Ma il paradosso cristiano è che il Giudice non riveste una regalità temibile, ma è un pastore pieno di mitezza e di misericordia.
Gesù, infatti, in questa parabola del giudizio finale, si serve dell’immagine del pastore. Prende le immagini dal profeta Ezechiele, che aveva parlato dell’intervento di Dio in favore del popolo, contro i cattivi pastori d’Israele (cfr 34,1-10). Questi erano stati crudeli, sfruttatori, preferendo pascere sé stessi piuttosto che il gregge; pertanto Dio stesso promette di prendersi cura personalmente del suo gregge, difendendolo dalle ingiustizie e dai soprusi. Questa promessa di Dio per il suo popolo si è realizzata pienamente in Gesù Cristo, il Pastore: proprio Lui è il Buon Pastore. Anche Lui stesso dice di sé: «Io sono il buon pastore» (Gv 10,11.14).
Nella pagina evangelica di oggi, Gesù si identifica non solo col re-pastore, ma anche con le pecore perdute. Potremmo parlare come di una “doppia identità”: il re-pastore, Gesù, si identifica anche con le pecore, cioè con i fratelli più piccoli e bisognosi. E indica così il criterio del giudizio: esso sarà preso in base all’amore concreto dato o negato a queste persone, perché Lui stesso, il giudice, è presente in ciascuna di esse. Lui è giudice, Lui è Dio-uomo, ma Lui è anche il povero, Lui è nascosto, è presente nella persona dei poveri che Lui menziona proprio lì. Dice Gesù: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto (o non avete fatto) a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete (o non l’avete) fatto a me» (vv. 40.45). Saremo giudicati sull’amore. Il giudizio sarà sull’amore. Non sul sentimento, no: saremo giudicati sulle opere, sulla compassione che si fa vicinanza e aiuto premuroso.
Io mi avvicino a Gesù presente nella persona dei malati, dei poveri, dei sofferenti, dei carcerati, di coloro che hanno fame e sete di giustizia? Mi avvicino a Gesù presente lì? Questa è la domanda di oggi.
Dunque, il Signore, alla fine del mondo, passerà in rassegna il suo gregge, e lo farà non solo dalla parte del pastore, ma anche dalla parte delle pecore, con le quali Lui si è identificato. E ci chiederà: “Sei stato un po’ pastore come me?”. “Sei stato pastore di me che ero presente in questa gente che era nel bisogno, o sei stato indifferente?”. Fratelli e sorelle, guardiamoci dalla logica dell’indifferenza, di quello che ci viene in mente subito: guardare da un’altra parte quando vediamo un problema. Ricordiamo la parabola del Buon Samaritano. Quel povero uomo, ferito dai briganti, buttato per terra, fra la vita e la morte, era lì solo. Passò un sacerdote, vide, e se ne andò, guardò da un’altra parte. Passò un levita, vide e guardò da un’altra parte. Io, davanti ai miei fratelli e sorelle nel bisogno, sono indifferente come questo sacerdote, come questo levita, e guardo da un’altra parte? Sarò giudicato su questo: su come mi sono avvicinato, di come ho guardato Gesù presente nei bisognosi. Questa è la logica, e non lo dico io, lo dice Gesù: “Quello che avete fatto a questo, a questo, a questo, lo avete fatto a me. E quello che non avete fatto a questo, a questo, a questo, non lo avete fatto a me, perché io ero lì”. Che Gesù ci insegni questa logica, questa logica della prossimità, dell’avvicinarsi a Lui, con amore, nella persona dei più sofferenti.
Chiediamo alla Vergine Maria di insegnarci a regnare nel servire. La Madonna, assunta in Cielo, ha ricevuto dal suo Figlio la corona regale, perché lo ha seguito fedelmente – è la prima discepola - nella via dell’Amore. Impariamo da lei a entrare fin da ora nel Regno di Dio, attraverso la porta del servizio umile e generoso. E torniamo a casa soltanto con questa frase: “Io ero presente lì. Grazie!” oppure: “Ti sei scordato di me”.
[Papa Francesco, Angelus 22 novembre 2020]
Ma viene a noi ogni giorno
La pagina evangelica si apre con una visione grandiosa. Gesù, rivolgendosi ai suoi discepoli, dice: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria» (Mt 25,31). Si tratta dell’introduzione solenne del racconto del giudizio universale. Dopo aver vissuto l’esistenza terrena in umiltà e povertà, Gesù si presenta ora nella gloria divina che gli appartiene, circondato dalle schiere angeliche. L’umanità intera è convocata davanti a Lui ed Egli esercita la sua autorità separando gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre.
A quelli che ha posto alla sua destra dice: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (vv. 34-36). I giusti rimangono sorpresi, perché non ricordano di aver mai incontrato Gesù, e tanto meno di averlo aiutato in quel modo; ma Egli dichiara: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (v. 40). Questa parola non finisce mai di colpirci, perché ci rivela fino a che punto arriva l’amore di Dio: fino al punto di immedesimarsi con noi, ma non quando stiamo bene, quando siamo sani e felici, no, ma quando siamo nel bisogno. E in questo modo nascosto Lui si lascia incontrare, ci tende la mano come mendicante. Così Gesù rivela il criterio decisivo del suo giudizio, cioè l’amore concreto per il prossimo in difficoltà. E così si rivela il potere dell’amore, la regalità di Dio: solidale con chi soffre per suscitare dappertutto atteggiamenti e opere di misericordia.
La parabola del giudizio prosegue presentando il re che allontana da sé quelli che durante la loro vita non si sono preoccupati delle necessità dei fratelli. Anche in questo caso costoro rimangono sorpresi e chiedono: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?» (v. 44). Sottinteso: “Se ti avessimo visto, sicuramente ti avremmo aiutato!”. Ma il re risponderà: «Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me» (v. 45). Alla fine della nostra vita saremo giudicati sull’amore, cioè sul nostro concreto impegno di amare e servire Gesù nei nostri fratelli più piccoli e bisognosi. Quel mendicante, quel bisognoso che tende la mano è Gesù; quell’ammalato che devo visitare è Gesù; quel carcerato è Gesù; quell’affamato è Gesù. Pensiamo a questo.
Gesù verrà alla fine dei tempi per giudicare tutte le nazioni, ma viene a noi ogni giorno, in tanti modi, e ci chiede di accoglierlo. La Vergine Maria ci aiuti a incontrarlo e riceverlo nella sua Parola e nell’Eucaristia, e nello stesso tempo nei fratelli e nelle sorelle che soffrono la fame, la malattia, l’oppressione, l’ingiustizia. Possano i nostri cuori accoglierlo nell’oggi della nostra vita, perché siamo da Lui accolti nell’eternità del suo Regno di luce e di pace.
[Papa Francesco, Angelus 26 novembre 2017]