don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

«Dio ricco di misericordia» (Ef 2,4) è colui che Gesù Cristo ci ha rivelato come Padre: proprio il suo Figlio, in se stesso, ce l'ha manifestato e fatto conoscere.

Quanto più la missione svolta dalla Chiesa si incentra sull'uomo, quanto più è, per così dire, antropocentrica, tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre. Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell'ultimo Concilio.

[Papa Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia n.1]

Venerdì, 16 Agosto 2024 18:20

Hanno perso la chiave dell’intelligenza

Ecco che, ha affermato il Papa, costoro «arrivano a un mucchio di prescrizioni e per loro questa è la salvezza: hanno perso la chiave dell’intelligenza che, in questo caso, è la gratuità della salvezza». In realtà «la legge è una risposta all’amore gratuito di Dio: è Lui che ha preso l’iniziativa di salvarci e perché tu mi hai amato tanto, io cerco di andare per la tua strada, quella che tu mi hai indicato», in una parola «io compio la legge». Ma «è una risposta» perché «la legge, sempre, è una risposta e quando si dimentica la gratuità della salvezza si cade, si perde la chiave dell’intelligenza della storia della salvezza».

E, ancora, ha rilanciato il Pontefice, quelle persone «hanno perso la chiave dell’intelligenza perché hanno perso il senso della vicinanza di Dio: per loro Dio è quello che ha fatto la legge» ma «questo non è il Dio della rivelazione». In realtà «il Dio della rivelazione è Dio che ha incominciato a camminare con noi da Abramo fino a Gesù Cristo: Dio che cammina con il suo popolo». Perciò «quando si perde questo rapporto vicino con il Signore, si cade in questa mentalità ottusa che crede nell’autosufficienza della salvezza con il compimento della legge».

Proprio «il passo evangelico di oggi ne segnala due», è stata la risposta. «Prima di tutto la chiusura: “Voi non siete entrati e a quelli che volevano entrare, voi l’avete impedito”». Sì, «questa gente chiudeva la porta ai fedeli e i fedeli non capivano: loro, tutta la loro teologia morale, facevano del manierismo intellettuale, ma non arrivava alla gente e, con questo, allontanavano la gente. No, questa non è la religione che io volevo: questa non è la verità della salvezza in Gesù Cristo». E, ha precisato il Pontefice, «io qui penso alla responsabilità che abbiamo noi pastori: quando noi pastori perdiamo o portiamo via la chiave dell’intelligenza, chiudiamo la porta a noi e agli altri».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 20/10/2017]

«Da Chi andremo?». La Fede, segno critico (non attenuato)

(Gv 6,60-69)

 

Un Dio a nostro livello? «Questo Logos è sclerotico» (v.60) - come dire: immaginare che l’Altissimo si accomuni ai ‘minimi’ in tutto è posizione incomprensibile e offensiva.

Può l’Eterno riconoscersi in un semplice figlio d’uomo?

Come nel suo ministero in Giudea, l’ultima attività di Gesù in Galilea termina con un insuccesso (v.66).

Anche i discepoli che gustano la nuova Parola restano delusi.

Molti del popolo lo cercavano come facitore di miracoli - continuando ad accontentarsi dei punti di riferimento dominanti, del medesimo pane materiale di sempre.

Cristo non è per il continuare ad adeguarsi, ma per un Nutrimento consistente. Ecco la crisi: essa non manca quando si è posti di fronte a scelte serie.

Il Maestro aveva una chiave di lettura diversa. E il dramma nuziale non si poteva risolvere in comode parentesi.

Proposte quali la comunione dei beni, la scelta dell’ultimo posto, il benvenuto concesso non solo ai vicini del clan e così via, ribaltano l’idea di grandezza e fallimento.

 

L’interrogativo inquieta: «Ma volete andarvene anche voi?» (v.67).

Pietro risponde al plurale, esprimendo la Fede del piccolo gruppo che si azzarda, senza troppe chiavi di circostanza - e che può essere nostra.

La crisi di Galilea non è un pallido ricordo storico, ma uno spartiacque al centro del quale siamo tutti - ogni giorno. Un evento persistente, che ci divide dai facili entusiasmi, ma conduce il viaggio autentico.

Accogliere questa sfida conclusiva, muta le frontiere del mondo ristretto che aggroviglia l’anima, quindi il corso dell’esistenza… anche quella ambiziosa dei discepoli che forse non volevano i disagi d’un altro ‘regno’.

Le fila si assottigliano, le scelte non sono più scontate, le voci sono tante [e pure le mezze misure]. Il posto sicuro d’un tempo è insidiato.

Conviene essere coerenti? Non è meglio adeguarsi a rapporti di forza o mode?

 

La Fede unisce al Signore, l’ascolto dona la giusta posizione, e nell’Eucaristia si produce l’intreccio delle nature, umana e divina.

Le aspirazioni profonde guidano oltre i calcoli e l’ordine naturale. In noi, l’incarnazione e l’azione dell’unica Guida di cui ci si può fidare, continua.

La purezza della verità non s’infrange, anzi si riversa.

 

Dinanzi agli stenti nel deserto, il popolo aveva dubitato della presenza divina [«in mezzo a noi»].

Lo stesso capitava nelle comunità giovannee di fine primo secolo, che si interrogavano sulla Presenza del Risorto nello ‘spezzare il pane’.

Alcuni avevano abbandonato la chiesa per tornare alle «cipolle d’Egitto».

D’altro canto, nella zona di Efeso non mancavano benessere e attrattive - garantite e sacralizzate dalla religiosità pagana.

La stessa vita devota polarizzata intorno all’indotto economico del Tempio di Artemide - trasformato in una delle maggiori banche dell’oriente antico - garantiva una spensieratezza e una qualità di vita ben più “solida” e appariscente dell’umile segno Eucaristico.

Cosa potevano valere quelle briciole a confronto di una delle sette Meraviglie del mondo antico?

 

Con Gesù rimane solo un gruppetto sparuto, che però è più intimo - e si fa la domanda giusta:

È dignitoso anche non essere primi della classe, e “vincenti”?

Chi… sa valorizzare la storia, e ogni percorso, perfino le defezioni?

Quale Persona non ci costringe a essere unilaterali?

 

 

[21.a Domenica T.O.  B  (Gv 6,60-69)  25 agosto 2024]

«Da Chi andremo?». La Fede, segno critico (non attenuato)

(Gv 6,60-69)

 

Un Dio a nostro livello? «Questo Logos è sclerotico» (v.60) - come dire: immaginare che l’Altissimo si accomuni ai minimi in tutto è posizione incomprensibile e offensiva.

Può l’Eterno riconoscersi in un semplice figlio d’uomo - addirittura sovversivo e fuori del giro - estraneo a circuiti assodati?

Come nel suo ministero in Giudea, l’ultima attività di Gesù in Galilea termina con un insuccesso (v.66).

 

L’esperienza pia ufficiale procedeva in superficie - centrata sulla visibilità degli eventi e del giudizio d’élite, poi su una realtà succube.

Anche i discepoli che gustano la nuova Parola restano delusi dal Maestro, che sostituisce il Padre alla tradizione dei “padri”.

Molti del popolo lo cercavano come facitore di miracoli - continuando ad accontentarsi della struttura religiosa, dei punti di riferimento dominanti, del medesimo pane materiale di sempre (e così via).

Cristo non è per il continuare ad adeguarsi, ma per un nutrimento consistente. Ecco la crisi: essa non manca quando si è posti di fronte a scelte serie.

A loro uso e consumo, le guide propalavano idoli morti, i quali blandivano idee grette (e interessi immediati) - e non spaventavano nessuno che lo meritasse.

Invece il Signore superava le esigenze e gli orizzonti della normalità. Aveva una chiave di lettura diversa.

Il dramma nuziale non si poteva risolvere in comode parentesi, come nelle devozioni conformiste: che alla fine non compromettono nulla [come nell’idea poi trasformatasi in bigotta di “cibo degli angeli”].

Proposte quali la comunione dei beni, la scelta dell’ultimo posto, il benvenuto concesso non solo ai vicini del clan e così via, ribaltano l’idea di grandezza e fallimento.

Per lasciarsi coinvolgere, i discepoli avrebbero dovuto essere pronti ad abbracciare la Vita nello Spirito.

Territorio impervio... ma non ci si può mettere d’accordo con tutto: patteggiamenti, negoziazioni, calcoli e apparati hanno fatto il loro tempo. Nella crisi globale di oggi l’aut aut è incalzante.

 

L’interrogativo inquieta: «Ma volete andarvene anche voi?» (v.67).

Pietro risponde al plurale, esprimendo la Fede del piccolo gruppo che si azzarda - e che può essere nostra, allorché si permanga slegati da dissociazioni di vita, o verifiche e parossismo di “visioni del mondo”.

La crisi di Galilea non è un pallido ricordo storico, ma uno spartiacque al centro del quale siamo tutti - ogni giorno. Un evento persistente, che ci divide dai facili entusiasmi - ma conduce il viaggio autentico.

Accogliere questa sfida conclusiva, muta le frontiere del mondo ristretto che aggroviglia l’anima, quindi il corso dell’esistenza… anche quella ambiziosa dei discepoli che forse non volevano i disagi d’un altro regno.

 

In specie nel mondo (anche sacrale) dell’esteriorità e delle grida, il dilemma è vivo: quello della via personale compiuta, perfetta; che va nella direzione dell’energia intima, non delle chiavi di circostanza.

 

Opposizione sorda dei capi, mormorazione interessata di molti seguaci: la scelta di attingere a un’altra Vita dev’essere perentoria.

Le fila si assottigliano, le scelte non sono più scontate, le voci sono tante (e pure le mezze misure). Il posto sicuro d’un tempo è insidiato.

Conviene essere coerenti? Non è meglio adeguarsi a rapporti di forza o mode?

La Fede unisce al Signore, l’ascolto dona la giusta posizione, e nell’Eucaristia si produce l’intreccio delle nature, umana e divina.

Le aspirazioni profonde guidano oltre i calcoli e l’ordine naturale.

In noi, l’incarnazione e l’azione dell’unica Guida di cui ci si può fidare, continua.

La purezza della verità non s’infrange, anzi si riversa.

 

Dinanzi agli stenti nel deserto, il popolo aveva dubitato della presenza divina («in mezzo a noi»).

Lo stesso capitava nelle comunità giovannee di fine primo secolo, che si interrogavano sulla Presenza del Risorto nello spezzare il pane.

Alcuni avevano abbandonato la chiesa per tornare alle «cipolle d’Egitto». D’altro canto, nella zona di Efeso non mancavano benessere e attrattive - garantite e sacralizzate dalla religiosità pagana.

La stessa vita devota polarizzata intorno all’indotto del Tempio di Artemide - trasformato in una delle maggiori banche dell’oriente antico - garantiva una spensieratezza e una qualità di vita ben più “solida” e appariscente dell’umile segno Eucaristico.

Cosa potevano valere quelle briciole a confronto di una delle sette Meraviglie del mondo antico?

E poi godere di stare attorniati da tanta gente “a modo” intorno, quindi ben inseriti in pubbliche e private relazioni - nonché aderire a proposte appetibili sotto ogni punto di vista, non ultimo il guadagno [ovvero il discredito: cf. gli argentieri efesini di ninnoli; orefici e artigiani indignati con Paolo: At 19,23ss].

 

Con Gesù rimane solo un gruppetto sparuto, che però è più intimo - e si fa la domanda giusta:

È dignitoso anche non essere primi della classe, e “vincenti”?

Chi sa valorizzare la storia, e ogni percorso, perfino le defezioni?

Quale Persona non ci costringe a essere unilaterali?

 

 

L’epilogo di Gv 6 non richiama una disciplina di proposte spirituali estrinseche.

Neppure narra (come tipico nell’Oriente antico) di talismani o mitiche piante «che rendono giovane il vecchio», né d’un «sacro fuoco degli dei».

Gesù infatti non propugna le ardue scalate delle religioni, ma l’umanizzazione... che avvicina. Adesione concreta.

Una esistenza da salvati sorvola qualsiasi idea di sequele naturalistiche esprimibili con antichi simboli o metafore.

Così ad es. le icone esteriori della “Pianta” o del “Fuoco” che alludevano alla vita immortale e al divino, vengono scalfite del tutto e sostituite addirittura da «carne» e «sangue».

Il loro contrario, ma: il carattere degli agnelli.

L’esperienza della divinizzazione non può ignorare la dimensione Fede-relazione pasquale, che c’innalza solo nella libertà di “scendere”.

 

Nei tempi di svago e armonia, rimaniamo sempre sorpresi dal notare che il nostro nucleo più intimo pretende un diverso Riposo.

Intuiamo che la Pace bramata non è questione di luogo, spiagge esclusive o panorami; né di calcoli geniali, ipotesi, visioni del mondo sofisticate o situazioni ideali, bensì d’una Persona giusta.

Ma se oggi ci si sente in bilico in ogni decisione e in qualsiasi istante, «di Chi ci si può fidare» sempre?

Ogni giorno abbiamo bisogno di un Tu che incoraggia e rinfranca, facendoci sentire protagonisti e collaboratori, non riserve o panchinari.  

Mai sarà il Dharma a convincerci sul serio, né un Libro… il motore d’una conversione (a meno che non sia aperto a colpi di lancia).

È unicamente un’esperienza che non inchioda nella solitudine, a cambiarci da credenti tiepidi a testimoni critici.

Sentiamo urgenza di uno scopo d’amore, altrimenti nulla ha senso; neppure il successo.

 

In me colgo distintamente l’inclinazione a concedere fiducia solo a Chi sento nella necessità, o in rapporto almeno un poco reciproco; in un sentimento che almeno interiormente qualifica.

Una Persona che mi aiuti a conciliarmi anzitutto coi miei limiti; non per sentirmi accettato in generale, ma capito e accolto entro una vicenda configurata, di reale perdono o riscatto. O almeno relazione.

Non mi basta Qualcosa di valido: ho bisogno di Qualcuno che mi liberi da angusti orizzonti, da condizionamenti che tolgono il respiro, da potenze interne che pretendono, da idoli sociali esterni che soffocano l’identità, facendo sminuire il motivo per cui sono nato.

Ho bisogno d’incoraggiamento quando mi disistimo, e allora sento necessità di mani materne che accolgano, di mani paterne che rassicurino; di un testimone, di uno sguardo.

Sento impellenza di un Tu che mi palesi il Bene sul quale iniziare o ricominciare; ho premura di un Interlocutore che mi faccia capire che c’è un futuro, perfino in condizioni avverse - e a qualsiasi età.

Non interessa la perfezione di facciata: ho fame di una Persona che non tradisca, che non mi lasci cadere sul più bello, sino a lambire la polvere. 

Cerco un’Amicizia che non si faccia beffe e non calpesti. E che non sia “ogni tanto”: che si accorga, sappia sanare, mi comprenda e faccia respirare, poi rialzare il capo e rimetta in carreggiata… sino a quando anch’io sarò in grado di trainare sorelle e fratelli alla crescita.

 

Invece del tuono e lampo del Sinai, che sovrasta e respinge, chiedo una sintonia a mio livello, che conceda di sublimare le situazioni in preziosa corrispondenza ed empatia.

Allora sì: l’aspetto personale della missione-rapporto col mondo si manifesta, intensa; decisiva.

Il contatto non spersonalizzante con la Voce del Padre fattasi Fratello convince, nel dramma e persino nello scontro del rapporto a Tu per tu.

L’unica Persona non lontana e indistinta che sa dove condurmi e pulsa dentro trasmette quel senso di partecipazione e complicità che rende l’anima così misteriosamente sicura delle sue inclinazioni più palpitanti. Così infine trasformare una vita conformista e intimidita in avventura densa, completa e splendente - da surclassare ostacoli, mentalità e condizionamenti che la farebbero impallidire sino a spegnerla.

 

Abbiamo bisogno di una Presenza che nella gioia dello stare Insieme apra, inviti, doni gusto; frantumi la tensione del meritare e adempiere prestazioni attese.

Una Persona che ci conceda di sentirsi ascoltati, compresi e curati, e che nel tepore di questo Nido faccia di noi stessi un segno umano con uno Scopo d’Amore.

Urge Qualcuno che trasformi il senso delle azioni d’ogni giorno, anche minute o apparentemente banali, in intimità e Dialogo.

Un Nucleo di Condivisione dove si trovi sostegno - non sentenze - al nostro incessante trasmigrare: dalle spiritualizzazioni che “innalzano” all’umanizzazione che avvicina.

E ci stabilisca in radice. E trasmetta sorriso all’anima.

 

Dal senso religioso antico alla Fedenovella? Questione di Persona.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Il solito e a portata di mano, o il meglio e che ti corrisponde?

Cosa e Chi scegli?

Vedi in profondità? Scegli oltre i confini?

 

 

 

«Abbiamo creduto e poi conosciuto»

 

Su questo passo abbiamo un bellissimo commento di Sant’Agostino, che dice, in una sua predica su Giovanni 6: «Vedete come Pietro, per grazia di Dio, per ispirazione dello Spirito Santo, ha capito? Perché ha capito? Perché ha creduto. Tu hai parole di vita eterna. Tu ci dai la vita eterna offrendoci il tuo corpo [risorto] e il tuo sangue [Te stesso]. E noi abbiamo creduto e conosciuto. Non dice: abbiamo conosciuto e poi creduto, ma abbiamo creduto e poi conosciuto. Abbiamo creduto per poter conoscere; se, infatti, avessimo voluto conoscere prima di credere, non saremmo riusciti né a conoscere né a credere. Che cosa abbiamo creduto e che cosa abbiamo conosciuto? Che tu sei il Cristo Figlio di Dio, cioè che tu sei la stessa vita eterna, e nella carne e nel sangue ci dai ciò che tu stesso sei» (Commento al Vangelo di Giovanni, 27, 9). Così ha detto sant’Agostino in una predica ai suoi credenti.

(Papa Benedetto, Angelus 26 agosto 2012)

Sapete che da alcune domeniche la liturgia propone alla nostra riflessione il capitolo VI del Vangelo di Giovanni, nel quale Gesù si presenta come il “pane della vita disceso dal cielo” ed aggiunge: “se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv. 6,51). Ai giudei che discutono aspramente tra loro chiedendosi: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?” (v. 52) - e il mondo continua a discutere - Gesù ribadisce in ogni tempo: “se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita” (v. 53); motivo anche per noi di riflettere se abbiamo realmente capito questo messaggio. Oggi, XXI domenica del tempo ordinario, meditiamo la parte conclusiva di questo capitolo, in cui il quarto Evangelista riferisce la reazione della gente e degli stessi discepoli, scandalizzati dalle parole del Signore, al punto che tanti, dopo averlo seguito sino ad allora, esclamano: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (v. 60). Da quel momento “molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con Lui” (v. 66), e la stessa cosa succede sempre di nuovo, in diversi periodi della storia. Ci si potrebbe aspettare che Gesù cerchi compromessi per farsi meglio capire, ma Egli non attenua le sue affermazioni, anzi si rivolge direttamente ai Dodici dicendo: “Volete andarvene anche voi?” (v. 67).

Questa provocatoria domanda non è diretta soltanto agli ascoltatori di allora, ma raggiunge i credenti e gli uomini di ogni epoca. Anche oggi, non pochi restano “scandalizzati” davanti al paradosso della fede cristiana. L’insegnamento di Gesù sembra “duro”, troppo difficile da accogliere e da mettere in pratica. C’è allora chi lo rifiuta e abbandona Cristo; c’è chi cerca di “adattarne” la parola alle mode dei tempi snaturandone il senso e il valore. “Volete andarvene anche voi?”. Quest’inquietante provocazione ci risuona nel cuore ed attende da ciascuno una risposta personale; è una domanda rivolta ad ognuno di noi. Gesù non si accontenta di un’appartenenza superficiale e formale, non gli è sufficiente una prima ed entusiastica adesione; occorre, al contrario, prendere parte per tutta la vita “al suo pensare e al suo volere”. SeguirLo riempie il cuore di gioia e dà senso pieno alla nostra esistenza, ma comporta difficoltà e rinunce perché molto spesso si deve andare controcorrente.

“Volete andarvene anche voi?”. Alla domanda di Gesù, Pietro risponde a nome degli Apostoli, dei credenti di tutti i secoli: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (vv. 68-69). Cari fratelli e sorelle, anche noi possiamo e vogliamo ripetere in questo momento la risposta di Pietro, consapevoli certo della nostra umana fragilità, dei nostri problemi e difficoltà, ma fiduciosi nella potenza dello Spirito Santo, che si esprime e si manifesta nella comunione con Gesù. La fede è dono di Dio all’uomo ed é, al tempo stesso, libero e totale affidamento dell’uomo a Dio; la fede è docile ascolto della parola del Signore, che è “lampada” per i nostri passi e “luce” sul nostro cammino (cfr Salmo 119, 105). Se apriamo con fiducia il cuore a Cristo, se ci lasciamo conquistare da Lui, possiamo sperimentare anche noi, come per esempio il santo Curato d’Ars, che “la nostra sola felicità su questa terra è amare Dio e sapere che Lui ci ama”. Chiediamo alla Vergine Maria di tenere sempre desta in noi questa fede impregnata di amore, che ha resa Lei, umile fanciulla di Nazaret, Madre di Dio e madre e modello di tutti i credenti.

[Papa Benedetto, Angelus 23 agosto 2009]

"Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" (Gv 6, 68).

Carissimi giovani e ragazze di Roma,

1. Ho scelto questa espressione evangelica come tema dell’undicesima Giornata Mondiale della Gioventù. Sono le parole dette dall’Apostolo Pietro dopo che il Signore Gesù aveva pronunciato un discorso difficile da capire, che scandalizzava. Aveva detto: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno" (Gv 6, 54). Gesù, cioè, si presenta al mondo come il vero cibo che solo può saziare la fame dell’uomo. Egli è il Verbo fatto carne che si offre come cibo nel sacramento dell’Eucaristia e come vittima sulla croce, perché il mondo si salvi per mezzo di Lui e riceva la pienezza della vita.

Se donarsi come carne da mangiare è il destino di Gesù, i discepoli intuiscono che questo sarà anche il loro ed hanno paura. Seguire Gesù significa affrontare una prospettiva di sofferenza e di morte. I discepoli si scandalizzano al pensiero che il Maestro deve farsi "mangiare". Gesù, allora, visto che molti per questo motivo se ne stanno andando, chiede ai Dodici: "Forse anche voi volete andarvene?" ( Gv 6, 67 ).

Ma Pietro, per tutti, risponde: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" ( Gv 6, 68 ). Queste parole di Pietro riassumono un cammino. Il suo cammino di ricerca. Non si possono pronunciare se non si crede e non si è camminato a lungo per cercare, trovare e conoscere il Signore.2.

2.

Oggi, in questo incontro di festa, voi avete ricostruito con canti, danze, testimonianze, le tappe fondamentali di ogni cammino di ricerca di Dio. Avete ascoltato dalle parole di testimoni come l’uomo sia in continua ricerca di Dio. E come Dio sia presente nella storia di ogni uomo e di ogni donna, gli vada incontro, lo cerchi per primo e risponda in maniera piena e definitiva al suo desiderio più profondo che è quello di essere amato.

Cari giovani, in base alla mia esperienza di sacerdote so bene che voi essenzialmente cercate l’amore. Tutti cercano l’amore, e un amore bello. Anche quando nell’amore umano si cede alla debolezza, tuttavia si continua a cercare un amore bello e puro. In definitiva, voi sapete bene che tale amore non può concedervelo nessuno all’infuori di Dio. Per questa ragione siete disposti a seguire Cristo senza badare a sacrifici.

Voi cercate Cristo perché Egli sa "quello che c’è in ogni uomo" ( Gv 2, 25 ), specialmente in un giovane, e sa dare risposte vere alle vostre domande. Cari giovani, è Cristo il "cercato", il "desiderato che si fa trovare", Colui che può darvi l’autentica gioia. Una gioia che non viene mai meno, perché destinata a continuare nella pienezza della vita, oltre la morte.

L’uomo, quindi, è un cercatore di Dio, a sua volta cercato da Dio. Nel Vangelo abbiamo ascoltato dalla bocca di Gesù questa verità: "Nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio" ( Gv 6, 65 ). Tuttavia, nel suo cercare l’uomo, Dio non costringe mai. Ha un grande rispetto per noi, fatti a sua immagine. Ci lascia liberi di accogliere le sue proposte. Anche a noi chiede: "Forse anche voi volete andarvene?" ( Gv 6, 67 ).

3.

Ma da chi può andare l’uomo? Da chi potete andare voi, giovani in cerca della felicità, della gioia, della bellezza, dell’onestà, della purezza, in una parola sola: in cerca dell’amore? Lo sappiamo bene: molti giovani cercano tutto questo seguendo falsi maestri di vita. Come sono vere anche oggi le parole della seconda Lettera a Timoteo: "... per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole" ( 2 Tm 4, 3-4 ).

Penso al denaro, al successo, alla carriera, al sesso sfrenato e ad ogni costo, alla droga, al credere che tutto nella vita si gioca qui e adesso e che la vita va spesa per un appagamento immediato di ciò che si desidera oggi, senza tener conto che esiste un futuro eterno. Penso ancora al cercare la sicurezza, una falsa realizzazione di sé e la felicità nelle sette, nella magia o in altri sentieri religiosi che conducono l’uomo a ripiegarsi su se stesso anziché ad aprirsi a Dio.

In realtà, in tali condizioni si resta degli insoddisfatti, incapaci di gioire, perché se non si trova Dio, manca la risposta ai desideri più veri e profondi del cuore umano e la vita si fa piena di compromessi e di tensioni interiori.

4.

"Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" ( Gv 6, 68 ). Questa è la risposta. La risposta di Pietro, il primo degli Apostoli, colui al quale Cristo ha affidato la sua Chiesa. È la risposta della Chiesa e perciò anche di tutti voi, giovani romani che attraverso il battesimo siete membri della Chiesa.

È risposta che deve diventare sempre più consapevole in ciascuno di voi, fino a rendervi di essa araldi con i vostri coetanei che, pur lontani dalla fede, cercano la vita e quindi cercano Dio forse senza saperlo. Proprio perché è risposta di vita, non possiamo accontentarci di pronunciarla da soli: dobbiamo cercare di farne partecipi anche gli altri, pronti sempre a rendere ragione della speranza che è in noi (cf. 1 Pt 3, 15

5.

Annunciare a tutti Gesù, unica risposta pienamente appagante per le attese dell’uomo: ecco l’impegno a cui ci stimola l’avvicinarsi dell’anno Duemila, un anno di grazia tutto particolare. Dobbiamo arrivare preparati all’appuntamento del Duemila. Il Giubileo rinnova la gioia per l’evento strabiliante compiutosi duemila anni or sono, quando Dio si è fatto uomo, è divenuto il Dio-con-noi, nostro amico e compagno di viaggio. Gesù risorto continua ad essere con noi; viene incontro al nostro desiderio di salvezza e di redenzione.

Voi, giovani delle parrocchie, associazioni, movimenti, gruppi cristiani, impegnatevi ad approfondire il mistero della sua persona. Domandatevi chi è Gesù per voi, cosa vuole da voi, cosa voi cercate e trovate in Lui. E, mentre continuamente vi convertite a Lui, proponetelo a quegli amici ai quali nessuno, forse, Lo ha mai annunciato, oppure che Lo hanno conosciuto e poi Lo hanno abbandonato.

6.

Ma, come fare? Il vostro primo impegno riguarda la vostra formazione di cristiani: raggiungere una conoscenza viva di Gesù, fare nella fede un’esperienza di Lui attraverso la preghiera, l’ascolto della sua Parola, la catechesi sui fondamenti del Credo, il servizio ai fratelli bisognosi.

Aprite con tutti un dialogo sincero, condividendo le ansie, i problemi e le gioie che tutti i giovani hanno in comune. Mostrate loro - con la vita più che con le parole - la grandezza del dono di Dio che avete ricevuto e che ha trasformato la vostra esistenza.

Con loro, poi, imparate a disegnare progetti di vita ispirati al Vangelo. Gesù, infatti, entra in ogni aspetto dell’esistenza e nella vocazione di ciascuno; chiede comportamenti conseguenti nell’esperienza dell’amore umano, nella scuola, nell’università, nel lavoro, nel volontariato, nello sport e in ogni altro ambito della vita quotidiana. Dà senso alla gioia e al dolore, alla salute e alla malattia, alla povertà e alla ricchezza, al vivere e al morire.

Per questo fatevi compagni di strada di ogni giovane che vive a Roma, conservando sempre la consapevolezza che solo la verità di Cristo può rispondere ai desideri dell’uomo, salvarlo, comunicargli la vita eterna.

7.

Cari giovani e ragazze di Roma, siate gli apostoli della "Roma giovane". Che ogni giovane, dopo avervi frequentato, sia indotto a domandare: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" ( Gv 6, 68 ). Questa città ha radici cristiane. Non lasciate che la vostra Roma, la Roma del Duemila, sia meno cristiana di quella dei secoli che hanno preceduto l’inizio del terzo millennio. Annunciate ai vostri coetanei il Vangelo di Gesù, Parola sempre nuova e giovane che continuamente rinnova e ringiovanisce l’umanità. Usate per questo ogni mezzo e occasione. Testimoniate la fede là dove ci sono giovani come voi. Sappiate essere critici, quando occorre, nei confronti della cultura nella quale crescete e che non sempre è attenta ai valori evangelici ed al rispetto dell’uomo.

Se la vostra vita sarà orientata da Cristo, la cultura e la società saranno più cristiane perché voi stessi le avrete almeno in parte cambiate. Infatti le scelte di vita, i comportamenti, le azioni di ciascuno contribuiscono a costruire una società e una cultura. Impegnatevi perché la cultura cristiana diventi sempre più la cultura dei giovani. Animate la cultura con la vostra creatività.

8

A questo incontro hanno partecipato un regista, uno sportivo, ballerini, cantanti, rappresentanti di tanti mondi in cui è necessario essere presenti come cristiani, per essere segni visibili e non mimetizzati di Gesù. Alla vostra creatività, cari giovani romani, affido il compito di pensare e realizzare le forme più adatte per annunciare il Vangelo nella nostra città.

È questo l’impegno che ho chiamato "missione cittadina", alla quale tutta la Chiesa di Roma va preparandosi. Insieme, giovani e meno giovani, annunceremo il Vangelo di Cristo alla nostra città. Per questo atto di amore verso Roma conto su di voi, sulle vostre energie, la vostra creatività e la vostra capacità di lavorare insieme per una missione comune.

"Insieme per evangelizzare", sia questo lo slogan dei vostri programmi. "Insieme" come Chiesa di Roma che, pur ricca di doni diversi, deve proclamare il Vangelo nella comunione e con coraggio, senza vergognarsi della testimonianza da rendere al Signore (cf. 1 Tm 1, 8 ). Da questo annuncio dipende il futuro di questa città, il vostro futuro. 

 

[Papa Giovanni Paolo II, Discorso ai giovani di Roma in preparazione alla XI Giornata Mondiale della Gioventù]

Si conclude oggi la lettura del capitolo sesto del Vangelo di Giovanni, con il discorso sul “Pane della vita”, pronunciato da Gesù all’indomani del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Alla fine di quel discorso, il grande entusiasmo del giorno prima si spense, perché Gesù aveva detto di essere il Pane disceso dal cielo, e che avrebbe dato la sua carne come cibo e il suo sangue come bevanda, alludendo così chiaramente al sacrificio della sua stessa vita. Quelle parole suscitarono delusione nella gente, che le giudicò indegne del Messia, non “vincenti”. Così alcuni guardavano Gesù: come un Messia che doveva parlare e agire in modo che la sua missione avesse successo, subito. Ma proprio su questo si sbagliavano: sul modo di intendere la missione del Messia! Perfino i discepoli non riescono ad accettare quel linguaggio inquietante del Maestro. E il brano di oggi riferisce il loro disagio: «Questa parola è dura! – dicevano – Chi può ascoltarla?» (Gv 6,60).

In realtà, essi hanno capito bene il discorso di Gesù. Talmente bene che non vogliono ascoltarlo, perché è un discorso che mette in crisi la loro mentalità. Sempre le parole di Gesù ci mettono in crisi, per esempio davanti allo spirito del mondo, alla mondanità. Ma Gesù offre la chiave per superare la difficoltà; una chiave fatta di tre elementi. Primo, la sua origine divina: Egli è disceso dal cielo e salirà «là dov’era prima» (v. 62). Secondo: le sue parole si possono comprendere solo attraverso l’azione dello Spirito Santo, Colui «che dà la vita» (v. 63) è proprio lo Spirito Santo che ci fa capire bene Gesù. Terzo: la vera causa dell’incomprensione delle sue parole è la mancanza di fede: «Tra voi ci sono alcuni che non credono» (v. 64), dice Gesù. Infatti da allora, dice il Vangelo, «molti dei suoi discepoli tornarono indietro» (v. 66). Di fronte a queste defezioni, Gesù non fa sconti e non attenua le sue parole, anzi costringe a fare una scelta precisa: o stare con Lui o separarsi da Lui, e dice ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?» (v. 67).

A questo punto Pietro fa la sua confessione di fede a nome degli altri Apostoli: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (v. 68). Non dice “dove andremo?”, ma “da chi andremo?”. Il problema di fondo non è andare e abbandonare l’opera intrapresa, ma è da chi andare. Da quell’interrogativo di Pietro, noi comprendiamo che la fedeltà a Dio è questione di fedeltà a una persona, con la quale ci si lega per camminare insieme sulla stessa strada. E questa persona è Gesù. Tutto quello che abbiamo nel mondo non sazia la nostra fame d’infinito. Abbiamo bisogno di Gesù, di stare con Lui, di nutrirci alla sua mensa, alle sue parole di vita eterna! Credere in Gesù significa fare di Lui il centro, il senso della nostra vita. Cristo non è un elemento accessorio: è il “pane vivo”, il nutrimento indispensabile. Legarsi a Lui, in un vero rapporto di fede e di amore, non significa essere incatenati, ma profondamente liberi, sempre in cammino. Ognuno di noi può chiedersi: chi è Gesù per me? È un nome, un’idea, soltanto un personaggio storico? O è veramente quella persona che mi ama che ha dato la sua vita per me e cammina con me? Per te chi è Gesù? Stai con Gesù? Cerchi di conoscerlo nella sua parola? Leggi il Vangelo, tutti i giorni un passo di Vangelo per conoscere Gesù? Porti il piccolo Vangelo in tasca, nella borsa, per leggerlo, ovunque? Perché più stiamo con Lui più cresce il desiderio di rimanere con Lui. Adesso vi chiederò cortesemente, facciamo un attimo di silenzio e ognuno di noi in silenzio, nel suo cuore, si faccia la domanda: «Chi è Gesù per me?». In silenzio, ognuno risponda nel suo cuore.

La Vergine Maria ci aiuti ad “andare” sempre a Gesù per sperimentare la libertà che Egli ci offre, e che ci consente di ripulire le nostre scelte dalle incrostazioni mondane e dalle paure.

[Papa Francesco, Angelus 23 agosto 2015]

Venerdì, 16 Agosto 2024 05:22

Scetticismo, Fede, carattere

Dall’antico sogno alla relazione incarnata

(Gv 1,45-51)

 

Le persone si convincono con l’incontro, il vedere e sperimentare, non imponendo. Però il progetto dell’Eterno ci spiazza.

Testimonianza e condivisione conducono a Cristo, ma non bastano - perché il suo disegno non è come la gente immagina o si propone, come attende e desidera che sia.

All’Annuncio entusiasta, Natanaele risponde con uno scetticismo preconcetto che ci rappresenta: cosa può uscire di buono dalle periferie più insignificanti (v.46)?

Come mai la soluzione alle nostre aspettative non viene da luoghi deputati [Giudea]?

L’incontro personale con Gesù e l’ascolto della sua Parola vincono ogni ostacolo, sino a una esplicita e convinta professione di Fede.

E come Natanaele, chi consacra la vita allo studio delle Scritture trova in esse Cristo stesso (vv.45.48-49).

In un primo tempo forse ci siamo accostati anche noi al Figlio di Dio immaginando che avesse gli attributi di Re d’un popolo eletto (v.49).

Poi la consuetudine con la Persona e l’esperienza vitale [«Vieni a vedere»: senso dell’espressione semitica base del v.46] ci ha mostrato una Relazione col Cielo assai più ampia (vv.50-51).

Nel percorrere la Via che il Messia inatteso propone, si coglie la convergenza del movimento di Dio verso gli uomini e il nostro anelito a Lui.

È la realizzazione (e il superamento) dell’antico sogno di Giacobbe.

 

Chi insegue preconcetti resta a prendere il fresco sotto l’albero di fichi (cf.v.48), ossia rimane legato all’antica religione [i rabbini insegnavano le Scritture antiche sedendo sotto gli alberi; il fico era simbolo d’Israele].

«Israelita senza inganno» (v.47): ciascuno lo è quando avendo vagliato, sa disfarsi delle opinioni e degli insegnamenti comuni; quando si accorge che non concordano con il progetto del Padre.

La storia della salvezza mira a «cose più grandi» (v.50) rispetto a quelle già volute; normali, previste, invocate, calcolate, sospirate.

Dalla religiosità passeremo alla Fede: il meglio del Sogno di Dio in noi deve venire. «Cose più grandi» dei luoghi comuni.

Gesù è l’autentico Sogno di Giacobbe, che preludeva a una vasta discendenza; ulteriormente dispiegata (Gen 28,10-22) e divenuto realtà.

Ma nessuno si sarebbe atteso che il Messia potesse identificarsi col «Figlio dell’uomo» (v.51), Colui che crea abbondanza dov’essa non c’è e prima non sembrava lecito potesse espandersi.

Il nuovo legame fra Dio e gli esseri umani è nel Fratello che si fa ‘parente prossimo’, che crea un’atmosfera di umanizzazione dai contorni ampi - affatto discriminanti.

‘Figlio riuscito’ è colui che avendo raggiunto il massimo della pienezza umana, giunge a riflettere la condizione divina e la irradia in modo diffuso - non selettivo come ci si aspettava.

È crescita e umanizzazione del popolo: lo sviluppo tranquillo, vero e pieno del progetto divino sull’umanità.

«Figlio dell’uomo» non è dunque un titolo riposto, cauto, controllato e riservato, ma un’occasione per tutti coloro che danno adesione alla proposta del Signore, e reinterpretano la vita in modo creativo personale.

Essi superano i fermi confini, facendo spazio al Dono; accogliendo dalla Grazia pienezza di essere, nei suoi nuovi irripetibili binari.

 

 

[San Bartolomeo, Apostolo  24 agosto 2024]

Venerdì, 16 Agosto 2024 05:18

Scetticismo, Fede, carattere

Dall’antico sogno alla relazione incarnata

(Gv 1,45-51)

 

La liturgia odierna propone il primo incontro col Signore di Natanaele, che alcune tradizioni identificano nell’apostolo Bartolomeo.

Lo scopo della Chiamata è seguire Gesù; vediamone la concatenazione di eventi. Anzitutto: le persone si convincono con l’incontro, il vedere e sperimentare, non imponendo.

Però il progetto dell’Eterno ci spiazza. Testimonianza e condivisione conducono a Cristo, ma non bastano - perché il suo disegno non è come la gente immagina o si propone, come attende e desidera che sia.

All’Annuncio entusiasta di Filippo [nome di origine greca], Natanaele [dall’ebraico Netan’El: «Dio ha dato»] risponde con uno scetticismo preconcetto che ci rappresenta: cosa può uscire di buono dalle periferie più insignificanti (v.46)?

Come mai la soluzione alle nostre aspettative non viene dai palazzi del potere, dall’eccezionale magnificenza della Città Santa, o dal prestigio dottrinale appurato e selettivo del territorio osservante (Giudea)?

Nazaret era un villaggio trascurabile di teste calde e Galilei trogloditi; Gesù un falegname-carpentiere, quindi non aveva neppure una terra.

L’attesa del Messia era ancorata a ben altre manifestazioni di prestigio, ricchezza, fasto e potenza (sostitutive dell’esperienza autentica di relazione e pienezza di essere).

L’incontro personale con Gesù e l’ascolto della sua Parola vincono ogni ostacolo, sino a una esplicita e convinta professione di Fede.

E come Natanaele, chi consacra la vita allo studio delle Scritture trova in esse Cristo (vv.45.48-49).

 

In un primo tempo forse ci siamo accostati anche noi al Figlio di Dio immaginando che avesse gli attributi di Re d’un popolo eletto (v.49).

Poi la consuetudine con la Persona e l’esperienza vitale [«Vieni a vedere»: senso dell’espressione semitica base del v.46] ci ha mostrato una Relazione col Cielo assai più ampia (vv.50-51).

Nel percorrere la Via che il Messia inatteso propone, si coglie la convergenza del movimento di Dio verso gli uomini e il nostro anelito a Lui. È la realizzazione (e il superamento) dell’antico sogno di Giacobbe.

Chi insegue preconcetti resta a prendere il fresco sotto l’albero di fichi (cf.v.48), ossia rimane legato all’antica religione [i rabbini insegnavano le Scritture antiche sedendo sotto gli alberi; il fico era simbolo d’Israele].

Permanendo in aspettative di magnificenza e lasciandoci trascinare da propositi standard di gloria attesa, non si entra nel movimento che lega la nostra terra all’Amore: ci ritroveremo sempre più vecchi, impantanati e sterili - incapaci di generare creature nuove e rinascere.

 

«Israelita senza inganno» (v.47): ciascuno lo è quando - avendo vagliato - sa disfarsi delle opinioni e degli insegnamenti comuni; quando si accorge che non concordano con il progetto del Padre su di noi.

La storia della salvezza mira a «cose più grandi» (v.50) rispetto a quelle già volute; normali, previste, invocate, calcolate e sospirate (trasmesse dalle dottrine e dai “maestri” tali e quali).

Anche il Disegno della Provvidenza non è come la gente immagina o desidera che sia. Ci attendono situazioni che nessuno ha mai visto.

«Dio ha dato» [significato del nome proprio Natanaele], ma ciascuno deve rinascere.

Da Natanaele ciascun credente fa Esodo per trasmigrare al senso del nome Bartolomeo: «Figlio del campo ben arato e della terra dai solchi abbondanti».

Dalla religiosità passeremo alla Fede: il meglio del Sogno di Dio in noi deve venire. «Cose più grandi» dei luoghi comuni.

 

Gesù è l’autentico Sogno di Giacobbe, che preludeva a una vasta discendenza; ulteriormente dispiegata (Gen 28,10-22) e divenuto realtà.

Ma nessuno si sarebbe atteso che il Messia potesse identificarsi col «Figlio dell’uomo» (v.51), Colui che crea abbondanza dov’essa non c’è - e prima non sembrava lecito potesse espandersi.

Il nuovo legame fra Dio e gli esseri umani è nel Fratello che si fa ‘parente prossimo’, che crea un’atmosfera di umanizzazione dai contorni ampi - affatto discriminanti.

«Figlio dell’uomo» è colui che avendo raggiunto il massimo della pienezza umana, giunge a riflettere la condizione divina e la irradia in modo diffuso - non selettivo come ci si aspettava.

‘Figlio riuscito’: la Persona dal passo definitivo, che in noi aspira alla pienezza più dilatata nelle vicende e relazioni, a una caratura indistruttibile dentro ciascuno che accosta [e incontra contrassegni divini].

È crescita e umanizzazione del popolo: lo sviluppo tranquillo, vero e pieno del progetto divino sull’umanità.

«Figlio dell’uomo» non è dunque un titolo religioso, riposto, cauto, controllato e riservato, ma un’occasione per tutti coloro che danno adesione alla proposta del Signore, e reinterpretano la vita in modo creativo personale.

Essi superano i fermi e propri confini sommari, facendo spazio al Dono; accogliendo dalla Grazia pienezza di essere e di carattere, nei suoi nuovi irripetibili binari.

 

Sentendoci totalmente e immeritatamente amati, scopriamo altre sfaccettature... cambiamo il modo di stare con noi stessi, e di leggere la storia.

Insomma, possiamo crescere, realizzarci, fiorire, irradiare la completezza ricevuta - senza più chiusure.

Su questa Via, ogni giorno percepiamo il medesimo impulso che ha portato Natanaele da Gesù: un istinto di Presenza impareggiabile [Michele: Chi come Dio?], una liberazione della coscienza rattrappita [Raffaele: Dio ha guarito - Soccorritore], uno svelamento da stupore [Gabriele: Forza di Dio].

Insomma, sulle nuove avventure da intraprendere, il mondo invisibile ha uno speciale rapporto con l'umanità e il creato.

Nell’anima e nelle cose, siamo come guidati sulla strada giusta (in modo incessante, crescente, inatteso) anche attraverso le nostre ansie, ribellioni, crisi e dubbi.

 

 

Da Figlio di Davide a Figlio dell’uomo

 

La Chiesa è cattolica perché Cristo abbraccia nella sua missione di salvezza tutta l’umanità. Mentre la missione di Gesù nella sua vita terrena era limitata al popolo giudaico, «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24), era tuttavia orientata dall’inizio a portare a tutti i popoli la luce del Vangelo e a far entrare tutte le nazioni nel Regno di Dio. Davanti alla fede del Centurione a Cafarnao, Gesù esclama: «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8,11). Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33), come abbiamo sentito anche nel brano evangelico poc’anzi proclamato. Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.

[Papa Benedetto, allocuzione al Concistoro 24 novembre 2012]

Cari fratelli e sorelle,

nella serie degli Apostoli chiamati da Gesù durante la sua vita terrena, oggi è l'apostolo Bartolomeo ad attrarre la nostra attenzione. Negli antichi elenchi dei Dodici egli viene sempre collocato prima di Matteo, mentre varia il nome di quello che lo precede e che può essere Filippo (cfr Mt 10, 3; Mc 3, 18; Lc 6, 14) oppure Tommaso (cfr At 1, 13). Il suo nome è chiaramente un patronimico, perché formulato con esplicito riferimento al nome del padre. Infatti, si tratta di un nome di probabile impronta aramaica, bar Talmay, che significa appunto "figlio di Talmay".

Di Bartolomeo non abbiamo notizie di rilievo; infatti, il suo nome ricorre sempre e soltanto all'interno delle liste dei Dodici citate sopra e, quindi, non si trova mai al centro di nessuna narrazione. Tradizionalmente, però, egli viene identificato con Natanaele: un nome che significa "Dio ha dato". Questo Natanaele proveniva da Cana (cfr Gv 21, 2) ed è quindi possibile che sia stato testimone del grande "segno" compiuto da Gesù in quel luogo (cfr Gv 2, 1-11). L'identificazione dei due personaggi è probabilmente motivata dal fatto che questo Natanaele, nella scena di vocazione raccontata dal Vangelo di Giovanni, è posto accanto a Filippo, cioè nel posto che ha Bartolomeo nelle liste degli Apostoli riportate dagli altri Vangeli. A questo Natanaele, Filippo aveva comunicato di aver trovato "colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazaret" (Gv 1, 45). Come sappiamo, Natanaele gli oppose un pregiudizio piuttosto pesante: "Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?" (Gv 1, 46a). Questa sorta di contestazione è, a suo modo, importante per noi. Essa, infatti, ci fa vedere che, secondo le attese giudaiche, il Messia non poteva provenire da un villaggio tanto oscuro come era appunto Nazaret (vedi anche Gv 7, 42). Al tempo stesso, però, pone in evidenza la libertà di Dio, che sorprende le nostre attese facendosi trovare proprio là dove non ce lo aspetteremmo. D'altra parte, sappiamo che Gesù in realtà non era esclusivamente "da Nazaret", ma che era nato a Betlemme (cfr Mt 2, 1; Lc 2, 4) e che ultimamente veniva dal cielo, dal Padre che è nei cieli.

Un'altra riflessione ci suggerisce la vicenda di Natanaele: nel nostro rapporto con Gesù non dobbiamo accontentarci delle sole parole. Filippo, nella sua replica, fa a Natanaele un invito significativo: "Vieni e vedi!" (Gv 1, 46b). La nostra conoscenza di Gesù ha bisogno soprattutto di un'esperienza viva: la testimonianza altrui è certamente importante, poiché di norma tutta la nostra vita cristiana comincia con l'annuncio che giunge fino a noi ad opera di uno o più testimoni. Ma poi dobbiamo essere noi stessi a venir coinvolti personalmente in una relazione intima e profonda con Gesù; in modo analogo i Samaritani, dopo aver sentito la testimonianza della loro concittadina che Gesù aveva incontrato presso il pozzo di Giacobbe, vollero parlare direttamente con Lui e, dopo questo colloquio, dissero alla donna: "Non è più per la tua parola che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo" (Gv 4, 42).

Tornando alla scena di vocazione, l'evangelista ci riferisce che, quando Gesù vede Natanaele avvicinarsi esclama: "Ecco davvero un Israelita, in cui non c'è falsità" (Gv 1, 47). Si tratta di un elogio che richiama il testo di un Salmo: "Beato l'uomo ... nel cui spirito non c'è inganno" (Sal 32, 2), ma che suscita la curiosità di Natanaele, il quale replica con stupore: "Come mi conosci?" (Gv 1, 48a). La risposta di Gesù non è immediatamente comprensibile. Egli dice: "Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico" (Gv 1, 48b). Non sappiamo che cosa fosse successo sotto questo fico. È evidente che si tratta di un momento decisivo nella vita di Natanaele. Da queste parole di Gesù egli si sente toccato nel cuore, si sente compreso e capisce: quest'uomo sa tutto di me, Lui sa e conosce la strada della vita, a quest'uomo posso realmente affidarmi. E così risponde con una confessione di fede limpida e bella, dicendo: "Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele" (Gv 1, 49). In essa è consegnato un primo, importante passo nell'itinerario di adesione a Gesù. Le parole di Natanaele pongono in luce un doppio complementare aspetto dell'identità di Gesù: Egli è riconosciuto sia nel suo rapporto speciale con Dio Padre, di cui è Figlio unigenito, sia in quello con il popolo d'Israele, di cui è dichiarato re, qualifica propria del Messia atteso. Non dobbiamo mai perdere di vista né l'una né l'altra di queste due componenti, poiché se proclamiamo di Gesù soltanto la dimensione celeste, rischiamo di farne un essere etereo ed evanescente, e se al contrario riconosciamo soltanto la sua concreta collocazione nella storia, finiamo per trascurare la dimensione divina che propriamente lo qualifica.

Sulla successiva attività apostolica di Bartolomeo-Natanaele non abbiamo notizie precise. Secondo un'informazione riferita dallo storico Eusebio del secolo IV, un certo Panteno avrebbe trovato addirittura in India i segni di una presenza di Bartolomeo (cfr Hist. eccl. V, 10, 3). Nella tradizione posteriore, a partire dal Medioevo, si impose il racconto della sua morte per scuoiamento, che divenne poi molto popolare. Si pensi alla notissima scena del Giudizio Universale nella Cappella Sistina, in cui Michelangelo dipinse san Bartolomeo che regge con la mano sinistra la propria pelle, sulla quale l'artista lasciò il suo autoritratto. Sue reliquie sono venerate qui a Roma nella Chiesa a lui dedicata sull'Isola Tiberina, dove sarebbero state portate dall'imperatore tedesco Ottone III nell'anno 983. Concludendo, possiamo dire che la figura di san Bartolomeo, pur nella scarsità delle informazioni che lo riguardano, resta comunque davanti a noi per dirci che l'adesione a Gesù può essere vissuta e testimoniata anche senza il compimento di opere sensazionali. Straordinario è e resta Gesù stesso, a cui ciascuno di noi è chiamato a consacrare la propria vita e la propria morte.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 4 ottobre 2006]

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The family in the modern world, as much as and perhaps more than any other institution, has been beset by the many profound and rapid changes that have affected society and culture. Many families are living this situation in fidelity to those values that constitute the foundation of the institution of the family. Others have become uncertain and bewildered over their role or even doubtful and almost unaware of the ultimate meaning and truth of conjugal and family life. Finally, there are others who are hindered by various situations of injustice in the realization of their fundamental rights [Familiaris Consortio n.1]
La famiglia nei tempi odierni è stata, come e forse più di altre istituzioni, investita dalle ampie, profonde e rapide trasformazioni della società e della cultura. Molte famiglie vivono questa situazione nella fedeltà a quei valori che costituiscono il fondamento dell'istituto familiare. Altre sono divenute incerte e smarrite di fronte ai loro compiti o, addirittura, dubbiose e quasi ignare del significato ultimo e della verità della vita coniugale e familiare. Altre, infine, sono impedite da svariate situazioni di ingiustizia nella realizzazione dei loro fondamentali diritti [Familiaris Consortio n.1]
"His" in a very literal sense: the One whom only the Son knows as Father, and by whom alone He is mutually known. We are now on the same ground, from which the prologue of the Gospel of John will later arise (Pope John Paul II)
“Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni (Papa Giovanni Paolo II)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)
But what moves me even more strongly to proclaim the urgency of missionary evangelization is the fact that it is the primary service which the Church can render to every individual and to all humanity [Redemptoris Missio n.2]
Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità [Redemptoris Missio n.2]
That 'always seeing the face of the Father' is the highest manifestation of the worship of God. It can be said to constitute that 'heavenly liturgy', performed on behalf of the whole universe [John Paul II]
Quel “vedere sempre la faccia del Padre” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio. Si può dire che essa costituisce quella “liturgia celeste”, compiuta a nome di tutto l’universo [Giovanni Paolo II]

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