don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Il “comandamento” grande: l’Amore

(Mc 12,28-34)

 

«Qual è primo comandamento di tutti? Rispose Gesù […] Primo è: Ascolta Israele. Il Signore nostro Dio è unico Signore, e amerai il Signore Dio tuo da tutto tuo cuore e da tutta tua vita e da tutta tua mente e da tutto tuo molto» (vv.28-30; Dt 6,4-5).

Gesù trasforma in questione cruciale quella che era la più banale delle domande di catechismo: qual è il «grande» comandamento? 

Malgrado le diverse scuole teologiche, la risposta era ben nota a tutti: il riposo del sabato, unica prescrizione osservata (persino) da Dio.

La questione posta al Maestro dall’esperto della Legge non era così innocente, ma «per metterlo alla prova» (Mt 22,35; Lc 10,25) - ossia per ribattergli: e allora come mai tu non adempi il precetto del sabato?

Cristo semplifica il groviglio delle dispute, circa l’allargamento o la riduzione delle casistiche teoriche, e va al punto.

Sempre allergico ai bisticci sulle dottrine, Egli fa una proposta di vita come momento unitivo delle esigenze dell’Alleanza.

Tutte le norme hanno un’essenza, altrimenti restano un coacervo dispersivo. Trovano fondamento spontaneo e significato naturale nel dono di sé - però motivato.

Ma qual è il punto solido e il contesto di un simile invito? Un sentimento vago, un’emozione fra le tante, un moto passeggero? Filantropia? O un’esperienza?

Siamo assetati d’affetto e concediamo amicizia a corrente alternata, tanto da far diventare l’amore una fonte di equivoci, radicati nel bisogno di completarsi.

Ecco perché il secondo comandamento appare come una spiegazione del primo, non una sua riduzione [Mt 22,39; Mc 12,31; Lc 10,27].

 

Nel mondo antico non aveva senso parlare di amore verso Dio, Mistero ineffabile.

Era l’Altissimo che prediligeva qualcuno donandogli fortuna materiale, e costui gli riconosceva un dovere di culto, e sacrifici.

Idem per gli sfortunati, almeno per evitare ritorsioni (e tenerselo buono).

Con Gesù si parla apertamente di gratuità - non semplice gratitudine - come nucleo unificante, sia della persona che della storia della salvezza.

Finisce l’idea dello scambio di favori.

Il Padre non ha bisogno di nulla; non gode di vederci sottomessi e sentirsi riconosciuto [schema della religiosità pagana] come farebbe un sovrano nei confronti dei sudditi.

La Relazione con l’Eterno rimane concreta, ma l’onore verso l’Altissimo si manifesta facendo proprio il suo progetto di bene e di crescita nei confronti dell’uomo, e riconoscendosi in esso.

 

Il piano di Dio si dispiega... con una esigenza viva. Ma c’è una Partenza, un Centro e un Arrivo. In realtà, una nuova Genesi.

In ogni caso, solo l’iniziativa di Dio estrae da noi il meglio: più talento, più desiderio, più interessi, più capacità inespresse, più inedito - invece di tormenti che fanno male all’anima.

È la differenza tra religiosità che affievolisce la personalità, e Fede.

Per via di Fede scatta una Relazione creativa speciale: quella di colui che accoglie la Chiamata per Nome, nonché le proposte della stessa Fonte dell’essere - onda su onda.

Esse anticipano le nostre iniziative e ci guidano infallibilmente alla perfetta fioritura del personale e altrui Seme.

 

Soprattutto in Mt (22,38-39) e Mc (12,29-31) è chiaro che l’amore al prossimo deriva dall’esperienza e dalla consapevolezza di essere amati prima e senza condizioni previe da Dio - guardati, accettati, valorizzati, promossi, rallegrati, completati.

Si ama non per sforzo [la forza è una leva dirigista: produce episodi che fanno peggiorare la vita] ma sulla base di quanto ci sentiamo amati - e con immediatezza, ripetutamente, senza condizioni.

Si ama sull’argomento del “a perdere” già sperimentato a proprio favore dalla Provvidenza, che dà senso e valore agli atti umani.

Non per infatuazione di aspettative esterne, indotte, comunque altrui.

 

Anche in campo spirituale, non pochi comportamenti ritenuti in grado di risolvere problemi, spesso li cronicizzano.

In tal guisa, essi fanno leva su un’idea di permanenza - non sulla dinamica di gratuità vocazionale, sul Dono inimmaginabile, da accogliere.

Dunque il punto è regolarsi secondo risorse che vengono, o la distorsione dei modelli, tipica della mentalità moralista.

Infatti lo schema d’onnipotenza nel bene, paradossalmente, ripiega l’io e le sue forze, e ne distorce lo sguardo.

 

Ma al di là di tutte le sfumature, siamo rallegrati che primo e secondo comandamento riguardino l’Amore: ciò che più desideriamo fare e ricevere. È un’urgenza della vita.

Eppure bisogna essere sapienti, affinché lo schema dei paradigmi o gli stimoli dell’affetto naturale e delle precipitazioni non travolgano e trascinino via - capovolgendo - ogni buona intenzione.

L’Amore non sopporta l’eccesso di aspettative, perché scaturisce da una esperienza di Perfezione che giunge; offerta, inattesa, imprevedibile. Non già allestita secondo propositi concatenati e normali.

Se autentica, nel tempo sperimenteremo la fioritura; non nell’attesa di un ritorno, ma anzitutto in un Dono fuori del tempo. Perché esso ci ha già saziati e convinti - con stupore contemplativo - e fatti trasalire di gioia.

Così l’Eros vocazionale e fondante continuerà a plasmarci, con la sua virtù perennemente esplorativa e capace di attivare nuove Nascite.

Energia personale - senza i soliti bagagli di tormento, riserve, esteriorità... e (di nuovo) corrucci.

 

 

Comandamento Grande: solo la Qualità profonda obbliga

 

La sola disposizione in cui il Padre si riconosce è l’Amore, a tutto spiano e a tutto tondo; non un qualche precetto particolare.

Per Gesù non vi sono classifiche nelle cose di Dio e dell’uomo - infatti Egli mostrava una spiccata tendenza a riassumere le molte disposizioni - perché solo la Qualità profonda obbliga.

La proposta spirituale del Maestro faceva propria la narrativa del popolo di Dio e la pratica dei Profeti: tutta cuore, piedi, mani - e intelligenza.

L’Amore completo verso Dio deve avvolgere la creatura in ogni decisione [cuore].

Parimenti, in ogni istante e aspetto della sua “vita” concreta, nonché coinvolgere tutte le proprie risorse [forze: cf. Mc 12,30; Lc 10,27].

Dt 6,5 (testo ebraico) recita infatti: «con tutto il tuo “molto”», intendendo una partecipazione concreta sia alla vita cultuale che alla fraternità materiale - provvedendo e aiutando coi propri beni.

Mt non cita esplicitamente quest’ultimo aspetto, forse per sottolineare che il Padre non assorbe energie in nessun modo, bensì le trasmette.

Ma Gesù aggiunge alle sfumature dell’intesa autentica con Dio enumerate nel Primo Testamento un versante inatteso per chi pensa l’amore come sentimento delicato solo emotivo.

Il Signore suggerisce lo studio, il discernimento e la comprensione delle nostre percezioni [Mt 22,37; Mc 12,30; Lc 10,27] accompagnate dall’aspetto mentale e d’intelligenza profonda (escluso in Dt 6).

A prima vista sembra una sfaccettatura secondaria o addirittura un orpello per il balzo qualitativo da un comune senso religioso all’esistenza di Fede saggiamente e personalmente configurata.

È vero l’esatto contrario: siamo figli di un Padre che non ci soppianta, né assorbe le potenzialità o energie, spersonalizzando; neppure sotto il profilo mentale.

È un risvolto capitale della nostra dignità e promozione - anche umana - e discrimine specifico nel discernimento della Fede in Cristo, rispetto a tutte le soluzioni devote alla ricerca dell’Assoluto (qualunque).

La sola praticità rende fragili, poco consapevoli; e quando non siamo convinti neppure saremo affidabili, sempre in balia di mutevoli situazioni e dell’opinione conformista, alla moda, altrui.

Non di rado si fugge il confronto a tutto campo che arricchirebbe ciascuno - proprio per incompetenza.

Ma non siamo dei creduloni unilaterali. Essere attenti e aggiornati, avere capacità di pensiero anche critico è dilatazione richiesta in ordine allo sviluppo della propria vocazione umana, morale, culturale e spirituale.

Banalità, identificazioni, scopiazzature impersonali e ripetizioni assembleari poco vigili intralciano la marea della vita, questa cascata divina di energia perenne che pulsa e non si spegne.

Anzi, essa viene con appelli che smuovono: chiama a spalancarci verso nuove attrattive di relazione e altri interessi, anche intellettuali; perfino denominazionali.

Gesù non parla di amore verso Dio in termini d’intimismo e sentimento, ma di un’affinità totalmente coinvolgente, resa meno incerta proprio dallo sviluppo della nostra misura sapienziale, in merito alle questioni.

La devozione ingoia tutto. Invece, la Fede non si lascia plagiare dalla civiltà locale o dell’esterno: suppone una capacità di entrare in modo competente nelle valutazioni personali o inerenti il dibattito comunitario e d’insieme - storico e aggiornato.

La testimonianza della nostra Speranza non disdegna di lasciarsi fecondare dal dialogo con chi ha maggiore perizia psicologica o biblica, pastorale specialistica e sociale, nonché archeologica, bioetica, economica, scientifica e così via.

Un impegno che dimostra vero interesse al Sacro [certo, tutti aspetti da sottoporre a valutazione non come si trattasse di opzioni scolastiche].

Ma bisogna ammettere che una delle più organiche espressioni della grande teologia cattolica è quella che un tempo si denominava “dottrina” dei sette Doni dello Spirito Santo.

Nell’esistenza d’Amore si riconosceva il primato (anche relazionale) del Dono dello Spirito, che completava le possibilità di espressione “naturale” delle virtù cardinali e teologali, conducendole a pienezza.

Ben quattro dei sette Doni venivano correlati ad un carattere di profondo sapere: Sapienza, Intelletto, Consiglio e Scienza.

Insomma: qui c’è ancora un Appuntamento decisivo per l’Amore a tutto tondo.

Lasciarsi andare a qualche battuta sulla falsariga credente è dominio di tutti [individualista o di cerchia] ma la capacità di entrare in merito è solo di quanti hanno voluto vagliare e vivere le tematiche - perché più interessati a comprendere il Volto di Dio e il suo Disegno sull’umanità che a ribadire finte sicurezze narrative.

Innaturale sarebbe riconoscere un Padrone del Cielo che non Viene incontro; come se ci sovrastasse con un “suo” obbiettivo (a noi estrinseco) e così rendesse tutti marginali.

[Nelle sètte - perfino quelle dall’aspetto bonario - è fatto divieto l’approfondire, per capire: la posizione c’è già, il candidato deve “solo” adeguarsi].

 

«Come (e perché) te stesso» [senso del testo greco: Mt 22,39; Mc 12,31; Lc 10,27]: è una nuova Nascita di vita, nuova Genesi nello spirito di Dono.

Il paradosso suggerito da Gesù supera la norma antica di Lv 19,18. 

Amiamo non solo i figli del nostro popolo, «per il fatto che» abbiamo cura d’incontrarci e vogliamo arricchire noi stessi insieme, dilatando l’io nel Tu.

Il «Comando grande» di Dio investe la vita reale e riguarda non solo la qualità di relazione col mondo e il prossimo, ma il globale riflessivo con sé.

Non bisogna aver paura di altre dottrine e discipline, trascurando sfide analitiche oltre quelle “organiche” - quelle di lungo periodo.

Tutte rimettono in discussione credenze, opere, la propria visione del mondo; linguaggio, stile, e pensiero stesso.

Abbiamo ancora un gran bisogno di allargare la mente e diventare vasti come un panorama. E riarmonizzare gli opposti che ci trasciniamo dentro.

Lati e Perle nascoste cui ancora non abbiamo dato respiro, o visibilità - e forse mai considerato Alleati.

 

Resta unica la sorte travagliata che accomuna i profeti, ma non sono le certezze (antiche, o sofisticate, alla moda, à la page) il valore aggiunto dell’avventura di Fede nell’Amore - bensì il rischio del mettersi in bilico e la rielaborazione a tutto campo.

Inutile poi lamentarsi, se le realtà ecclesiali che non si aggiornano, e permangono nei luoghi comuni ereditati, lentamente decadono, quindi scompaiono.

A dispetto del loro patrimonio eclatante e dei fiabeschi eventi.

 

In tal guisa, il «dottore della legge» è forse già vicino [Mc 12,34; Lc 10,28] ma deve ancora tenere d’occhio Gesù, per comprendere in Lui il senso più dilatato del dono totale, nello specifico personalizzante, che non è ingenuo.

Il Signore riporta il senso delle norme alla loro funzione profonda e originaria: farsi viatico di ogni Incontro che solleva accadimenti, persone di qualsiasi estrazione, e il creato.

 

In conclusione, esperienza e rito hanno il loro fulcro nella reciprocità dell’amore.

La vita in tutte le sue sfaccettature diventa Liturgia più significativa del gesto di culto accreditato; il suo Pane davvero spezzato si fa appello convincente alla Comunione e Missione.

Anche se non fa notizia, termometro autentico del nostro cammino non sarà il volume o il mucchio di cose importanti che facciamo, bensì un pulsare di cuore e mente rigenerati.

Per questo alle note antiche del vero Amore il Figlio di Dio aggiunge la qualità del pensiero: non siamo dei creduloni, sprovveduti, unilaterali.

Le nostre mani tese sono frutto di scelta libera e consapevole. Nessuna arrendevolezza forzata.

«Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» [Giovanni Paolo II].

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cos’è Grande per te? Titoli? Avere, potere, apparire?

Qual è nella tua esperienza dell’Amore il punto di Partenza, il Centro e l’Arrivo?

Ti documenti e aggiorni per poter corrispondere meglio alla Chiamata di Dio?

 

 

Relazione profonda

Cari fratelli e sorelle!

Il Vangelo di questa domenica (Mc 12,28-34) ci ripropone l’insegnamento di Gesù sul più grande comandamento: il comandamento dell’amore, che è duplice: amare Dio e amare il prossimo. I Santi, che abbiamo da poco celebrato tutti insieme in un’unica festa solenne, sono proprio coloro che, confidando nella grazia di Dio, cercano di vivere secondo questa legge fondamentale. In effetti, il comandamento dell’amore lo può mettere in pratica pienamente chi vive in una relazione profonda con Dio, proprio come il bambino diventa capace di amare a partire da una buona relazione con la madre e il padre. San Giovanni d’Avila, che ho da poco proclamato Dottore della Chiesa, così scrive all’inizio del suo Trattato dell’amore di Dio: «La causa - dice - che maggiormente spinge il nostro cuore all’amore di Dio è considerare profondamente l’amore che Egli ha avuto per noi… Questo, più dei benefici, spinge il cuore ad amare; perché colui che rende ad un altro un beneficio, gli dà qualcosa che possiede; ma colui che ama, dà se stesso con tutto ciò che ha, senza che gli resti altro da dare» (n. 1). Prima di essere un comando - l’amore non è un comando - è un dono, una realtà che Dio ci fa conoscere e sperimentare, così che, come un seme, possa germogliare anche dentro di noi e svilupparsi nella nostra vita.

Se l’amore di Dio ha messo radici profonde in una persona, questa è in grado di amare anche chi non lo merita, come appunto fa Dio verso di noi. Il padre e la madre non amano i figli solo quando lo meritano: li amano sempre, anche se naturalmente fanno loro capire quando sbagliano. Da Dio noi impariamo a volere sempre e solo il bene e mai il male. Impariamo a guardare l’altro non solamente con i nostri occhi, ma con lo sguardo di Dio, che è lo sguardo di Gesù Cristo. Uno sguardo che parte dal cuore e non si ferma alla superficie, va al di là delle apparenze e riesce a cogliere le attese profonde dell’altro: attese di essere ascoltato, di un’attenzione gratuita; in una parola: di amore. Ma si verifica anche il percorso inverso: che aprendomi all’altro così com’è, andandogli incontro, rendendomi disponibile, io mi apro anche a conoscere Dio, a sentire che Egli c’è ed è buono. Amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili e stanno in rapporto reciproco. Gesù non ha inventato né l’uno né l’altro, ma ha rivelato che essi sono, in fondo, un unico comandamento, e lo ha fatto non solo con la parola, ma soprattutto con la sua testimonianza: la Persona stessa di Gesù e tutto il suo mistero incarnano l’unità dell’amore di Dio e del prossimo, come i due bracci della Croce, verticale e orizzontale. Nell’Eucaristia Egli ci dona questo duplice amore, donandoci Se stesso, perché, nutriti di questo Pane, ci amiamo gli uni gli altri come Lui ci ha amato.

Cari amici, per intercessione della Vergine Maria, preghiamo affinché ogni cristiano sappia mostrare la sua fede nell’unico vero Dio con una limpida testimonianza di amore verso il prossimo.

(Papa Benedetto, Angelus 4 novembre 2012)

Fin dall'inizio del mio pontificato, ho ritenuto che il dialogo della Chiesa con le culture del nostro tempo fosse un campo vitale, nel quale è in gioco il destino del mondo in questo scorcio del secolo XX. Esiste infatti una dimensione fondamentale, in grado di consolidare o di scuotere fin dalle fondamenta i sistemi che strutturano l'insieme dell'umanità, e di liberare l'esistenza umana, individuale e collettiva, dalle minacce che pesano su di essa. Questa dimensione fondamentale è l'uomo, nella sua integralità. Ora l'uomo vive una vita pienamente umana grazie alla cultura. «Sì, l'avvenire dell'uomo dipende dalla cultura», dichiaravo nel mio discorso del 2 giugno 1980 all'UNESCO, rivolgendomi ad interlocutori così diversi per la loro provenienza e le loro convinzioni, aggiungendo: «Ci ritroviamo sul terreno della cultura, realtà fondamentale che ci unisce... Ci ritroviamo per ciò stesso intorno all'uomo e in un certo senso, in lui, nell'uomo».

Raccogliendo anch'io la ricca eredità del Concilio Ecumenico, del Sinodo dei Vescovi e del mio venerato predecessore Paolo VI, l'1 e il 2 giugno 1980 ho proclamato a Parigi, prima all'Istituto Cattolico, e poi davanti all'eccezionale assemblea dell'UNESCO, il legame organico e costitutivo che esiste tra il cristianesimo e la cultura, con l'uomo, quindi, nella sua stessa umanità. Questo legame del Vangelo con l'uomo, dicevo nel mio discorso davanti a quell'areopago di uomini e di donne di cultura e di scienza del mondo intero, «è, in effetti, creatore della cultura nel suo fondamento stesso». E, se la cultura è ciò per cui l'uomo, in quanto uomo, diviene maggiormente uomo, è in gioco, in essa, lo stesso destino dell'uomo. Di qui l'importanza per la Chiesa, che ne è responsabile, di un'azione pastorale attenta e lungimirante, riguardo alla cultura, in particolare a quella che viene chiamata cultura viva, cioè l'insieme dei principi e dei valori che costituiscono l'ethos di un popolo: «La sintesi tra cultura e fede non è solo un'esigenza della cultura, ma anche della fede... Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» («Discorso ai partecipanti al Congresso Nazionale del Movimento ecclesiale di impegno culturale»: «Insegnamenti», V, 1 [1982] 131), come dicevo il 16 gennaio 1982.

D'altronde, è urgente che i nostri contemporanei, e in modo particolare i cattolici, si interroghino seriamente sulle condizioni che sono alla base dello sviluppo dei popoli. E' sempre più evidente che il progresso culturale è intimamente legato alla costruzione di un mondo più giusto e più fraterno. Come ho detto a Hiroshima, il 25 febbraio 1981, ai rappresentanti della scienza e della cultura riuniti nell'Università delle Nazioni Unite: «La costruzione di una umanità più giusta o di una comunità internazionale più unita non è un sogno o un vano ideale. E' un imperativo morale, un sacro dovere, che il genio intellettuale e spirituale dell'uomo può affrontare mediante una nuova mobilitazione dei talenti e delle energie di ognuno e sfruttando tutte le risorse tecniche e culturali dell'uomo» («Insegnamenti», IV 1 [1981] 545).

Di conseguenza, in virtù della mia missione apostolica, io sento la responsabilità che mi incombe, nel cuore della collegialità della Chiesa universale, e in contatto ed accordo con le Chiese locali, di intensificare i rapporti della Santa Sede con tutte le realizzazioni della cultura, assicurando anche un rapporto originale in una feconda collaborazione internazionale, in seno alla famiglia delle nazioni, ossia delle grandi «comunità degli uomini uniti da vincoli diversi, ma soprattutto, essenzialmente dalla cultura» («Discorso all'UNESCO», 2 giugno 1980: «Insegnamenti» III [1980] 1636ss).

Per questo, ho deciso di fondare e di istituire un Consiglio per la Cultura, capace di dare a tutta la Chiesa un impulso comune nell'incontro, continuamente rinnovato, del messaggio salvifico del Vangelo con la pluralità delle culture, nella diversità dei popoli, ai quali deve portare i suoi frutti di grazia.

[Papa Giovanni Paolo II, Lettera con cui viene istituito il Pontificio Consiglio della Cultura, 20 maggio 1982]

Al centro del Vangelo di questa domenica (cfr Mc 12,28b-34), c’è il comandamento dell’amore: amore di Dio e amore del prossimo. Uno scriba chiede a Gesù: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» (v. 28). Egli risponde citando quella professione di fede con cui ogni israelita apre e chiude la sua giornata e che comincia con le parole «Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore» (Dt 6,4). In questo modo Israele custodisce la sua fede nella realtà fondamentale di tutto il suo credo: esiste un solo Signore e quel Signore è “nostro” nel senso che si è legato a noi con un patto indissolubile, ci ha amato, ci ama e ci amerà per sempre. È da questa sorgente, questo amore di Dio, che deriva per noi il duplice comandamento: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, con tutta la tua forza. […] Amerai il tuo prossimo come te stesso» (vv. 30-31).

Scegliendo queste due Parole rivolte da Dio al suo popolo e mettendole insieme, Gesù ha insegnato una volta per sempre che l’amore per  Dio e l’amore per il prossimo sono inseparabili, anzi, di più, si sostengono l’un l’altro. Pur se posti in sequenza, essi sono le due facce di un’unica medaglia: vissuti insieme sono la vera forza del credente! Amare Dio è vivere di Lui e per Lui, per quello che Lui è e per quello che Lui fa. E il nostro Dio è donazione senza riserve, è perdono senza limiti, è relazione che promuove e fa crescere. Perciò, amare Dio vuol dire investire ogni giorno le proprie energie per essere suoi collaboratori nel servire senza riserve il nostro prossimo, nel cercare di perdonare senza limiti e nel coltivare relazioni di comunione e di fraternità.

L’evangelista Marco non si preoccupa di specificare chi è il prossimo, perché il prossimo è la persona che io incontro nel cammino, nelle mie giornate. Non si tratta di pre-selezionare il mio prossimo: questo non è cristiano. Io penso che il mio prossimo sia quello che io ho preselezionato: no, questo non è cristiano, è pagano; ma si tratta di avere occhi per vederlo e cuore per volere il suo bene. Se ci esercitiamo a vedere con lo sguardo di Gesù, ci porremo sempre in ascolto e accanto a chi ha bisogno. I bisogni del prossimo richiedono certamente risposte efficaci, ma prima ancora domandano condivisione. Con un’immagine possiamo dire che l’affamato ha bisogno non solo di un piatto di minestra, ma anche di un sorriso, di essere ascoltato e anche di una preghiera, magari fatta insieme. Il Vangelo di oggi invita tutti noi ad essere proiettati non solo verso le urgenze dei fratelli più poveri, ma soprattutto ad essere attenti alla loro necessità di vicinanza fraterna, di senso della vita, di tenerezza. Questo interpella le nostre comunità cristiane: si tratta di evitare il rischio di essere comunità che vivono di molte iniziative ma di poche relazioni; il rischio di comunità “stazioni di servizio” ma di poca compagnia, nel senso pieno e cristiano di questo termine.

Dio, che è amore, ci ha creati per amore e perché possiamo amare gli altri restando uniti a Lui. Sarebbe illusorio pretendere di amare il prossimo senza amare Dio; e sarebbe altrettanto illusorio pretendere di amare Dio senza amare il prossimo. Le due dimensioni dell’amore, per Dio e per il prossimo, nella loro unità caratterizzano il discepolo di Cristo. La Vergine Maria ci aiuti ad accogliere e testimoniare nella vita di ogni giorno questo luminoso insegnamento.

[Papa Francesco, Angelus 4 novembre 2018]

In occasione della recente scomparsa dei miei genitori, allo strazio della malattia e della perdita di entrambi (a breve) si è aggiunto il fastidio di un ambiente che continuava a farmi le “condoglianze”.

Come per buona educazione, certo, ma chi ha assimilato il linguaggio della Fede non fa cordoglio alcuno, né parla di “morti” bensì di Defunti. Essi vivono.

Non da sopravvissuti ai colpi che la vita riserva, ma come dei ‘dilatati’, autentici, adorni - e finalmente realizzati appieno.

Donne e uomini ‘fioriti’ in tutto, che hanno sperimentato un nuovo genere di essere nella propria essenza; un’esistenza differente.

Come in una atmosfera d’amore puro, dove come Gesù non si vive più per se stessi, ma uno con l’altro e uno per l’altro.

Senza i cronometri pressanti, né gli abbandoni.

 

Il termine Defunti deriva dal verbo latino «defungor» [infinito «defungi»] il quale indica il termine parziale di una vicenda, non un compimento totale.

Non un confine definitivo che si aprirebbe sull’abisso nullificante e cavernicolo di ombre smarrite o larve senza slancio, prive d’identità e futuro - dopo il transito nel tempo.

Le condoglianze [dal latino «cum-dolēre»] si porgevano volentieri all’interno di una mentalità prettamente pagana o legata a un senso archetipo di religiosità.

Quel genere di convinzioni induceva nei parenti e amici un affliggersi - un piangere senza speranza - che Gesù rimprovera apertamente [Gv 11,33 testo greco; la traduzione italiana è incerta].

Credere che con la morte tutto finisca significa immaginare che l’esistenza sia un progressivo decadere nel vuoto.

Tale convinzione fa ritenere assurdo ogni cammino di crescita anche spirituale. E postula l’insensatezza di coinvolgersi, d’impegnarsi nell’ideale del Bene duraturo - per un Bello che prosegua oltre la nostra vicenda terrena e in favore del prossimo.

Le “condoglianze” stanno quindi per sé a indicare che tutto è finito.

 

In epigrafe al portale di un cimitero di una cittadina non troppo lontana da me si legge una scritta in caratteri cubitali: «qui nei secoli posano affetti vanità speranze».

Il freddo della fine di tutte le cose belle, e il “ghiaccio” del neoclassico rivisitato in stile primo Novecento... perfettamente abbinati su rivestimento di travertino imbiancato.

Invece la Speranza ci attira e rinfranca lo spirito, supera l’oltraggio, dona senso al nostro andare.

Già i credenti dei primi secoli avevano soppiantato l’idea pagana dell’appuntamento di nostra sorella morte quale «dies infaustus», sostituendolo nel suo opposto: «dies Natalis».

Giorno della vera Nascita, all’interno di una stessa Vita; ora completa, risanata.

Vita, che appunto continua - oltre i parametri temporali o di località. 

Senza la fatica dell’esistere che sperimentiamo. Immersi nella vastità dell’essere.

Vita senza le lotte contro di sé, e che prosegue nell’Abbraccio appagante, benedicente, di un Padre che non spersonalizza ma dilata l’esistere caratteriale, le qualità dei suoi figli.

In tale sbocciare pieno di luce e calore siamo come rifoggiati sul prototipo-Progetto dell’autentico Figlio.

Tratto di Alleanza che dovevamo e forse potevamo essere.

 

Sopraffatti di Felicità beata, perché la nostra parte-ombra è ora inclusa; priva di giudizi e commenti.

 

 

[Tutti i Fedeli Defunti, 2 novembre 2024]

Ott 21, 2024

Giudizio vs giudizi

Pubblicato in il Mistero

(Mt 25,31-46)

 

Il celebre brano del Giudizio presenta il Risorto veniente (v.31) come «Figlio dell’uomo» ossia sviluppo autentico e completo del progetto divino sull’umanità: il suo genere di “verdetto” ne consegue.

Dio abbraccia la condizione di limite delle sue creature, quindi il comportamento che realizza la nostra vita non riguarda l’atteggiamento religioso in sé, ma quello che abbiamo avuto verso i nostri simili.

È il richiamo evangelico della recente enciclica [ottobre 2020] sulla fraternità e l’amicizia sociale.

Consapevole della situazione, il Magistero si fa oggi pungolo d’ogni spiritualità di cerchia, ovvia e qualunquista; di qualsivoglia mistica da folklore, strapaesana... vuota, intimista, ancora seduta dentro armature da comodino.

 

In tutte le credenze antiche l’anima del defunto veniva soppesata su base notarile e giudicata secondo il saldo positivo o negativo.

Secondo i rabbini, la misericordia divina interveniva a favore, solo nel momento in cui le opere buone e cattive si bilanciavano.

Gesù non parla d’un tribunale che proclama sentenze negative immutabili sull’intera persona, ma dei tratti di esistenza completa che - essendo in sé indistruttibili perché umanizzanti - vengono salvati e assunti, introdotti nella esistenza definitiva.

«Vita dell’Eterno» (v.46 testo greco) allude a un genere di vita non biologico ma relazionale e di completezza di essere, che possiamo già sperimentare.

Si tratta di episodi in cui è affiorato il nostro DNA divino, l’Oro che ci abita: quando abbiamo saputo corrispondere ai bisogni non di Dio, ma della vita stessa e dei nostri fratelli.

Sono i momenti in cui siamo stati ascoltatori profondi della natura, della speranza e vocazione di tutti - sensibili alle necessità altrui.

Opportunità che ci hanno consentito di avvicinare la condizione umana a quella celeste.

 

Comparando le “opere” dichiarate “paradigma” con quelle degli elenchi del giudaismo classico (Is 58,6-7) e di altre religioni - persino dell’antico Egitto [Libro dei morti, c.125] - notiamo la differenza del v.36: «ero in prigione e siete venuti da me» (cf. vv.39.43).

La differenza è notevole proprio sotto il criterio della Giustizia divina: essa sorvola le considerazioni forensi, perché crea giustizia dove non c’è.

Il Padre pone vita in ogni caso, perché non è buono come si crede in tutte le persuasioni devote, bensì esclusivamente buono.

I “giusti” - poi - neppure si sono accorti di aver fatto chissà cosa: hanno corrisposto spontaneamente alla loro natura innata e trasparente di figli (v.39).

Hanno avuto simpatia per la “carne” nella realtà in cui si trova - e dove si trova - valutandola famigliare. Hanno amato con e come Gesù, in Lui.

Non hanno amato per Gesù - come se la condizione dell’altro potesse essere collocata fra parentesi, e sotto sotto considerata una seccatura sulla quale costruire una fiction, pur solidale.

Gli altri osservanti invece, tutti presi da formalismi di rito, dottrina e disciplina che a Dio non interessano, risultano sorpresi del fatto che il Padre non sia tutto lì dove lo avevano immaginato.

Ossia perbene ma vuoto e stagnante come loro, stretto nelle sentenze della giustizia ordinaria: «Quando ti abbiamo visto [...] in prigione e non ti abbiamo servito?» (v.44).

 

La vocazione a venire incontro ci porta spontaneamente a trasgredire le divisioni: legaliste, di retribuzione, o pregiudizi e genere di culto.

Questa la Salvezza eminente, di peso - che si annida nell’aspetto diretto e genuino. Non tanto nei propositi organizzati; né ha consistenza alcuna su base di opinioni.

 

Ci realizziamo nel corrispondere alla chiamata istintiva che sorge dalla nostra stessa impronta essenziale altruista: anche minima, malconsiderata, o eccentrica, malferma e poco adempiente - non straordinaria.

Senza condizioni troppo esteriori, essa si riconosce disseminata nell’anima e nella pienezza benefica, divinizzante, del «Figlio dell’uomo».

Insegnamento ultimo di Gesù: Giudizio insigne, globale e tutto umano. 

Non responso qualunquista o di contrabbando, a concetto e rendiconto.

 

Resta singolare l’identificazione di Gesù coi piccoli: «quanto avete fatto anche a uno solo di questi miei fratelli, quelli ultimi, avete fatto a me» (v.40).

Diversamente: «neppure a me avete fatto» (v.45).

La sua Persona ha un senso centrale, senza distinzione tra amici e controlegge, fra pii adempienti e non.

L’adesione a Cristo non si valuta sulla base di opere distanti dal Nucleo umanizzante.

Belle cose che possono essere compiute anche senza spirito di benevolenza [per dovere e cultura, o anche lustro e calcolo] - bensì sull’amore.

Dio non resta obbligato a premiare i meriti.

Le opere buone possono essere messe in mostra o adempiute anche contro il Padre: come per legargli le mani.

Un travisamento tipico delle religioni, che prevedono il premio ai devoti.

Fraintendimento estraneo all’esperienza di Fede, la cui unica sicurezza è nel rischio dell’esplorazione, nella crescita, nella qualità di relazioni - appunto, umanizzanti.

 

Vita e morte sono ben distinte [«destra e sinistra»: proverbialmente, fortuna e disgrazia] secondo le caratteristiche dell’autentica pietà verso Dio stesso... perché il suo onore si riflette nella promozione della donna e dell’uomo, colti nella loro situazione concreta.

Unico principio non negoziabile è il servizio al bene di ciascuna persona. 

Le opere d’amore sono espressione di Comunione vera col Cristo - in tal guisa liberate da tare cerebrali e di maniera: da ogni genere di limiti o giudizio che condizioni il loro valore.

Insomma, non c’è da fare cose mirate e straordinarie, o meccaniche, ma lasciar agire Dio - rispettando e valorizzando il fratello per quello che è.

Anche fuori dell’ambito visibile del regno degli apostoli (o di una dottrina-disciplina) v’è un autentico “cristianesimo”: civiltà dei figli.

Insomma, nessuna predestinazione alla condanna dei lontani o erranti e imperfetti, salvo per mancanza di fraternità che recupera l’impossibile - persino “controlegge”.

Autentica Regalità del Cristo e dei suoi.

 

In Palestina, di sera i pastori erano soliti separare le pecore dai capri che avevano bisogno di essere riparati dal freddo.

Allo scopo di sottolinearne l’importanza, la questione sollevata dall’evangelista fa propri i coloriti moduli di predicazione rabbinica.

Il problema non è quello di chi si salva e chi no.

La domanda è semmai: in quali occasioni siamo volentieri all’aperto anche di “notte”, e umanizziamo - e in quali ci comportiamo in modo più belluino, chiuso, però senza diventare... agnelli?

In Cristo la vittoria sull’egoismo perde il suo significato di annientamento delle possibilità di crescita individuale - che non si ottiene ostinandosi.

Il suo potere è tutt’altro che stagnante e divisivo. Non nasconde le capacità che non vediamo, o ciò che non sappiamo.

Le situazioni opposte sono i momenti gloriosi di una medesima vittoria. Lo si nota nel prosieguo del brano, che proclama l’altro estremo dell’amore: «il Figlio dell’uomo è consegnato per essere crocifisso» (Mt 26,2).

Quindi lo scopo di Mt non è quello di descrivere la fine del mondo, ma fornire indicazioni su come vivere saggiamente [oggi] per formare Famiglia e non rimanere affascinati dall’immediato luccichio di falsi monili - anche ben allestiti.

Il Richiamo dei Vangeli insiste sulla contrapposizione con una spiritualità frivola: unico distinguo opportuno.

L’uomo di Dio non soddisfa le brame di carriera neppure ecclesiastica, e ogni capriccio.

 

Suggerisce il Tao Tê Ching (iii) rivolgendosi persino al sapiente sovrano: «Non esaltare i più capaci, fa’ sì che il popolo non contenda; non pregiare i beni che con difficoltà s’ottengono, fa’ sì che il popolo non diventi ladro; non ottenere ciò che può bramarsi, fa’ sì che il cuore del popolo non si turbi».

Commenta il maestro Wang Pi: «Quando si esaltano i più capaci, si dà lustro al loro nome; la gloria va oltre il loro ufficio, ed essi stanno sempre ad abbaruffarsi, paragonando le loro capacità. Quando si fa pregio dei beni oltre la loro utilità, gli avidi vi si precipitano sopra, accapigliandosi; forano mura, scassinano forzieri, si fanno ladri a rischio della vita».

E il maestro Ho-shang Kung aggiunge, circa «coloro che il mondo giudica eccellenti»: «Con il loro eloquio specioso si adattano alle circostanze allontanandosi dal Tao, si attengono alla forma respingendo la sostanza».

 

L’Appello del Signore ribadisce gli aspetti qualitativi, di Persona in relazione: Egli illustra come vale la pena scommettere la vita.

Ciò affinché tutti possano sperimentare pienezza di essere - che non è il risultato dell’opportunismo.

E neppure dell’appartenenza: ogni discriminazione fra “chiamati” nella Chiesa visibile e lontani da essa viene sospesa.

 

Le immagini forti del brano di Vangelo servono a farci riflettere, aprire gli occhi, spostare l’orizzonte, imprimere nella nostra coscienza quanto vale la pena mettere in campo: tutto, circa le scelte da fare.

L’amore autentico che muove il cielo e la terra è quello che riesce a fare giusto il malvagio - nel Dono gratuito, privo di condizioni e forme di amor proprio. Persino esente da valutazioni sacrali.

Intuisce il Tao (xxxiii): «Chi opera queste cose? Il Cielo e la Terra [...] Chi si dà al Tao s’immedesima col Tao».

Il genuino sorge e fiorisce dal modo disinteressato e spontaneo, senza sforzo alcuno, né fine artificioso.

Qui l’uomo è un Soggetto diverso, ben più ricco - saldo in se stesso, ma che si dilata nel Tu divino e umano, anche indigente.

 

«Nella pagina evangelica di oggi, Gesù si identifica non solo col re-pastore, ma anche con le pecore perdute. Potremmo parlare come di una “doppia identità”: il re-pastore, Gesù, si identifica anche con le pecore, cioè con i fratelli più piccoli e bisognosi. E indica così il criterio del giudizio: esso sarà preso in base all’amore concreto dato o negato a queste persone […] Dunque, il Signore, alla fine del mondo, passerà in rassegna il suo gregge, e lo farà non solo dalla parte del pastore, ma anche dalla parte delle pecore, con le quali Lui si è identificato. E ci chiederà: “Sei stato un po’ pastore come me?” […] E torniamo a casa soltanto con questa frase: “Io ero presente lì. Grazie!” oppure: “Ti sei scordato di me”».

(Papa Francesco)

Ciò che conferisce valore ad ogni momento

(Gv 6,35-40)

 

Le parole di Gesù sottendono la netta dissimilitudine fra alimento ordinario e Pane che non perisce.

La distinzione è tratta da Dt 8,3 - in riferimento alla Manna-Parola del Signore (cibo sapienziale che libera e trasmette vita).

Sap 16,20-21.26 riconosce la manna del deserto essere cibo preparato da angeli, ma ciò che tiene davvero in vita è la Parola.

Quei frutti celesti, pur deliziosi e in grado di soddisfare ogni gusto, non saziano - non nutrono completamente.

Nel linguaggio simbolico usato da Cristo entrano anche paradigmi culturali che identificavano la manna con la sapienza.

Egli si autorivela così nel discorso sul Pane della Vita.

 

Venire al Signore non è alla nostra portata. Compiere le opere di legge, forse sì - con sforzo - ma compiere l’Opera di Dio non è innaturale.

Non dipende da un pensiero, da una scelta o da una pratica disciplinare.

Insomma, il Soggetto del cammino nello Spirito è Dio stesso, che opera in noi. 

L’azione umana è in ogni frangente una risposta al suo autosvelamento e al suo stesso agire [cosmico e nell’anima di ciascuno; convergente o non].

La Venuta dall’alto è critica: suscita la relazione di Fede. Relazione personale, la quale non è semplice assenso e adempimento, bensì lettura e visione.

Azione in avanti e scoperta di risuscitazione - in particolare, dei lati in penombra che diventano risorse.

Così la Fede-amore dilata la vita, perché ha il suo input dalla generosità divina, dalla Grazia.

Essa diventa in tal guisa decisione, occupazione, responsabilità; dovere ineludibile e dirimente - malgrado ciò, personale.

 

Cristo è un Cibo che dev’essere mangiato, sminuzzato, per mezzo della Fede.

L’evocazione si fa eucaristica, realizzazione della «Vita dell’Eterno» (v.40 testo greco) anche difforme da maniere ricercate; qui e ora.

Morendo, senza ritardo alcuno Gesù consegna lo Spirito (Gv 19,30) che repentinamente suscita l’esperienza sacramentale (Gv 19,34).

La Vita dell’Eterno non è una pia speranza nell’aldilà: il termine designa la stessa vita intima di Dio, la quale si dispiega e irrompe nella storia [talora senza troppi complimenti] in modo poliedrico.

Energia, Alimento, Lucidità nuova: raggiunge donne e uomini che vedono e credono nel Figlio.

Si tratta di una Fede-Visione che legge il senso, e abilita a un’appropriazione diretta: sorvola gli ostacoli insormontabili.

Una Fede-Gesto che zampilla; una Fede-Azione che diviene fermento di dilatazione, perché ha già suscitato acume, attenzione globale, e intimo consenso.

Essa acutizza ed espande le risorse trasformative delle anime e degli stessi accadimenti.

Dona in prima persona abilità generanti complessive - esteriori e interiori, indistruttibili; che non perdono nulla [non più votate alla morte: v.39].

 

Lo sguardo ottuso dintorno alle prime fraternità sigillava già il Mistero.

Ma contrariamente al Primo Testamento (Es 33,22-23), per Fede ora si vede Dio e si vive, senza più paura (Es 3,6).

Chi «vede» il Figlio «ha» la stessa Vita dell’Eterno (v.40).

La Visione di Fede, la Visione del Figlio, la Visione dell’esito glorioso di colui che è stato rigettato dalle autorità religiose e considerato maledetto da Dio, fa divenire Uno con Lui.

È Risurrezione attuale, pur nell’esperienza rapida e greve dell’esistenza dispersiva.

L’Immagine considerata impossibile e che non si poteva reggere, cede il passo a un processo d’interpretazione, azione, riassetto, che attira futuro.

Cede il passo alla completezza del mondo umanizzante e diverso di Dio.

Lo spostamento di sguardo rompe la trama delle apparenze, delle convinzioni banali, ereditate o à la page.

Insomma: coglierlo diventa motore di salvezza, fondamento che supera il pre-umano.

Percepirlo si fa Incontro; nella dimensione propria e perenne. Principio di eternità beata.

 

A fine primo secolo le chiese sentono il rischio del crollo.

La progressiva divaricazione dalla religione pagana in genere e la devozione giudaizzante in particolare, comportava un ampio dibattito con risvolti di costume e interni, persino liturgici.

La battaglia con il purismo farisaico scatenava polemiche di ogni tipo, anche circa la segregazione o meno degli stranieri.

Sorgevano difformità di vedute addirittura sul canone stesso delle Scritture (per i cristiani, già da tempo in greco ellenistico).

Secondo i credenti in Gesù la Sorgente della vita piena e indistruttibile [«Vita dell’Eterno»: v.40 testo greco] non è il pane materiale.

Già su questa terra l’Alimento totalizzante non sta in alcuna certezza banale.

Bisogna piuttosto «Vedere il Figlio» (v.40).

Significa cogliere nel Maestro una vicenda che non finisce nel fallimento, perché nonostante il rifiuto dei capi, l’esito della sua-nostra storia è la condizione divina. Gloria indistruttibile.

E «Credere in Lui» (v.40) non dipende dall’estrazione culturale o dalla posizione sociale concorde, ma da un’elaborazione irripetibile.

Vedere e avere Fede è affidarsi alla luminosa [sembra assurda] Visione che si comunica nelle fibre più intime e fin dalla prima ‘Nascita’. Certi della piena sintonia e realizzazione in quella Figura sovreminente.

 

Non aderiamo per entusiasmo o iniziative [la “Chiesa degli eventi”, come dice Papa Francesco].

La vita dell’Eterno in noi inizia nell’occhio dell’anima; eco del Sogno primordiale.

Essa s’introduce nel cogliere la traiettoria del Padre. Egli vuole per i suoi minimi una pienezza d’impronta e carattere, senza conformismi.

Solo grazie al Dono nel quale ci riconosciamo fin dalle nostre radici e in essenza, intuiamo consonanze liete che identificano desideri, parole, azioni e tipo di cammino del Risorto stesso, che pulsa in noi.

La Persona del Cristo è l’unico Cibo senza omologazione.

Sostentati dal Pane-Persona possiamo evitare sia la ricerca di finte sicurezze che la smania di appoggi. Ad es. conoscenze, finanziatori, istituzioni ragguardevoli che garantiscano privilegi; così via.

Preferendo il Pane Spezzato.

 

L’alimento della terra conserva la vita fisica, ma non può far rivivere attraverso Genesi personali uniche, né aprirci una strada valicando la morte.

Ciò conferisce valore ad ogni momento.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa significa per te vedere il Figlio e credere in Lui?

 

 

Non proiettare su Dio l’immagine del rapporto servi-padrone

 

La moltiplicazione dei pani e dei pesci è segno del grande dono che il Padre ha fatto all’umanità e che è Gesù stesso!

Egli, vero «pane della vita» (v. 35), vuole saziare non soltanto i corpi ma anche le anime, dando il cibo spirituale che può soddisfare la fame profonda. Per questo invita la folla a procurarsi non il cibo che non dura, ma quello che rimane per la vita eterna (cfr v. 27). Si tratta di un cibo che Gesù ci dona ogni giorno: la sua Parola, il suo Corpo, il suo Sangue. La folla ascolta l’invito del Signore, ma non ne comprende il senso – come capita tante volte anche a noi – e gli chiede: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?» (v. 28). Gli ascoltatori di Gesù pensano che Egli chieda loro l’osservanza dei precetti per ottenere altri miracoli come quello della moltiplicazione dei pani. E’ una tentazione comune, questa, di ridurre la religione solo alla pratica delle leggi, proiettando sul nostro rapporto con Dio l’immagine del rapporto tra i servi e il loro padrone: i servi devono eseguire i compiti che il padrone ha assegnato, per avere la sua benevolenza. Questo lo sappiamo tutti. Perciò la folla vuole sapere da Gesù quali azioni deve fare per accontentare Dio. Ma Gesù dà una risposta inattesa: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (v. 29). Queste parole sono rivolte, oggi, anche a noi: l’opera di Dio non consiste tanto nel “fare” delle cose, ma nel “credere” in Colui che Egli ha mandato. Ciò significa che la fede in Gesù ci permette di compiere le opere di Dio. Se ci lasceremo coinvolgere in questo rapporto d’amore e di fiducia con Gesù, saremo capaci di compiere opere buone che profumano di Vangelo, per il bene e le necessità dei fratelli.

Il Signore ci invita a non dimenticare che, se è necessario preoccuparci per il pane, ancora più importante è coltivare il rapporto con Lui, rafforzare la nostra fede in Lui che è il «pane della vita», venuto per saziare la nostra fame di verità, la nostra fame di giustizia, la nostra fame di amore.

(Papa Francesco, Angelus 5 agosto 2018)

Turnover nella Chiesa, antidoto all’unilateralità

(Mt 5,1-12)

 

Nel Vangelo di Mt Gesù è il nuovo Mosè che sale su «il Monte». Ma il giovane Legislatore non proclama norme su un codice di pietra, bensì la propria esperienza del Padre… «vedendo le folle» (v.1).

All’incrocio fra condizione divina e pienezza d’umanizzazione, il nuovo Rabbi delinea una sorta di suo Autoritratto: da Figlio; in favore dei suoi fratelli. Radunati in spirito di Famiglia.

Un germoglio di mondo ospitale - che nelle sue piccole chiese Mt vuole incoraggiare. Dove non c’è l’uomo al di sopra e quello sempre sotto; o il personaggio davanti e quello dietro.

Solo rivolgimenti umanizzanti [come appunto l’inversione dei ruoli e delle condizioni] che rinsaldano il tessuto concorde.

Dunque nella Casa di tutti dovrà esserci ricambio e capovolgimento di figure, situazioni e criteri di eminenza, quindi catene di comando - segni del Regno che Viene. 

Rovesciamento in grado di acuire le sensibilità alla Comunione [a quel tempo era vivace l’attrito fra esperti giudaizzanti, primi della classe, e ultimi arrivati alle soglie delle fraternità di fede].

 

Allora la mentalità delle precedenze e della supremazia era radicata al punto che tutte le religioni riconoscevano le gerarchie.

Coloro che si ritenevano in diritto di precedenza [nella comunità!] hanno sempre sollevato una questione di apparente ovvietà:

Non è forse nell’ordine naturale delle cose che nell’umana società ci siano primi e ultimi, dotti e ignoranti, sovrani e sudditi?

In fondo, il principio giuridico che un tempo regolava ad es. tutto il diritto di proprietà privata nel mondo latino è anche il motto in epigrafe di un noto quotidiano cattolico ufficiale: Unicuique Suum.

Anche Leone XIII, papa delle Encicliche sociali, riconosceva che «nella società umana è secondo l'ordine stabilito da Dio che vi siano prìncipi e sudditi, padroni e proletari, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, nobili e plebei; obbligo di carità dei ricchi e dei possidenti è quello di sovvenire ai poveri e agli indigenti».

Era la mentalità d'un peccato di semplice omissione: basta che poi si faccia la carità.

La posizione del Signore è molto molto diversa: il potente non è affatto il benedetto da Dio - come si supponeva fossero anche i ricchi patriarchi del Primo Testamento.

Il loro mondo estraneo, i palazzi, e persino il vestiario ricercato, sono perfetta metafora del vuoto interiore e dell’effimero di cui si beano.

Il loro ingozzarsi è segno d’un abisso intimo da colmare - una sorta di fame nervosa, che percepisce vertigine.

Così via, di alienazione in alienazione.

Su «il Monte» viene viceversa annunciata l’opera discreta dello Spirito, che designa il carattere d’una santità modesta, animata dall’Amore di dono, in sé divinizzante e umanizzante [qualità che si manifesta nei cosiddetti “poveri in Spirito”].

Santità la quale supera la fiction antica dei dominatori, i quali si accavallavano uno sull’altro recitando lo stesso copione.

Sinora infatti la massa permaneva a bocca asciutta: qualsiasi fosse il sovrano che s’impadronisse del potere, il gregge minuto restava sottomesso, triste e soffocato; indegno persino di presentarsi al Signore.

Tutti condannati e inadeguati.

Anche il popolo dei discepoli è accorato, perché non accetta le sperequazioni della società piramidale, la quale tende a livellare e annientare i Doni di Dio diffusi nell’umanità intera - di qualsiasi ceto sociale.

Il discepolo autentico giunge infatti sino alle lacrime: esse esprimono la dimensione di energia intima che purifica le idee esterne; ci fa veri da dentro, essenziali fuori.

L’afflizione guida a rientrare in se stessi; ripropone il contatto con la nostra terra e le virtù primordiali, che rigenerano.

Tristezza che nella condizione di finitudine e limite consapevole, rende empatici, splendidamente umani.

Intimamente insoddisfatti: oppositori delle ingiustizie. Perché ogni persona che non viene collocata nella condizione di poter esprimere le proprie capacità è un insulto al Disegno di Salvezza.

Non si tratta di elemosina o filantropia: è una scelta precisa, sociale (v.5).

In ciascun estromesso si cela infatti come un Artista cui non è dato esprimersi, che non viene scoperto né valorizzato in favore di sé e degli altri; piuttosto, considerato estraneo o un deviante.

Annalena Tonelli parlava infatti degli ultimi cui desiderava diminuire il dolore come di «Mozart assassinati»: ella desiderava recuperarli e coinvolgerli, per arricchire insieme. Avendo viscere materne - e il cuore nella miseria dei fratelli abbandonati.

 

Identica severità vigeva nelle religioni, i cui capi elargivano al popolo una forte e volgare pulsione da orda nazionalista, e il contentino dei gregari.

Invece nel Regno di Gesù devono mancare i ranghi - per questo il piano degli ambiziosi e privi d’errore non collima col suo.

Lo Spirito di Cristo s’identifica spontaneamente non con la consueta energia aggressiva delle belve, di chi prevale perché più astuto e forte - ma con la persona che mette se stessa a disposizione.

Siamo donne e uomini caratterizzati da cuore di carne - non di bestia (Dan 7).

 

Le Beatitudini - nuovo Decalogo de «il Monte» - alludono appunto a una sorta di condizione divina incarnata e trasmissibile a chiunque, pacificata e creativa come l’amore, quindi tutta da scoprire.

 

Beato è il tratto e l’esito dello sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità.

Nei Vangeli tale carattere non viene ostacolato dai frequentatori dei luoghi di malaffare, ma paradossalmente dagli habitué dei recinti sacri.

Secondo Gesù la purità di cuore non è legata all’incontaminatezza legale esterna - come si credeva in tutte le devozioni - bensì allo sguardo purificato e alla mancanza di doppiezza. 

La crescita e umanizzazione del popolo non è dunque contrastata dai peccatori, ma proprio da coloro che avrebbero il ministero di far conoscere a tutti il Volto di Dio!

Insomma, il carico di precomprensioni con il quale essi affrontano la realtà e le relazioni, non consente alle autorità costituite e fisse di riconoscere i richiami del Signore nei fatti della vita e della stessa Natura.

Così per i pacificatori.

Essi operano per la ricostruzione completa della Vita e della Fraternità, della stessa naturalezza e della Convivenza equa.

Tutto ciò, nello spirito di disinteresse che integra l’egoismo riconoscendo il Noi povero che si dilata nel mondo.

 

L’Autoritratto di Gesù come trapela dalle Beatitudini di Mt abbraccia l’icona d’un ragazzino - che a quel tempo non contava nulla.

Il Signore si riconosce appunto in un valletto di casa; un inserviente di bottega, che però ha in sé una misteriosa e gradevole scintilla divina.

È l’unica identificazione che Gesù ama e desidera consegnarci: quella di colui che non può permettersi di non riconoscere le esigenze altrui.

Dimensione di sacralità senza aureole distintive: non cinica, bensì condivisibile. Perché legata alla percezione e reciprocità istintiva, alla spontanea amicizia verso la donna e l’uomo - sperimentata nella somiglianza col Padre.

Ovvio: non si tratta d’una proposta compromessa con la solita trafila inesorabile [dottrina e disciplina] che ricaccia indietro le eccentricità: viceversa assai simpatica e amabile, inclusiva.

 

Quella del Beato è perciò la condizione che rende Unici - non la santità normata da procedure, che sta sempre ad aborrire, esorcizzare, il pericolo dell’inconsueto.

Proprio per questo - invece - la fissazione sulle antecedenze ha caratterizzato per secoli la vita della Chiesa; così come l’idolo feudale e monarchico della stabilità a vita.

Il Maestro non esclude il nostro diritto a fare qualcosa di grande... ma non lo identifica con l’avere, il potere, l’apparire.

Per un cammino di Beatitudine e Divinizzazione, il Maestro non eccita le pulsioni del trattenere, salire, dominare: non danno Felicità.

Conta piuttosto sulla nostra libertà spontanea di donare, scendere e servire - una franchigia affidata anzitutto ai primi della classe. Coloro che nella storia hanno fatto il callo a soverchiare gli altri di moralismi e astuzie.

 

Dio non rinnega le legittime pulsioni dell’io a essere riconosciuto. Non partecipiamo alla vita come fossimo destinati al fallimento, bensì come dei promossi - i quali non sopprimono i propri requisiti.

Ma non per vincere “la gara”. In tal guisa, il Signore ci fa riflettere sull’autentica realizzazione.

Non si tratta d’una conquista esteriore, ma intima e fatta propria. Essa è in grado così di scolpire la nostra inclinazione profonda, nella sua ricchezza di volti e nel tempo di un Percorso.

Aristotele affermava che - al di là di petizioni di principio artificiali o proclami apparenti - si ama davvero solo se stessi. È un punto di domanda non da poco.

Ammesso e non concesso, la crescita, promozione e fioritura delle nostre qualità si colloca all’interno d’una Via sapiente.

Sentiero persino interrotto che sa concedersi il giusto ritmo - anche per incontrare nuovi stati dell’essere.

L’amore genuino e maturo dilata i confini dell’ego amante del primato, della visibilità e del tornaconto. Lo integra con energie primordiali, sopite, cui non abbiamo dato spazio - comprendendo il Tu nell’io.

Itinerario e Vettore che poi espande le capacità e la vita. Altrimenti in ogni circostanza e purtroppo a qualsiasi età rimarremo nel gioco puerile di chi sgomita sui gradini per prevalere.

Come ha detto Papa Francesco circa i fenomeni mafiosi: «C’è bisogno di uomini e donne di Amore, non di onore!».

Scrive il Tao Tê Ching (XL): «La debolezza è quel che adopra il Tao». E il maestro Wang Pi commenta: «L’alto ha per basamento il basso, il nobile ha per fondamento il vile».

 

Ci sentiamo effimeri e spesso delusi, eppure vogliamo essere felici, non solo qua e là: siamo incerti, eppure cerchiamo gioia piena e duratura. Ovvio che possiamo trovarla solo in una proposta sconcertante.

Nei tempi antichi si pensava di poter incontrare Dio nelle emozioni inebrianti generate da esperienze di successo, tipiche degli uomini riusciti. Ma il Figlio perseguitato e crocifisso ne contesta l’esteriorità.

Altri appuntamenti decisivi erano considerati quelli sulle cime di alture suggestive, o il lasciarsi precipitare devoto e parossistico proprio dentro i recinti sacri che Gesù intendeva smantellare, costringendo il popolo a uscirne [Gv 10,1-16 testo greco].

Lutero interpreta il Figlio di Dio su il Monte quale «Mosissimus Moses». Tuttavia, Mt parla de “il Monte” - non una tribuna - come figura e contesto d’un Appello eterno, non solo destinato ai membri degli istituti di perfezione più attrezzati e in grado di salire.

In concreto, si tratta dei momenti in cui noi stessi incorporati alla completezza umana del Cristo sentiamo pienezza di essere: come il trascorrere dell’anima sposa nel suo centro sacro, e una speciale sintonia d’idee, parole e azioni fra la nostra natura - e la divina.

«Il Monte» è il luogo (teologico) in cui si abbandonano i pensieri, i saperi e i calcoli astuti, conformisti, della pianura mondana. Ove si livellano i presupposti della felicità ilare e passeggera [quella che dura un minuto o un’ora].

Dunque Beati i poveri «allo Spirito» - ovvero «per lo Spirito» - dice Gesù [v.3a testo greco].

Nella comunità cristiana è importante (appunto) arricchire insieme.

Il Signore si compiace di coloro che intraprendono tale orientamento, dove i suoi sentimenti diventano profondamente nostri - e importanti non sono le minuzie, bensì la direzione di marcia.

Dettagli particolari della vita d’amore sono lasciati alla creatività personale e alla varietà delle persone; sensibilità, culture, situazioni. 

Conta l’opzione fondamentale al bene e alla comunione, intesa non come uniformità - bensì convivialità delle differenze.

Non per disprezzare istericamente la ricchezza: si tratta di scambiarla, affinché si moltiplichi evitando di trattenere per sé. Altrimenti tutto diventa ostacolo insormontabile per la vita, e appannaggio dei più svelti.

Chi si è liberamente espropriato del superfluo onde condividerlo, lo fa «per lo Spirito» ossia per Amore: per libera scelta, con passione e senza distinzione fra beneficiari di cerchia e non.

Così l’arricchito diventa signore.

A sua volta, il miserabile può non essere povero «allo Spirito» se gonfio di sé, vanaglorioso, superbo, disinteressato agli altri; se privo di apertura di cuore, estraneo al dialogo, intenzionato a migliorare la propria condizione con compromessi e inganno - solo desideroso di sostituirsi ai ricchi per poi ricalcarne i modi menzogneri, soggioganti e opportunisti.

 

La rinuncia volontaria all’uso egoistico e mediocre delle proprie risorse materiali e sapienziali ci contraddistingue quali figli di Dio.

Consanguinei; già qui e ora in grado di sperimentare la vita beata del Cielo: essere con e per gli altri, essendo se stessi.

Infatti, la promessa che accompagna la prima Beatitudine (v.3a) non assicura l’accesso al Paradiso nell’aldilà, in un futuro lontano.

Lo scambio dei doni garantisce l’esperienza della stessa vita divina, proprio sulla terra.

Nelle religioni pagane la condizione di Vita Beata era caratteristica gelosa ed esclusiva delle divinità, che di malavoglia la partecipavano; e in modo rassicurante, solo dopo la morte. Comunque a metà.

In Cristo e per Via, malgrado i fallimenti parziali, o le nostre eventuali scarse capacità e fragilità naturali - anzi, a motivo di esse - scopriamo un Padre amico della Gioia piena, carica: Felicità immediata, energetica, senza limiti. Che sorge persino da stati malfermi.

Il Padre non è il Dio delle religioni che appannano e affannano la vita: non benedice l’ingordigia di pochi, che rende bisognose le moltitudini.

L’ultimo dei comandamenti imponeva di sentirsi appagati e non desiderare la roba altrui?

La prima delle Beatitudini propone di desiderare che anche gli altri abbiano le nostre medesime cose e possibilità di vita.

La dinamica dell’innamoramento suppone in ogni sua declinazione, una Pienezza fremente che sfocia ovunque - riconoscendo gli opposti in noi e il legittimo desiderio di compiutezza espressiva nei fratelli.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come superi il dubbio, ripiegandoti? Cosa annunci con la tua vita? Essa oltrepassa l’esperienza diretta? Conosci realtà che manifestano il Risorto? Come additi sentieri esuberanti di speranza? Oppure sei selettivo e taci?

 

 

 

Hanno fatto passare la Luce

 

Tutti i Santi, tra senso religioso e Fede

 

Incarnando lo spirito delle Beatitudini, ci chiediamo quale sia la differenza tra “sentire religioso” comune, e “vivere di Fede”.

Nelle devozioni antiche il Santo è l’uomo compos sui, perfetto e distaccato [ma prevedibile]; e il contrario di Santo è «peccatore».

Nella proposta di vita piena nel Signore, il «santo» è persona d’intesa comunicativa e che vive per la convivialità, creandola dove non c’è.

Nel cammino dei figli il Santo è sì l’uomo eccellente, ma nel suo senso compiuto - pieno e dinamico, poliedrico; perfino eccentrico. Non in una accezione unilaterale, moralistica o sentimentale.

Nella lingua latina perfìcere significa condurre a termine, andare sino in fondo.

In tale accezione completa e integrale, “perfetto” diventa un valore incarnato autentico: attributo possibile - d’ogni persona consapevole della propria condizione di vulnerabilità, e non la disprezza.

La donna e l’uomo di Fede valorizzano ogni occasione o emozione che mettono a nudo la condizione di nudità [non colpa] per aprire nuove strade e rinnovarsi.

In ottica di vita nello Spirito il santo [in ebraico Qadosh, attributo divino] è sì l’uomo «distacccato», ma non in senso parziale o fisico, bensì ideale.

Non è la persona che a un certo punto della vita prende le distanze dalla famiglia umana per intraprendere un sentiero di purificazione che la innalzerebbe. Illudendosi di migliorare.

Come sottolinea l'enciclica Fratelli Tutti: «Un essere umano [...] non si realizza, non sviluppa, non può trovare la propria pienezza [... e] non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri» (n.87).

Il testimone autentico non è animato dal disprezzo del caos esistenziale - né desideroso di appaltare le difficoltà di gestione della propria libertà consegnandola a un’agenzia alienante, dalla mentalità appartata (che risolva il dramma delle scelte personali).

In Cristo l’uomo è un «disgiunto» dalla mentalità comune, in quanto fedele a se stesso, al proprio Fuoco che non si estingue - alle passioni, alla propria irripetibile unicità e Vocazione.

E insieme, «separato» da criteri competitivi esterni: dell’avere, del potere, dell’apparire. Potenze autodistruttive.

A queste ultime, sostituisce concretamente la fraternità del donare, del servire e dello sminuirsi [dal “personaggio”]. Energie feconde.

Tutto per la Comunione globale, e in Verità anche con il proprio intimo seme caratteriale - evitando proselitismi e il farsi notare nelle passerelle.

Il vero credente conosce il suo limite redento, vede le possibilità dell’imperfezione... Così sostituisce i presupposti del trattenere per sé, del salire sugli altri e del dominarli, con un fondamentale trittico umanizzante: elargire, libertà di “scendere”, collaborare.

Questo l’autentico Distacco, che non fugge le proprie e altrui inclinazioni, né disprezza il tratto complesso della condizione umana.

In tal guisa, il «santo» vive la Beatitudine essenziale dei perseguitati (Mt 5,11-12; Lc 6,22-23) perché ha la libertà di “abbassarsi” per essere in sintonia con la propria essenza; coesistendo nella sua originalità.

In termini di Fede, il Santo non è più dunque un fisicamente «separato», bensì «Unito» a Cristo - e messo al bando come Lui, nei fratelli deboli.

Insomma, il Disegno divino è comporre Famiglia di piccoli e malfermi, non ritagliarsi un gruppo di amici “forti”, e “migliori” degli altri.

Solo quest’orizzonte di Focolare ci spinge a partire.

Di conseguenza, contrario di Santo non è «peccatore», bensì irrealizzato o incompiuto.

 

Vediamone ancora il motivo (vocazionale e per strade personali).

Gesù era amico di pubblicani e pubblici peccatori non perché migliori dei buoni, ma perché in religione i «giusti» risultano non di rado poco spontanei; rendendosi impermeabili, chiusi, refrattari all’azione dello Spirito.

Con sorpresa, il Signore stesso ha fatto ripetuta esperienza che proprio le persone devotamente carenti erano volte a interrogarsi, accorgersi, rielaborare, deviare dall’assuefazione - per l’edificazione di nuovi sentieri, anche procedendo a tastoni.

Non potendo godere del mantello perbenista di paraventi sociali, dopo una presa di coscienza della propria situazione (e nel tempo) - rispetto a coloro che si ritenevano “arrivati” e amici di Dio - da “lontani” diventavano persone più degli “impeccabili” disposte ad amare.

 

Il mettersi in discussione è fondamentale in ottica biblica.

Ad ogni pie’ sospinto la Scrittura ci propone una spiritualità dell’Esodo, ossia una strada di liberazione da pastoie e percorsa come a piedi, passo dopo passo. Quindi che valorizza sentieri di ricerca, esplorazione, scoperta di sé e della Novità di un Dio che non ripete, ma crea.

L’Appello che la Parola rivolge è a intraprendere un itinerario; questo il punto. E da sempre noi siamo «quelli della Via» e che non passano oltre, non girano lo sguardo dall’altra parte [cf. Lc 10,31-33; FT, 56ss].

 

Per la mentalità pagana classica, la donna e l’uomo sono essenzialmente “natura”, quindi il loro essere nel mondo è condizionato [ricordo che il mio professore di antropologia teologica Ignazio Sanna diceva addirittura «de-centrato»], persino determinato dalla nascita (fortunata o meno).

Secondo la Bibbia la donna e l’uomo sono creature, splendide e adeguate in sé alla propria missione, ma pellegrine e carenti.

Dio è Colui che li «chiama» a completarsi, recuperando gli aspetti difformi.

 

Per giungere a essere immagine e somiglianza del Signore, dobbiamo sviluppare capacità di risposta a una Vocazione che ci rende non dei fenomeni, né “perfetti” eccezionali, bensì Testimoni particolari.

Scelti per Nome, così come siamo; che abbracciano il loro essere profondo - anche inespresso - fino a riconoscerlo nel Tu, e dispiegarlo nel Noi.

La santità di una persona si coniuga dunque con moltissimi dei suoi stati d’insoddisfazione, di confine, e persino di fallimento parziale - ma sempre pensando e sentendo la realtà.

Per una Nuova Alleanza.

 

Nell’Antico Testamento il credente entrava in contatto con la purità divina frequentando luoghi sacri, adempiendo prescrizioni, recitando preghiere, rispettando tempi e spazi, scansando situazioni imbarazzanti; così via.

La nostra esperienza e coscienza attestano infallibilmente che l’osservanza rigorosa è troppo rara, o di maniera: dentro, spesso non ci corrisponde - né umanizza.

Essa diventa presto o tardi un castello di carte, malfermo tanto più punta “in alto”. Basta disporne una sola in modo maldestro, e la costruzione artificiosa crolla.

Ci rendiamo conto della nostra naturale impossibilità a soddisfare sterilizzazioni, mappe (altrui) e standard così elevati.

Con Gesù la Perfezione non riguarda il “pensiero”, né il rispetto di un Codice di osservanze astratto. La Compiutezza è in riferimento a una qualità di Esodo e Relazione.

In antichi contesti il cammino dei figli è stato ammantato d’una proposta misticheggiante o rinunciataria fatta di astinenze, digiuni, ritiri, vita appartata, adempimenti cultuali ossessivi... che in molte situazioni hanno costituito la trama portante della spiritualità pre-Conciliare.

Ma nella Scrittura i Santi non hanno l’aureola e neppure le ali.

Non sono tali per aver compiuto miracoli di guarigione incomparabili e stupefacenti: bensì donne e uomini inseriti nel mondo comune e negli aspetti più ordinari. 

Essi conoscono i problemi, le debolezze, le gioie e i dolori della vita quotidiana; la ricerca della propria identità-carattere, o inclinazione profonda.

E l’apostolato; la famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro. La forza di seduzione del male, perfino.

 

Nel Primo Testamento «Qadosh» designava esclusivamente un attributo dell’Eterno [unica Persona non intermittente] - e la sua separatezza dall’intreccio delle spesso confuse ambizioni terrene.

Malgrado i difetti, però, in Cristo diventiamo capaci di ascolto, di percezione; quindi abilitati a cogliere ogni opportunità per rendere testimonianza della Gratuità innata, vitale, dell’iniziativa divina e reale.

Incessantemente la vita provvidente si propone e viene incontro per aprire varchi impensabili, che fanno breccia.

I suoi inediti tragitti di crescita rinnovano l’esistere tutto concatenato e conforme.

Ciò anche facendoci stupire delle risorse intime, prima inconsapevoli o inconfessate e sottaciute, ovvero imprevedibilmente nascoste dietro lati oscuri.

 

Quel ch’è Insigne non viene più spostato dietro nuvolette e collocato in recinti muniti.

Pertanto, avversario di Dio non sarà la trasgressione: diventa viceversa la mancanza di spirito di Comunione, nelle differenze.

Nemico della storia di Salvezza non è l’incompletezza religiosa, ma il divario dalle Beatitudini - e dallo spirito in fieri del «viandante» per il quale “peregrinare” è sinonimo [non paradossale] anche di “errare”.

Contrapposto di Dio non sono dunque “i peccati”, bensì «il» Peccato [al singolare, termine teologico, non moralistico].

“Peccato” è l’incapacità di corrispondere a una Chiamata indicativa, che fa da molla per completarci, per rigenerarci non parziali. Ciò armonizzando i lati opposti - nell’essere noi stessi ed essere-Con.

Qui è la Fede che «salva», nel punto in cui ci troviamo - perché annienta «il peccato del mondo» (Gv 1,29) ossia la disistima e senso di colpa; l’umiliazione delle distanze incolmabili.

Infatti Gesù non raccomanda dottrine, né di parcellizzare la propria vicenda con etilismi puntuali. Neppure prospetta alcuna religiosa scalata [in termini di progressività] condita di sforzi.

A nessuno nei Vangeli il Cristo dice «fatti santo», bensì con Lui, come Lui e in Lui - Unito, per incontrare incessantemente i propri stati profondi.

Riconoscendoli meglio, anche grazie al Tu e al Noi.

 

Il Santo è il piccolo, non l’eroe tutto d’un pezzo, uniforme, pronosticabile, scontato.

Santo è colui che percorrendo la propria via nella scia del Risorto, ha imparato a «identificarsi con l'altro, senza badare a dove [né] da dove [...] in definitiva sperimentando che gli altri sono sua stessa carne» (cf. FT 84).

12. Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo. La parola « vita eterna » cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. « Eterno », infatti, suscita in noi l'idea dell'interminabile, e questo ci fa paura; « vita » ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l'altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell'immergersi nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo.

[Papa Benedetto, Spe salvi]

Carissimi Fratelli e Sorelle!

1. Dopo aver celebrato ieri la Solennità di Tutti i Santi, oggi, due novembre, il nostro sguardo orante si volge a coloro che hanno lasciato questo mondo e attendono di raggiungere la Città celeste. Da sempre la Chiesa ha esortato a pregare per i defunti. Essa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna. "Mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno - leggiamo nel prefazio odierno -, viene preparata un’abitazione eterna nel Cielo".

2. E’ importante e doveroso pregare per i defunti, perché anche se morti nella grazia e nell’amicizia di Dio, essi forse abbisognano ancora di un’ultima purificazione per entrare nella gioia del Cielo (cfr Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1030). Il suffragio per loro si esprime in vari modi, tra i quali anche la visita ai cimiteri. Sostare in questi luoghi sacri costituisce un’occasione propizia per riflettere sul senso della vita terrena e per alimentare, al tempo stesso, la speranza nell'eternità beata del Paradiso.

Maria, Porta del cielo, ci aiuti a non dimenticare e a non perdere mai di vista la Patria celeste, meta ultima del nostro pellegrinaggio qui sulla Terra.

[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 2 novembre 2003]

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Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
People have a dream: to guess identity and mission. The feast is a sign that the Lord has come to the family
Il popolo ha un Sogno: cogliere la sua identità e missione. La festa è segno che il Signore è giunto in famiglia
“By the Holy Spirit was incarnate of the Virgin Mary”. At this sentence we kneel, for the veil that concealed God is lifted, as it were, and his unfathomable and inaccessible mystery touches us: God becomes the Emmanuel, “God-with-us” (Pope Benedict)
«Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». A questa frase ci inginocchiamo perché il velo che nascondeva Dio, viene, per così dire, aperto e il suo mistero insondabile e inaccessibile ci tocca: Dio diventa l’Emmanuele, “Dio con noi” (Papa Benedetto)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situationsi
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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