare cose buone e persino prodigiose anche al di fuori della loro cerchia, e che si può collaborare alla causa del Regno di Dio in diversi modi, anche offrendo un semplice bicchiere d’acqua ad un missionario (v. 41). Sant’Agostino scrive a proposito: «Come nella Cattolica – cioè nella Chiesa – si può trovare ciò che non è cattolico, così fuori della Cattolica può esservi qualcosa di cattolico» (Agostino, Sul battesimo contro i donatisti: PL 43, VII, 39, 77). Perciò, i membri della Chiesa non devono provare gelosia, ma rallegrarsi se qualcuno esterno alla comunità opera il bene nel nome di Cristo, purché lo faccia con intenzione retta e con rispetto. Anche all’interno della Chiesa stessa, può capitare, a volte, che si faccia fatica a valorizzare e ad apprezzare, in uno spirito di profonda comunione, le cose buone compiute dalle varie realtà ecclesiali. Invece dobbiamo essere tutti e sempre capaci di apprezzarci e stimarci a vicenda, lodando il Signore per l’infinita ‘fantasia’ con cui opera nella Chiesa e nel mondo.
Nella Liturgia odierna risuona anche l’invettiva dell’apostolo Giacomo contri i ricchi disonesti, che ripongono la loro sicurezza nelle ricchezze accumulate a forza di soprusi (cfr Gc 5,1-6). Al riguardo, Cesario di Arles così afferma in un suo discorso: «La ricchezza non può fare del male a un uomo buono, perché la dona con misericordia, così come non può aiutare un uomo cattivo, finché la conserva avidamente o la spreca nella dissipazione» (Sermoni 35, 4). Le parole dell’apostolo Giacomo, mentre mettono in guardia dalla vana bramosia dei beni materiali, costituiscono un forte richiamo ad usarli nella prospettiva della solidarietà e del bene comune, operando sempre con equità e moralità, a tutti i livelli.
Cari amici, per intercessione di Maria Santissima, preghiamo affinché sappiamo gioire per ogni gesto e iniziativa di bene, senza invidie e gelosie, e usare saggiamente dei beni terreni nella continua ricerca dei beni eterni.
[Papa Benedetto, Angelus 30 settembre 2012]
Il testo di questa Via Crucis è stato scritto da un cristiano laico, membro della Chiesa Ortodossa. Questo laico sente di essere uno qualunque, ed ha accettato l'invito con molta emozione e riconoscenza per almeno due motivi principali.
Prima di tutto, perché sul cammino verso il Golgota non ci può più essere alcuna separazione. La morte d'amore del Cristo rende irrisorio ogni atteggiamento che non sia di penitenza e di riconciliazione.
In secondo luogo, perché scrivere una Via Crucis, significa meditare, attraverso una strana esperienza mistica, le parole e i gesti del Dio fatto uomo nel momento in cui assume fino in fondo la nostra condizione, per conoscere dal di dentro la morte e aprirla alla risurrezione.
Esistono, come si è potuto costatare negli ultimi anni, due versioni della Via Crucis. La più recente cita e commenta soltanto testi del vangelo. Quella più antica aggiunge delle stazioni nate dalla sensibilità medievale, soprattutto francescana: quali le tre cadute di Gesù, oppure il suo incontro con la Veronica, scene che sono commentate con testi dell'Antico Testamento.
Tanti dipinti o sculture che si succedono sui muri delle chiese, in Europa occidentale ed oramai dappertutto nel mondo, tante cappelle e tante croci erette lungo i sentieri dei pellegrinaggi, sulle montagne, hanno reso familiari a tutti le rappresentazioni di queste scene della Via Crucis. E per questo il commentatore ha preferito seguire la forma tradizionale, per entrare pienamente e senza nulla perdere della propria visione della redenzione, nella sensibilità del mondo cattolico.
Si ripete spesso che l'Occidente cristiano aveva messo l'accento sul Venerdì Santo e l'Oriente sulla Pasqua. Ciò sarebbe dimenticare che la Croce e la Risurrezione sono inseparabili, come sottolinea questo commento. Gli stigmatizzati del mondo cattolico sapevano (e sanno) che il sangue che scorre dalle loro piaghe è un sangue di luce, e gli ortodossi, celebrando durante i Vespri del Venerdì Santo l'ufficio delle « sante sofferenze », oppure affermando che ogni uomo di preghiera e di compassione è uno stauroforo, cioè un « portatore della Croce », hanno sempre capito che soltanto la Croce è portatrice di risurrezione.
Per un ortodosso, entrare nella spiritualità francescana della Via Crucis, era tentare di sottolinearne la profondità non solo umana ma divino-umana. Perché è Dio stesso che sul Golgota soffre umanamente le nostre agonie disperate per aprirci cammini (forse inattesi) di risurrezione.
L'epoca moderna, come si sa, ha intentato un processo accanito e senza pietà contro Dio, sia Egli l'onnipotente, nel senso umano della parola (allora perché il mondo è assurdo e cattivo?), sia Egli Colui che ci ha creati liberi, ma sapendo che cosa avremmo fatto della nostra libertà. Bisognava far vedere — tentare di far vedere — che all'insolubile questione del male, l'unica risposta è appunto la Via Crucis.
Dio scende volontariamente nel male, nella morte, — un male e una morte di cui non è affatto responsabile, di cui forse non ha neanche l'idea, come ha detto un teologo contemporaneo — scende per frapporsi per sempre fra il nulla e noi, per farci sentire, farci vivere, che al fondo delle cose, non c'è il nulla, ma l'amore.
Dio al di là di Dio, questo « oceano della limpidezza », e questo uomo coperto di sangue e di sputi che barcolla e cade sotto il peso di tutte le nostre croci, è lo stesso, sì veramente è lo stesso nella sua trascendenza e nella sua « follia d'amore ». Tale antinomia fa l'inimmaginabile originalità del cristianesimo. La sofferenza del corpo, la derisione sociale, la disperazione dell'anima abbandonata, tutto si concentra affinché Dio si riveli qui, non come pienezza che schiaccia, giudica e condanna, ma come apertura senza limite di amore nel rispetto senza limite della nostra libertà.
Ecco che la distanza impensabile fra Dio e il Crocifisso — « Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? » — si riempie tutto ad un tratto del soffio dello Spirito, del soffio della risurrezione.
Si apre l'ultima tappa della storia umana e del divenire del cosmo: nel sangue che sgorga dal costato trafitto del Cristo, il fuoco che egli è venuto a gettare sulla terra brucia ormai, questo fuoco dello Spirito Santo che feconda la nostra libertà affinché diventi capace di cambiare in risurrezione la lunga passione della storia. Effusione di pace e di luce che non può appunto manifestarsi se non attraverso questa libertà che egli libera e che lo libera...
Da qui viene senza dubbio l'ultima caratteristica di questa Via Crucis ripresa nella sua forma tradizionale: il ruolo più grande delle donne, le uniche rimaste fedeli, a parte Giovanni, le più esposte, le più capaci di amore. Come dimostra il gesto della Veronica che asciuga il Volto di Cristo con un velo sul quale esso si imprime e si trasmette alle nostre chiese: tanti Santo Volto in cui si mostra nella sua pasta umana il volto di Dio, affinché noi possiamo vedere in Dio ogni volto umano.
[Olivier Clément, presentazione Via Crucis 10 aprile 1998]
Il Vangelo della Liturgia odierna ci racconta un breve dialogo tra Gesù e l’Apostolo Giovanni, che parla a nome di tutto il gruppo dei discepoli. Essi hanno visto un uomo che scacciava i demoni nel nome del Signore, ma glielo hanno impedito perché non faceva parte del loro gruppo. Gesù, a questo punto, li invita a non ostacolare chi si adopera nel bene, perché concorre a realizzare il progetto di Dio (cfr Mc 9,38-41). Poi ammonisce: invece di dividere le persone in buone e cattive, tutti siamo chiamati a vigilare sul nostro cuore, perché non ci succeda di soccombere al male e di dare scandalo agli altri (cfr vv. 42-45.47-48).
Le parole di Gesù svelano insomma una tentazione e offrono un’esortazione. La tentazione è quella della chiusura. I discepoli vorrebbero impedire un’opera di bene solo perché chi l’ha compiuta non apparteneva al loro gruppo. Pensano di avere “l’esclusiva su Gesù” e di essere gli unici autorizzati a lavorare per il Regno di Dio. Ma così finiscono per sentirsi prediletti e considerano gli altri come estranei, fino a diventare ostili nei loro confronti. Fratelli e sorelle, ogni chiusura, infatti, fa tenere a distanza chi non la pensa come noi e questo – lo sappiamo – è la radice di tanti mali della storia: dell’assolutismo che spesso ha generato dittature e di tante violenze nei confronti di chi è diverso.
Ma occorre anche vigilare sulla chiusura nella Chiesa. Perché il diavolo, che è il divisore – questo significa la parola “diavolo”, che fa la divisione – insinua sempre sospetti per dividere ed escludere la gente. Tenta con furbizia, e può succedere come a quei discepoli, che arrivano a escludere persino chi aveva cacciato il diavolo stesso! A volte anche noi, invece di essere comunità umili e aperte, possiamo dare l’impressione di fare “i primi della classe” e tenere gli altri a distanza; invece che cercare di camminare con tutti, possiamo esibire la nostra “patente di credenti”: “io sono credente”, “io sono cattolico”, “io sono cattolica”, “io appartengo a questa associazione, all’altra…”; e gli altri poveretti no. Questo è un peccato. Esibire la “patente di credenti” per giudicare ed escludere. Chiediamo la grazia di superare la tentazione di giudicare e di catalogare, e che Dio ci preservi dalla mentalità del “nido”, quella di custodirci gelosamente nel piccolo gruppo di chi si ritiene buono: il prete con i suoi fedelissimi, gli operatori pastorali chiusi tra di loro perché nessuno si infiltri, i movimenti e le associazioni nel proprio carisma particolare, e così via. Chiusi. Tutto ciò rischia di fare delle comunità cristiane dei luoghi di separazione e non di comunione. Lo Spirito Santo non vuole chiusure; vuole apertura, comunità accoglienti dove ci sia posto per tutti.
[Papa Francesco, Angelus 26 settembre 2021]
[Transitorietà dell’Istituzione? E la compattezza? E l’espansione?]
(Mc 9,30-37)
«Un bambino giocava a fare il prete insieme a un coetaneo, sulle scale della sua casa. Tutto andò bene finché il suo piccolo amico, stufo di fare solo il chierichetto, salì su un gradino più alto e cominciò a predicare. Il bambino lo rimproverò bruscamente: ‘Posso predicare soltanto io! Tu non puoi predicare! Tocca a me! Rovini il gioco, sei cattivo!’. Richiamata dagli strilli, intervenne la mamma e spiegò al bambino che per dovere di ospitalità doveva permettere all’altro di predicare. A questo punto il bambino s’imbronciò per un attimo, poi illuminandosi salì sul gradino più alto e rispose: ‘Va bene, lui può continuare a predicare, ma io farò Dio’ [...]».
(B. Ferrero, La Scala, in: C’è Qualcuno Lassù?, p.24)
La mentalità delle precedenze e della supremazia era radicata al punto che anche in Paradiso si diceva esistessero le gerarchie.
Ma «Figlio dell’uomo» designa già dall’AT il carattere d’una santità che supera la fiction antica dei dominatori, i quali si accavallavano uno sull’altro recitando lo stesso copione.
Invece nel Regno di Gesù devono mancare i ranghi - per questo il piano degli Apostoli più ambiziosi non collima col suo.
«Figlio dell’uomo» è la persona secondo un criterio di umanizzazione, non una belva che prevale perché più forte delle altre (Dan 7).
Ciascun uomo col cuore di carne - non di bestia, né di pietra - s’identifica spontaneamente con il «paidìon» (vv.36-37): un servetto di casa, il garzone di bottega.
Il termine [diminutivo] designa la persona sempre attenta ai bisogni dell’altro, che mette se stessa a disposizione.
Allude appunto alla dimensione di santità trasmissibile a chiunque, ma creativa come l’amore, quindi tutta da scoprire!
Gesù abbraccia un ragazzino di 8-12 anni che a quel tempo non contava nulla - appunto, un valletto di casa, un inserviente di bottega.
È l’unica identificazione che Gesù ama e desidera consegnarci.
«Se qualcuno vuole essere primo» (v.35): il Maestro non esclude il nostro diritto a fare qualcosa di grande... ma non lo identifica con l’avere, il potere e l’apparire.
Conta piuttosto sulla nostra libertà di donare, scendere e servire - una franchigia affidata anzitutto ai primi della classe (vv.31-35).
Il Signore ci fa riflettere sull’autentica realizzazione.
Non si tratta d’una conquista esteriore, ma intima e fatta propria.
Essa è in grado così di scolpire la nostra identità profonda, nella sua ricchezza di volti e nel tempo di un Percorso.
Aristotele affermava che - al di là di petizioni di principio artificiali o proclami apparenti - si ama davvero solo se stessi. È un punto di domanda non da poco.
Ammesso e non concesso, la crescita, promozione e fioritura delle nostre qualità si colloca all’interno d’una Via sapiente, d’un sentiero persino interrotto che sa concedersi il giusto ritmo - anche per incontrare nuovi stati dell’essere.
L’amore genuino e maturo dilata i confini dell’ego amante del primato, della visibilità e del tornaconto, comprendendo il Tu nell’io.
Itinerario e Vettore che poi espande le capacità e la vita. Altrimenti in ogni circostanza e purtroppo a qualsiasi età rimarremo nel gioco puerile di chi sgomita sui gradini per prevalere.
Come ha detto Papa Francesco circa i fenomeni mafiosi: «C’è bisogno di uomini e donne di Amore, non di onore!».
Scrive il Tao Tê Ching (XL): «La debolezza è quel che adopra il Tao». E il maestro Wang Pi commenta: «L’alto ha per basamento il basso, il nobile ha per fondamento il vile».
Così il ‘personale’ sfocia nel plurale e globale.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Nell’equilibrio di natura, hai mai visto una pianta che vive solo alla luce? O una creatura che non avesse il suo rifugio in ombra?
[Martedì 7.a sett. T.O. 25 febbraio 2025]
(Mc 9,30-37)
«Un bambino giocava a fare il prete insieme a un coetaneo, sulle scale della sua casa. Tutto andò bene finché il suo piccolo amico, stufo di fare solo il chierichetto, salì su un gradino più alto e cominciò a predicare. Il bambino lo rimproverò bruscamente: ‘Posso predicare soltanto io! Tu non puoi predicare! Tocca a me! Rovini il gioco, sei cattivo!’. Richiamata dagli strilli, intervenne la mamma e spiegò al bambino che per dovere di ospitalità doveva permettere all’altro di predicare. A questo punto il bambino s’imbronciò per un attimo, poi illuminandosi salì sul gradino più alto e rispose: ‘Va bene, lui può continuare a predicare, ma io farò Dio’ [...]».
(B. Ferrero, La Scala, in: C’è Qualcuno Lassù?, p.24)
La mentalità delle precedenze e della supremazia era radicata al punto che anche in Paradiso si diceva esistessero le gerarchie.
Ma «Figlio dell’uomo» designa già dall’AT il carattere d’una santità che supera la fiction antica dei dominatori, i quali si accavallavano uno sull’altro recitando lo stesso copione.
La massa permaneva a bocca asciutta: qualsiasi fosse il sovrano che s’impadroniva del potere, la folla minuta restava sottomessa e soffocata.
Identica norma vigeva nelle religioni, i cui capi elargivano al popolo una forte pulsione da orda e il contentino dei gregari.
Invece nel Regno di Gesù devono mancare i ranghi - per questo il piano degli Apostoli più ambiziosi non collima col suo.
«Figlio dell’uomo» è la persona secondo un criterio di umanizzazione, non una belva che prevale perché più forte delle altre (Dan 7).
Ciascun uomo col cuore di carne - non di bestia, né di pietra - s’identifica spontaneamente con il «paidìon» (vv.36-37): un servetto di casa, il garzone di bottega.
Il termine (diminutivo) designa la persona sempre attenta ai bisogni dell’altro, che mette se stessa a disposizione.
Allude appunto alla dimensione di santità trasmissibile a chiunque, ma creativa come l’amore, quindi tutta da scoprire!
Nei Vangeli, il Figlio dell’uomo - lo sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità - non è ostacolato dai frequentatori dei luoghi di malaffare, ma dagli habitué dei recinti sacri.
La crescita e umanizzazione del popolo non è contrastata dai “peccatori”, ma proprio da coloro che avrebbero il ministero di far conoscere a tutti il Volto di Dio!
Gesù abbraccia un ragazzino di 8-12 anni che a quel tempo non contava nulla - appunto, un valletto di casa, un inserviente di bottega.
È l’unica identificazione che Gesù ama e desidera consegnarci: quella con colui che non può permettersi di non riconoscere le esigenze altrui.
Dimensione di santità senza aureole distintive: condivisibile, perché legata all’empatia, alla spontanea amicizia verso la donna e l’uomo.
Ovvio: non si tratta d’una proposta compromessa con la religione dottrina e disciplina che ricaccia indietro le eccentricità: assai più simpatica e amabile.
Quella del Figlio dell’uomo è la santità che ci rende unici, non che sta sempre ad aborrire ed esorcizzare il pericolo dell’inconsueto.
Proprio per questo - invece - la fissazione sulle antecedenze ha caratterizzato per secoli la vita della Chiesa; così come l’idolo feudale e monarchico della stabilità piramidale a vita.
«Se qualcuno vuole essere primo» (v.35): il Maestro non esclude il nostro diritto a fare qualcosa di grande... ma non lo identifica con l’avere, il potere e l’apparire.
Per un cammino di Beatitudine, Egli non eccita le pulsioni del trattenere, salire e dominare: non danno Felicità.
Conta piuttosto sulla nostra libertà di donare, scendere e servire - una franchigia affidata anzitutto ai primi della classe (vv.31-35) che hanno fatto il callo a soverchiare gli altri di moralismi e sentenze.
Dio non rinnega le legittime pulsioni dell’io a essere riconosciuto. Non partecipiamo alla vita come dei destinati al fallimento, bensì come dei promossi - che non sopprimono i propri requisiti.
Ma non per vincere la gara. Il Signore ci fa riflettere sull’autentica realizzazione.
Non si tratta d’una conquista esteriore ma intima e fatta propria. Essa è in grado così di scolpire il nostro carattere profondo, nella sua ricchezza di volti e nel tempo di un Percorso.
Aristotele affermava che - al di là di petizioni di principio artificiali o proclami apparenti - si ama davvero solo se stessi. È un punto di domanda non da poco.
Ammesso e non concesso, la crescita, promozione e fioritura delle nostre qualità si colloca all’interno d’una Via sapiente, d’un sentiero (persino interrotto) che sa concedersi il giusto ritmo - anche per incontrare nuovi stati dell’essere.
L’amore genuino e maturo dilata i confini dell’ego amante del primato, della visibilità e del tornaconto, comprendendo il Tu nell’io.
Itinerario e Vettore che poi espande le capacità e la vita. Altrimenti in ogni circostanza e purtroppo a qualsiasi età rimarremo nel gioco puerile di chi sgomita sui gradini per prevalere.
Come ha detto Papa Francesco circa i fenomeni mafiosi: «C’è bisogno di uomini e donne di Amore, non di onore!».
Scrive il Tao Tê Ching (XL): «La debolezza è quel che adopra il Tao». E il maestro Wang Pi commenta: «L’alto ha per basamento il basso, il nobile ha per fondamento il vile».
Così il personale sfocia nel plurale e globale:
«Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come “Figlio di Davide”, ma come “figlio dell’uomo”. Il titolo di “Figlio dell’uomo”, nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione».
[papa Benedetto, Concistoro 24 novembre 2012]
Transitorietà dell’Istituzione? E la compattezza? E l’espansione?
La mentalità delle precedenze era radicata al punto che anche in Paradiso si diceva esistessero le gerarchie.
Ma «Figlio dell’uomo» designa già dall’AT il carattere d’una santità che non t’aspetti, che supera la finzione antica, quella dei dominatori, i quali si accavallavano uno sull’altro recitando lo stesso copione; una mentalità di competizione e supremazia.
La massa rimaneva a bocca asciutta: qualsiasi fosse il sovrano che s’impadroniva del potere, la folla minuta restava sottomessa e soffocata.
Identica norma vigeva nelle religioni, i cui capi elargivano al popolo una forte pulsione da orda e il contentino dei gregari.
Invece nel Regno di Gesù mancavano i ranghi - per questo il piano degli Apostoli più ambiziosi non collima col suo.
«Figlio dell’uomo» è la persona vera secondo un criterio di umanizzazione; non una belva che prevale perché più forte delle altre (Dan 7); non una fiera, ma chi educa, convincendo.
Ciascun uomo conforme al Progetto divino e col cuore di carne, non di lupo, s’identifica spontaneamente con il «paidìon» (vv.36-37): un servetto di casa, un garzone di bottega.
Raffigura la persona sempre attenta ai bisogni dell’altro, che mette se stessa a disposizione.
Dimensione di santità trasmissibile a chiunque, ma creativa come l’amore, quindi tutta da scoprire! Pericolo dunque per la stabilità di qualsiasi “sistema” chiuso.
Come premunirsi? E la sua reputazione? Possibile per i responsabili di comunità rinunciare alle precedenze? Inaccettabile - forse - per chi tiene all’espansione unilaterale!
Una Chiesa senza catena di comando riconoscibile non parrebbe probabilmente un gruppo stabile. Sembrerebbe a qualcuno una istituzione transitoria.
Inoltre [dal punto di vista delle “guide”]: cosa renderà gli individui affini e la massa difforme omogenea? Difficile avere una folla naturalmente compatta!
Una Persona dev’essere convinta, e non è semplice persuaderla!
Non bastano i soliti rimproveri sulla condotta; bisogna capire le vicende.
E se si pretende la sua adesione-coesione a un paradigma culturale in larga misura fissato, ecco la coercizione esterna della moltitudine in cui vive.
[Da ciò, dunque, una gerarchia di cooptati che garantisca fissità di credo, definito perfino nei dettagli].
Secondo calcolo naturale, una massa primitiva può evolvere in gruppo articolato e ben organizzato se soggetto a leaders che assicurino durevolezza attraverso una formazione collettiva che faccia presa e s’inculchi nelle categorie primitive dei codici di pensiero.
E tale conio deve risultare facilmente fruibile, onde corrispondere a tutte le variegate situazioni sul territorio.
Ecco in tal guisa una catechesi in grado d’inculturarsi mediante una proposta semplice, immediatamente godibile; compiacente e riconoscibile per le calche.
Notiamo infatti che nei Vangeli il «Figlio dell’uomo» - lo sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità - non è ostacolato dai “peccatori”, bensì proprio da coloro che avrebbero il ministero di farlo conoscere.
Invece il Figlio ha una identità per nulla incline al calcolo di concordismi equilibrati; la sua firma è semplice, ma signorile.
Il suo benvolere si colloca su Altro piano: l’orizzonte del Dio che si rivela.
E lo fa senza artificio; nelle relazioni di qualità e nel Bene configurato e reale; non nelle posizioni di dominio, comando, sopraffazione.
Gesù abbraccia il ragazzino di 8-12 anni [«paidìon»] che a quel tempo non contava nulla.
Appunto, un valletto di casa, un inserviente di bottega; colui che non può permettersi di non riconoscere le esigenze altrui.
Dimensione di santità senza aureole distintive; condivisibile, perché legata alla simpatia verso chiunque - non a una dottrina e disciplina che ricacciano indietro il pericolo dell’Inconsueto.
Eppure la fissazione sulle antecedenze ha caratterizzato per secoli la vita della Chiesa.
Lavorando in archivi, ho notato quali asperità si celavano dietro i dibattiti circa ruoli e prelazioni da esibire in società [persino nelle posizioni di confraternite durante le processioni... non parliamo a tavola; sino al dopoguerra persino nelle foto di gruppo dei chierici].
Certo, il Signore non esclude il diritto a fare della propria vita qualcosa di grande, anzi; ma per la Felicità del suo Popolo non fa leva sulle pulsioni del trattenere, salire e dominare.
Conta piuttosto sulla libertà di donare, scendere e servire - anzitutto dei suoi primi della classe. Tutto per far respirare e nascere autenticamente i semplici; ed è possibile, se la Missione godesse d’un orizzonte di liberalità non opportunistica.
In prospettiva della Comunione - coesistenza, convivialità delle differenze - come bene supremo non fugace né viziato da trasformismi, la proposta di Dio non rinnega le legittime pulsioni dell’io a essere riconosciuto.
Non partecipiamo alla vita come dei destinati al fallimento, bensì come dei promossi che non sopprimono i propri requisiti. Ma non per vincere la gara.
Il Signore fa riflettere sull’autentica realizzazione.
Non una conquista esteriore, ma intima e fatta propria; scolpendo la nostra identità profonda nel tempo di un Percorso, non appiattito su ciò che già a monte appare non caratterizzato dal punto di vista educativo.
Aristotele affermava che - al di là di petizioni di principio esterne, artificiali - si ama davvero solo se stessi...
Ammesso e non concesso, la promozione e fioritura delle nostre qualità si colloca all’interno di un Cammino che dilati i confini dell’ego [amante del primato, della visibilità e del tornaconto] comprendendo il Tu nell’io.
Itinerario e Vettore che poi espande le capacità e la vita. Altrimenti in ogni circostanza e purtroppo in ogni età rimarremo nel gioco puerile di chi sgomita sui gradini.
Come ha detto Papa Francesco indicando fenomeni mafiosi: «C’è bisogno di uomini e donne di Amore, non di onore!».
Profonda distanza interiore fra Gesù e i discepoli
Dopo che Pietro, a nome dei discepoli, ha professato la fede in Lui riconoscendolo come il Messia (cfr Mc 8,29), Gesù comincia a parlare apertamente di ciò che gli accadrà alla fine. L’Evangelista riporta tre successive predizioni della morte e risurrezione, ai capitoli 8, 9 e 10: in esse Gesù annuncia in modo sempre più chiaro il destino che l’attende e la sua intrinseca necessità. Il brano […] contiene il secondo di questi annunci. Gesù dice: «Il Figlio dell’uomo – espressione con cui designa se stesso – viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (Mc 9,31). I discepoli «però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo» (v. 32).
In effetti, leggendo questa parte del racconto di Marco, appare evidente che tra Gesù e i discepoli c’era una profonda distanza interiore; si trovano, per così dire, su due diverse lunghezze d’onda, così che i discorsi del Maestro non vengono compresi, o lo sono soltanto superficialmente. L’apostolo Pietro, subito dopo aver manifestato la sua fede in Gesù, si permette di rimproverarlo perché ha predetto che dovrà essere rifiutato e ucciso. Dopo il secondo annuncio della passione, i discepoli si mettono a discutere su chi tra loro sia il più grande (cfr Mc 9,34); e dopo il terzo, Giacomo e Giovanni chiedono a Gesù di poter sedere alla sua destra e alla sua sinistra, quando sarà nella gloria (cfr Mc 10,35-40). Ma ci sono diversi altri segni di questa distanza: ad esempio, i discepoli non riescono a guarire un ragazzo epilettico, che poi Gesù guarisce con la forza della preghiera (cfr Mc 9,14-29); o quando vengono presentati a Gesù dei bambini, i discepoli li rimproverano, e Gesù invece, indignato, li fa rimanere, e afferma che solo chi è come loro può entrare nel Regno di Dio (cfr Mc 10,13-16).
Che cosa ci dice tutto questo? Ci ricorda che la logica di Dio è sempre «altra» rispetto alla nostra, come rivelò Dio stesso per bocca del profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, / le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Per questo seguire il Signore richiede sempre all’uomo una profonda con-versione - da noi tutti -, un cambiamento nel modo di pensare e di vivere, richiede di aprire il cuore all’ascolto per lasciarsi illuminare e trasformare interiormente. Un punto-chiave in cui Dio e l’uomo si differenziano è l’orgoglio: in Dio non c’è orgoglio, perché Egli è tutta la pienezza ed è tutto proteso ad amare e donare vita; in noi uomini, invece, l’orgoglio è intimamente radicato e richiede costante vigilanza e purificazione. Noi, che siamo piccoli, aspiriamo ad apparire grandi, ad essere i primi, mentre Dio, che è realmente grande, non teme di abbassarsi e di farsi ultimo. E la Vergine Maria è perfettamente «sintonizzata» con Dio: invochiamola con fiducia, affinché ci insegni a seguire fedelmente Gesù sulla via dell’amore e dell’umiltà.
[Papa Benedetto, Angelus 23 settembre 2012]
Dopo che Pietro, a nome dei discepoli, ha professato la fede in Lui riconoscendolo come il Messia (cfr Mc 8,29), Gesù comincia a parlare apertamente di ciò che gli accadrà alla fine. L’Evangelista riporta tre successive predizioni della morte e risurrezione, ai capitoli 8, 9 e 10: in esse Gesù annuncia in modo sempre più chiaro il destino che l’attende e la sua intrinseca necessità. Il brano […] contiene il secondo di questi annunci. Gesù dice: «Il Figlio dell’uomo – espressione con cui designa se stesso – viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (Mc 9,31). I discepoli «però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo» (v. 32).
In effetti, leggendo questa parte del racconto di Marco, appare evidente che tra Gesù e i discepoli c’era una profonda distanza interiore; si trovano, per così dire, su due diverse lunghezze d’onda, così che i discorsi del Maestro non vengono compresi, o lo sono soltanto superficialmente. L’apostolo Pietro, subito dopo aver manifestato la sua fede in Gesù, si permette di rimproverarlo perché ha predetto che dovrà essere rifiutato e ucciso. Dopo il secondo annuncio della passione, i discepoli si mettono a discutere su chi tra loro sia il più grande (cfr Mc 9,34); e dopo il terzo, Giacomo e Giovanni chiedono a Gesù di poter sedere alla sua destra e alla sua sinistra, quando sarà nella gloria (cfr Mc 10,35-40). Ma ci sono diversi altri segni di questa distanza: ad esempio, i discepoli non riescono a guarire un ragazzo epilettico, che poi Gesù guarisce con la forza della preghiera (cfr Mc 9,14-29); o quando vengono presentati a Gesù dei bambini, i discepoli li rimproverano, e Gesù invece, indignato, li fa rimanere, e afferma che solo chi è come loro può entrare nel Regno di Dio (cfr Mc 10,13-16).
Che cosa ci dice tutto questo? Ci ricorda che la logica di Dio è sempre «altra» rispetto alla nostra, come rivelò Dio stesso per bocca del profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, / le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Per questo seguire il Signore richiede sempre all’uomo una profonda con-versione - da noi tutti -, un cambiamento nel modo di pensare e di vivere, richiede di aprire il cuore all’ascolto per lasciarsi illuminare e trasformare interiormente. Un punto-chiave in cui Dio e l’uomo si differenziano è l’orgoglio: in Dio non c’è orgoglio, perché Egli è tutta la pienezza ed è tutto proteso ad amare e donare vita; in noi uomini, invece, l’orgoglio è intimamente radicato e richiede costante vigilanza e purificazione. Noi, che siamo piccoli, aspiriamo ad apparire grandi, ad essere i primi, mentre Dio, che è realmente grande, non teme di abbassarsi e di farsi ultimo. E la Vergine Maria è perfettamente «sintonizzata» con Dio: invochiamola con fiducia, affinché ci insegni a seguire fedelmente Gesù sulla via dell’amore e dell’umiltà.
[Papa Benedetto, Angelus 23 settembre 2012]
1. "Ecco il mio servo che io ho scelto; il mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto "(Mt 12, 18, cfr Is 42, 1- 4).
Il tema del Messaggio di questa 40a Giornata Mondiale di preghiera per le Vocazioni ci invita a tornare alle radici della vocazione cristiana, alla storia del primo chiamato del Padre, il Figlio Gesù. Egli è "il servo" del Padre, profeticamente annunciato come colui che il Padre ha scelto e plasmato fin dal seno materno (cfr Is 49, 1-6), il prediletto che il Padre sostiene e di cui si compiace (cfr Is 42, 1-9), nel quale ha posto il suo spirito e a cui ha trasmesso la sua forza (cfr Is 49, 5) e che esalterà (cfr Is 52, 13-53,12).
Appare subito evidente il radicale senso positivo, che il testo ispirato dà al termine "servo". Mentre, nell'attuale cultura, colui che serve è considerato inferiore, nella storia sacra il servo è colui che è chiamato da Dio a compiere una particolare azione di salvezza e redenzione, colui che sa d'avere ricevuto tutto quel che ha ed è, e che dunque si sente anche chiamato a porre al servizio degli altri quanto ha ricevuto.
Il servizio nella Bibbia è sempre legato a una chiamata specifica che viene da Dio, e proprio per questo rappresenta il massimo compimento della dignità della creatura, o ciò che ne evoca tutta la dimensione misteriosa e trascendente. Così è stato anche nella vita di Gesù, il Servo fedele chiamato a compiere l'universale opera della redenzione.
2. "Come Agnello condotto al macello . . . " (Is 53, 7).
Nella Sacra Scrittura c'è un forte ed evidente legame tra servizio e redenzione, come pure tra servizio e sofferenza, tra Servo e Agnello di Dio. Il Messia è il Servo sofferente che si carica sulle spalle il peso del peccato umano, è l'Agnello "condotto al macello" (Is 53, 7) per pagare il prezzo delle colpe commesse dall'umanità e rendere così ad essa il servizio di cui più abbisogna. Il Servo è l'Agnello che, "maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca" (Is 53, 7), mostrando così una straordinaria forza: quella di non reagire al male con il male, ma di rispondere al male con il bene.
E' la mite energia del servo, che trova in Dio la sua forza e che da Lui, proprio per questo, è reso "luce delle nazioni" e operatore di salvezza (cfr Is 49, 5-6). La vocazione al servizio è sempre, misteriosamente, vocazione a prender parte in modo molto personale, anche costoso e sofferto, al ministero della salvezza.
3. ". . . come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire " (Mt 20, 28).
Gesù è davvero il modello perfetto del "servo" di cui parla la Scrittura. Egli è colui che s'è spogliato radicalmente di sé per assumere "la condizione di servo" (Fil 2, 7), e dedicarsi totalmente alle cose del Padre (cfr Lc 2, 49), quale Figlio prediletto in cui il Padre si compiace (cfr Mt 17, 5). Gesù non è venuto per esser servito, "ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti" (Mt 20, 28); ha lavato i piedi dei suoi discepoli e ha obbedito al progetto del Padre fino alla morte e alla morte di croce (cfr Fil 2, 8). Per questo il Padre stesso lo ha esaltato dandogli un nome nuovo e facendolo Signore del cielo e della terra (cfr Fil 2, 9-11).
Come non leggere nella vicenda del "servo Gesù" la storia d'ogni vocazione, quella storia pensata dal Creatore per ogni essere umano, storia che inevitabilmente passa attraverso la chiamata a servire e culmina nella scoperta del nome nuovo, pensato da Dio per ciascuno? In tale "nome" ciascuno può cogliere la propria identità, orientandosi verso una realizzazione di se stesso che lo renderà libero e felice. Come non leggere, in particolare, nella parabola del Figlio, Servo e Signore, la storia vocazionale di chi è da Lui chiamato a seguirlo più da vicino, ad esser cioè servo nel ministero sacerdotale o nella consacrazione religiosa? In effetti, la vocazione sacerdotale o religiosa è sempre, per natura sua, vocazione al servizio generoso a Dio e al prossimo.
Il servizio diventa allora via e mediazione preziosa per giungere a meglio comprendere la propria vocazione. La diakonia è vero e proprio itinerario pastorale vocazionale (cfr Nuove vocazioni per una nuova Europa, 27c).
4. "Dove sono io, là sarà anche il mio servo " (Gv 12, 26).
Gesù, il Servo e il Signore, è anche colui che chiama. Chiama ad esser come Lui, perché solo nel servizio l'essere umano scopre la dignità propria ed altrui. Egli chiama a servire come Lui ha servito: quando le relazioni interpersonali sono ispirate al servizio reciproco, si crea un mondo nuovo, e in esso si sviluppa un'autentica cultura vocazionale.
Con questo messaggio, vorrei quasi prestare la voce a Gesù, per proporre a tanti giovani l'ideale del servizio, e aiutarli a superare le tentazioni dell'individualismo e l'illusione di procurarsi in tal modo la felicità. Nonostante certe spinte contrarie, pur presenti nella mentalità odierna, c'è nel cuore di molti giovani una naturale disposizione ad aprirsi all'altro, specie al più bisognoso. Ciò li rende generosi, capaci di empatia, disposti a dimenticare se stessi per anteporre l'altro ai propri interessi.
Servire, cari giovani, è vocazione del tutto naturale, perché l'essere umano è naturalmente servo, non essendo padrone della propria vita ed essendo, a sua volta, bisognoso di tanti servizi altrui. Servire è manifestazione di libertà dall'invadenza del proprio io e di responsabilità verso l'altro; e servire è possibile a tutti, attraverso gesti apparentemente piccoli, ma in realtà grandi, se animati da amore sincero. Il vero servo è umile, sa di essere "inutile" (cfr Lc 17, 10), non ricerca tornaconti egoistici, ma si spende per gli altri sperimentando nel dono di sé la gioia della gratuità.
Vi auguro, cari giovani, di saper ascoltare la voce di Dio che vi chiama al servizio. E' questa la strada che apre a tante forme di ministerialità a vantaggio della comunità: dal ministero ordinato ai vari altri ministeri istituiti e riconosciuti: la catechesi, l'animazione liturgica, l'educazione dei giovani, le più varie espressioni della carità (cfr Novo millennio ineunte, 46). Ho ricordato, a conclusione del Grande Giubileo, che questa è “l'ora di una nuova 'fantasia' della carità” (Ibidem, 50). Tocca a voi giovani, in modo particolare, far sì che la carità si esprima in tutta la sua ricchezza spirituale ed apostolica.
5. "Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti" (Mc 9, 35).
Così Gesù disse ai Dodici, sorpresi a discutere tra loro su "chi fosse il più grande" (Mc 9, 34). E' la tentazione di sempre, che non risparmia nemmeno chi è chiamato a presiedere l'Eucaristia, il sacramento dell'amore supremo del "Servo sofferente". Chi compie questo servizio, in realtà, è ancor più radicalmente chiamato a esser servo. Egli è chiamato, infatti, ad agire "in persona Christi", e perciò a rivivere la stessa condizione di Gesù nell'Ultima Cena, assumendone la medesima disponibilità ad amare sino alla fine, sino a dare la vita. Presiedere la Cena del Signore è, pertanto, invito pressante ad offrirsi in dono, perché permanga e cresca nella Chiesa l'atteggiamento del Servo sofferente e Signore.
Cari giovani, coltivate l'attrazione per i valori e per le scelte radicali che fanno dell'esistenza un servizio agli altri sulle orme di Gesù, l'Agnello di Dio. Non lasciatevi sedurre dai richiami del potere e dell'ambizione personale. L'ideale sacerdotale deve essere costantemente purificato da queste e altre pericolose ambiguità.
Risuona anche oggi l'appello del Signore Gesù: "Se uno mi vuol servire mi segua" (Gv 12, 26). Non abbiate paura di accoglierlo. Incontrerete sicuramente difficoltà e sacrifici, ma sarete felici di servire, sarete testimoni di quella gioia che il mondo non può dare. Sarete fiamme vive di un amore infinito ed eterno; conoscerete le ricchezze spirituali del sacerdozio, dono e mistero divino.
6. Come altre volte, anche in questa circostanza volgiamo lo sguardo verso Maria, Madre della Chiesa e Stella della nuova evangelizzazione. Invochiamola con fiducia, perché non manchino nella Chiesa persone pronte a rispondere generosamente all'appello del Signore, che chiama ad un più diretto servizio del Vangelo:
"Maria, umile serva dell'Altissimo,
il Figlio che hai generato Ti ha resa serva dell'umanità.
La tua vita è stata un servizio umile e generoso:
sei stata serva della Parola quando l'Angelo
Ti annunciò il progetto divino della salvezza.
Sei stata serva del Figlio, dandogli la vita
e rimanendo aperta al suo mistero.
Sei stata serva della Redenzione,
'stando' coraggiosamente ai piedi della Croce,
accanto al Servo e Agnello sofferente,
che s 'immolava per nostro amore.
Sei stata serva della Chiesa il giorno della Pentecoste
e con la tua intercessione continui a generarla in ogni credente,
anche in questi nostri tempi difficili e travagliati.
A Te, giovane figlia d'Israele,
che hai conosciuto il turbamento del cuore giovane
dinanzi alla proposta dell'Eterno,
guardino con fiducia i giovani del terzo millennio.
Rendili capaci di accogliere l'invito del Figlio tuo
a fare della vita un dono totale per la gloria di Dio.
Fa' loro comprendere che servire Dio appaga il cuore,
e che solo nel servizio di Dio e del suo regno
ci si realizza secondo il divino progetto
e la vita diventa inno di gloria alla Santissima Trinità.
Amen ".
Dal Vaticano, 16 Ottobre 2002
[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la XL Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni]
Non si può vivere il Vangelo facendo compromessi, altrimenti si finisce con lo spirito del mondo, che punta al dominio degli altri ed è «nemico di Dio»; ma bisogna scegliere la strada del servizio. La riflessione del Papa, nell’omelia di martedì 25 febbraio, alla messa a Casa Santa Marta, è partita dal brano del Vangelo (Mc 9, 30-37) nel quale Gesù dice ai Dodici che se uno vuole essere il primo è chiamato a farsi ultimo e servitore di tutti.
Gesù sapeva che lungo la strada i discepoli avevano discusso tra loro su chi fosse il più grande «per ambizione». Questo litigare dicendo «io devo andare avanti, io devo salire», ha spiegato il Pontefice, è lo spirito del mondo. Ma anche la prima lettura della liturgia del giorno (Gc 4, 1-10) ricalca questo aspetto, quando l’apostolo Giacomo ricorda che l’amore per il mondo è nemico di Dio. «Quest’ansia di mondanità — ha osservato il Papa — quest’ansia di essere più importante degli altri e dire: “No! Io merito questo, non lo merita quell’altro”. Questo è mondanità, questo — ha proseguito — è lo spirito del mondo e chi respira questo spirito, respira l’inimicizia di Dio». «Gesù, in un altro passo, dice ai discepoli: “O siete con me o siete contro di me”. Non ci sono compromessi nel Vangelo. E quando uno vuole vivere il Vangelo facendo dei compromessi — ha commentato — alla fine si trova con lo spirito mondano, che sempre cerca di fare compromessi per arrampicarsi di più, per dominare, per essere più grande».
Tante guerre e tante liti vengono proprio dai desideri mondani, dalle passioni, ha evidenziato il Papa facendo ancora riferimento alle parole di san Giacomo. È vero «oggi tutto il mondo è seminato da guerre. Ma le guerre che sono fra di noi? Come quella che c’era fra gli apostoli: chi è il più importante?», si è chiesto Francesco. «“Guardate la carriera che ho fatto: adesso non posso andare indietro!”. Questo è lo spirito del mondo e questo non è cristiano. “No! Tocca a me! Io devo guadagnare di più per avere più soldi e più potere”. Questo è lo spirito del mondo», ha sottolineato il Pontefice. «E poi, la malvagità delle chiacchiere: il pettegolezzo. Da dove viene? Dall’invidia. Il grande invidioso — ha ribadito Francesco — è il diavolo, lo sappiamo, lo dice la Bibbia. Dall’invidia. Per l’invidia del diavolo entra il male nel mondo. L’invidia è un tarlo che ti spinge a distruggere, a sparlare, a annientare l’altro».
Nel dialogo dei discepoli c’erano tutte queste passioni e per questo, ha sostenuto Francesco, Gesù li rimprovera e li esorta a farsi servitori di tutti e a prendere l’ultimo posto: «Chi è il più importante nella Chiesa? — si è domandato — Il Papa, i vescovi, i monsignori, i cardinali, i parroci delle parrocchie più belle, i presidenti delle associazioni laicali? No! Il più grande nella Chiesa è quello che si fa servitore di tutti, quello che serve tutti, non che ha più titoli. E per far capire questo prese un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo con tenerezza — perché Gesù parlava con tenerezza, ne aveva tanta — disse loro: “Chi accoglie un bambino, accoglie me”, cioè chi accoglie il più umile, il più servitore. Questa è la strada», ha affermato Francesco sottolineando ancora che «la strada contro lo spirito del mondo è una sola: l’umiltà. Servire gli altri, scegliere l’ultimo posto, non arrampicarsi».
Non bisogna, quindi, «negoziare con lo spirito del mondo», non bisogna dire: «Ho diritto a questo posto, perché guardate la carriera che ho fatto». La mondanità, infatti, ha concluso il Papa, «è nemica di Dio». Bisogna invece ascoltare questa parola «tanto saggia» e incoraggiante che Gesù dice nel Vangelo: «Se uno vuole essere il primo sia l’ultimo di tutti, sia il servitore di tutti».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 26/02/2020]
Because of this unique understanding, Jesus can present himself as the One who reveals the Father with a knowledge that is the fruit of an intimate and mysterious reciprocity (John Paul II)
In forza di questa singolare intesa, Gesù può presentarsi come il rivelatore del Padre, con una conoscenza che è frutto di un'intima e misteriosa reciprocità (Giovanni Paolo II)
Yes, all the "miracles, wonders and signs" of Christ are in function of the revelation of him as Messiah, of him as the Son of God: of him who alone has the power to free man from sin and death. Of him who is truly the Savior of the world (John Paul II)
Sì, tutti i “miracoli, prodigi e segni” di Cristo sono in funzione della rivelazione di lui come Messia, di lui come Figlio di Dio: di lui che, solo, ha il potere di liberare l’uomo dal peccato e dalla morte. Di lui che veramente è il Salvatore del mondo (Giovanni Paolo II)
It is known that faith is man's response to the word of divine revelation. The miracle takes place in organic connection with this revealing word of God. It is a "sign" of his presence and of his work, a particularly intense sign (John Paul II)
È noto che la fede è una risposta dell’uomo alla parola della rivelazione divina. Il miracolo avviene in legame organico con questa parola di Dio rivelante. È un “segno” della sua presenza e del suo operare, un segno, si può dire, particolarmente intenso (Giovanni Paolo II)
That was not the only time the father ran. His joy would not be complete without the presence of his other son. He then sets out to find him and invites him to join in the festivities (cf. v. 28). But the older son appeared upset by the homecoming celebration. He found his father’s joy hard to take; he did not acknowledge the return of his brother: “that son of yours”, he calls him (v. 30). For him, his brother was still lost, because he had already lost him in his heart (Pope Francis)
Ma quello non è stato l’unico momento in cui il Padre si è messo a correre. La sua gioia sarebbe incompleta senza la presenza dell’altro figlio. Per questo esce anche incontro a lui per invitarlo a partecipare alla festa (cfr v. 28). Però, sembra proprio che al figlio maggiore non piacessero le feste di benvenuto; non riesce a sopportare la gioia del padre e non riconosce il ritorno di suo fratello: «quel tuo figlio», dice (v. 30). Per lui suo fratello continua ad essere perduto, perché lo aveva ormai perduto nel suo cuore (Papa Francesco)
Doing a good deed almost instinctively gives rise to the desire to be esteemed and admired for the good action, in other words to gain a reward. And on the one hand this closes us in on ourselves and on the other, it brings us out of ourselves because we live oriented to what others think of us or admire in us (Pope Benedict)
Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce il desiderio di essere stimati e ammirati per la buona azione, di avere cioè una soddisfazione. E questo, da una parte rinchiude in se stessi, dall’altra porta fuori da se stessi, perché si vive proiettati verso quello che gli altri pensano di noi e ammirano in noi (Papa Benedetto)
Since God has first loved us (cf. 1 Jn 4:10), love is now no longer a mere “command”; it is the response to the gift of love with which God draws near to us [Pope Benedict]
Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 10), l'amore adesso non è più solo un « comandamento », ma è la risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene incontro [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
Disclaimer
Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.