Feb 4, 2025 Scritto da 

V Domenica T.O. (C) [con Commento breve]

9 Febbraio 2025 V Domenica Tempo Ordinario Anno C

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! 

Aggiungo in coda al commento delle Letture alcune note che aiutano a meglio entrare nel testo e utili anche per la lectio divina o la catechesi. 

 

*Prima Lettura Dal Libro del profeta Isaia (6, 1- 8)

 Nella IV domenica del Tempo Ordinario Anno C (quest’anno sostituita dalla liturgia della Presentazione del Signore) si leggeva il racconto della vocazione di Geremia, oggi invece quello di Isaia: entrambi grandi profeti eppure tutti e due confessano la loro piccolezza. Geremia proclama di essere incapace di parlare, ma poiché è Dio ad averlo scelto sarà Dio stesso a dargli la forza necessaria. Isaia, da parte sua, è preso da un senso di indegnità ma è sempre Dio a renderlo “puro”. La vocazione dei profeti è sempre una scelta personale da parte di Dio che chiede una completa adesione, frutto di decisa consapevolezza: “Mandare e andare” sono i termini di ogni vocazione e anche Isaia risponde in maniera totale. Se Geremia è un sacerdote ma non si sa dove abbia ricevuto la chiamata divina, Isaia invece, che sacerdote non era, colloca la sua vocazione nel tempio di Gerusalemme: “Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato”. Quando Isaia dice: io vidi, ci comunica una visione e poiché i libri profetici sono costellati di visioni occorre riuscire a decodificare questo linguaggio. Isaia ci offre un’indicazione preziosa e afferma che tutto ciò accadde nell’anno della morte del re Ozia che  regnò a Gerusalemme dal 781 al 740 a.C. Morto il re Salomone (nel 933 a.C., quasi due secoli prima), il regno di Davide e Salomone si era diviso: esistevano due regni con due re e due capitali. Al Sud, Ozia regnava su Gerusalemme; al Nord, Menaem regnava su Samaria. Ozia era lebbroso e morì di questa malattia a Gerusalemme nel 740 a.C. È dunque in quell’anno che Isaia ricevette la sua vocazione profetica. Successivamente, predicò per circa quarant’anni e morì martirizzato sotto il re Manasse di Giuda, secondo un’accreditata tradizione, segato in due con una sega di legno. Rimane nella memoria collettiva di Israele come un grande profeta, in particolare come il profeta della santità di Dio. “Santo! Santo! Santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria”: il Sanctus delle nostre celebrazioni eucaristiche risale dunque al profeta Isaia, anche se forse questa acclamazione faceva già parte della liturgia del tempio di Gerusalemme. Dio è “Santo”:  in senso biblico significa che è totalmente Altro rispetto all’uomo (Qadosh), non è cioè a immagine dell’uomo, ma come la Bibbia afferma, è l’uomo a essere creato a immagine di Dio. Nella visione d’Isaia Dio è seduto su un trono elevato, il fumo si diffonde e riempie tutto lo spazio, una voce tuona così forte che i luoghi tremano: “Tutta la terra è piena della tua gloria”. Il profeta pensa a ciò che accadde a Mosè sul monte Sinai, quando Dio fece alleanza con il suo popolo e gli diede le Tavole della Legge. Il libro dell’Esodo racconta: “Il monte Sinai era tutto fumante, perché il Signore vi era disceso nel fuoco; il fumo saliva come quello di una fornace e tutto il monte tremava molto…” (Es 19,18-19). Isaia, nella sua piccolezza, prova un reverenziale timore: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono… eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”.  Il timore d’Isaia è anzitutto consapevolezza del nostro essere piccoli e del divario incolmabile che ci separa da Dio. Dio però non si ferma e dice: “Non temere”. Nella visione di Isaia la parola è sostituita dal gesto: “Uno dei serafini volò verso di me, teneva in mano un carbone ardente… mi toccò la bocca”. Lo purifica perché il profeta viene purificato dalla Parola che gli permette di entrare in relazione con Dio. Chiamando Dio “Il Santo d’Israele” afferma inoltre che Egli è il Totalmente Altro e al tempo stesso vicino al suo popolo, così che il suo popolo lo può sentire come il proprio Dio.  In tutta la Bibbia Dio appare come colui che vuole diventare il “Santo” per l’intera umanità, il Dio che ci ama e vuole restare con tutti noi. 

 

Tre note integrative: 

1.Il libro di Isaia comprende sessantasei capitoli: non è però di un solo autore perché è un insieme di tre raccolte. I capitoli da 1 a 39 sono in gran parte opera del profeta che qui racconta la sua vocazione (all’interno di questi 39 capitoli, alcune pagine sono probabilmente posteriori); i capitoli da 40 a 55 sono opera di un profeta che predicava durante l’esilio a Babilonia (nel VI secolo a.C.); i capitoli da 56 a 66 riportano la predicazione di un terzo profeta, contemporaneo di quanti erano tornati dall’esilio in Babilonia.

2.La santità non è un concetto morale, né un attributo di Dio, ma è la natura stessa di Dio; infatti, l’aggettivo divino non esiste in ebraico ed è sostituito dal termine santo, che significa Totalmente Altro rispetto all’uomo: non possiamo raggiungerlo con le nostre forze perché ci supera infinitamente, al punto che non abbiamo alcun potere su di lui. Il profeta Osea scrive: “Io sono Dio e non uomo; in mezzo a te sono il Dio santo” (Os 11,9). Pertanto nella Bibbia nessun essere umano è mai considerato santo, al massimo si può essere “santificati” da Dio e, di conseguenza, riflettere la sua immagine, che è da sempre la nostra vocazione. 

3.In alcune traduzioni linguistiche l’espressione “Il Signore degli eserciti” viene reso con “il Signore dell’universo” probabilmente per andare incontro a una sensibilità a cui urta l’idea di un Dio degli eserciti e per esprimere nel contempo un senso universalistico dell’azione di Dio. 

 

*Salmo responsoriale (137 /138 ,1-5.7c-8)

Questo salmo trasmette una sensazione di gioia profonda e fin dal primo versetto tutto è detto. L’espressione “rendere grazie” è infatti ripetuta più volte: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore… Rendo grazie al tuo nome”. Il credente è colui che vive nella grazia di Dio e lo riconosce semplicemente, con il cuore colmo di gratitudine. Qui il credente è il popolo d’Israele che, come sempre nei salmi, parla e rende grazie per l’Alleanza che Dio gli ha offerto. Questo si comprende dalla ripetizione del nome “Signore”, che torna più volte in questi versetti. “Signore” è il Nome di Dio, il cosiddetto “tetragramma”, formato da quattro consonanti (YHWH), rivelato a Mosè al Sinai nell’episodio del roveto ardente (Es. 3). Le quattro lettere ebraiche sono: yod, he, vav, he e la pronuncia esatta si è persa nel tempo, poiché le vocali originali non sono indicate nel testo ebraico. Generalmente diciamo “Yahweh”, nome sacro che si pronuncia raramente per rispetto. Quasi sempre viene sostituito da Adonai (“Signore”) o HaShem (“Il Nome”) durante la lettura. Dio si è rivelato a Mosè durante l’Esodo sul Sinai, anche sotto il nome di “Amore e Fedeltà” e lo sentiamo anche qui: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Questa stessa espressione “Amore e Fedeltà” ricorre più volte in altri salmi e in tutta la Bibbia, preziosa scoperta di Israele, grazie allo Spirito di Dio: «Io sono il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). Non è un caso che la rivelazione della tenerezza di Dio avvenga dopo l’episodio del vitello d’oro, cioè in un momento di grave infedeltà del popolo perché è nelle sue ripetute infedeltà che Israele ha sperimentato la misericordia di Dio. Fedeltà di Dio cantata incessantemente nel tempio di Gerusalemme: «Mi prostro verso il tuo tempio santo» (v.2) e il salmo prosegue: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Come appare nella vita del profeta Isaia, il divario che ci separa da Dio, incolmabile con azioni meritorie, è colmato da Dio stesso invitandoci nella sua intimità. E in questo salmo scopriamo in cosa consiste la santità di Dio: Amore e fedeltà. Alla fine del salmo leggiamo “il tuo amore” è per sempre e “la tua destra mi salva”, un ulteriore richiamo all’Esodo dove si dice che Egli ci ha liberati “con mano potente e braccio teso” (Dt 4,34). Israele sa di essere il destinatario della Rivelazione, il confidente di Dio, ma si rende anche conto che deve diventarne il profeta proclamandone l’Amore e la Fedeltà a tutta l’umanità. Questo è il senso del versetto: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra… quando ascolteranno le parole della tua bocca» (v.4). Soltanto quando Israele avrà compiuto la sua missione di testimone di Dio, allora si potrà davvero cantare: “Ti rendo grazie, Signore con tutto il cuore” e… “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra”. Il salmo si conclude con una preghiera: “Non abbandonare l’opera delle tue mani”, che vuol dire: Continua nonostante le nostre infedeltà. Vanno lette insieme le due frasi: “Signore, il tuo amore è per sempre…non abbandonare l’opera delle tue mani”. Il suo amore eterno ci dà certezza che non abbandonerà mai l’opera delle sue mani e per questo non smettiamo di rendere grazie: “Il Signore farà tutto per me” (v.8).

Nota integrativa. La traduzione italiana porta: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra” (v.4), Gli esegeti fanno notare che qui si tratta di un verbo ebraico inaccompiuto o imperfetto che può indicare sia azoni future, sia azioni abituali e ripetute oppure azioni continue o incomplete nel passato o nel presente. Quindi potrebbe essere validamente tradotto con il presente: “Ti rendono grazie tutti i re della terra” oppure con un congiuntivo: “Che ti rendano grazie tutti i re della terra” ed è ovvio che in ogni scelta cambia un po’ il significato.

 

*Seconda Lettura Dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,1-11)

Se oggi rileggiamo quanto scrive san Paolo è grazie al fatto che in questi millenni, di generazione in generazione, è stato trasmesso il vangelo come in una ininterrotta staffetta dove, lungo il percorso, si consegna il “testimone” a chi viene dopo che a sua volta lo consegnerà al seguente.  La Chiesa è chiamata a trasmettere fedelmente il vangelo. Paolo, a parte l’apparizione sulla via di Damasco, non ha conosciuto e non è stato testimone della vita di Gesù di Nazareth; le sue fonti sono gli Apostoli della prima generazione e per lui, in particolare, Anania, Barnaba e la comunità cristiana di Antiochia di Siria. Grazie a loro, egli ha ricevuto il Vangelo che trasmette a sua volta riassumendolo in due frasi: Cristo morì per i nostri peccati ed è risorto il terzo giorno, sintetizzabili in due sole parole: morto/risorto che costituiscono i due pilastri della fede cristiana e questo è conforme alle Scritture, cioè anche all’Antico Testamento dove però non si trovano affermazioni esplicite sulla morte e risurrezione del Messia. La formula “secondo le Scritture” non significa pertanto che tutto fosse scritto in anticipo, ma che tutto ciò che è accaduto è conforme al disegno misericordioso di Dio. Si potrebbe allora sostituire l’espressione “secondo le Scritture” con “secondo il progetto e la promessa di Dio”. Cristo morendo in croce ha cancellato i nostri peccati e, secondo la sua stessa promessa, è risorto: la morte è stata vinta ed è facile costatare che tutto l’Antico Testamento è colmo di promesse di perdono dei peccati, di salvezza e di vita. Ad esempio nell’Antico Testamento l’espressione “il terzo giorno” evocava una promessa di salvezza e liberazione perché dire che ci sarà un terzo giorno equivaleva a dire: “Dio interverrà”. Il terzo giorno sul monte Moria, Dio salva Isacco dalla morte (Gn 22,8); Il terzo giorno, Giuseppe in Egitto restituì la libertà ai suoi fratelli (Gn 42,18); Il terzo giorno, il Signore apparve al suo popolo radunato ai piedi del monte Sinai (Es 19,11- 16); Il terzo giorno, Giona, finalmente convertito, torna sulla terraferma e alla sua missione (Gn 2,1). Così si interpretava la parola di Osea: “Ci ridarà vita dopo due giorni; il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo davanti a lui” (Os 6,2). Il terzo giorno non è dunque un dato cronologico, ma l’espressione di una speranza: quella del trionfo della vita sulla morte. Proclamare che Cristo è risorto il terzo giorno secondo le Scritture è quindi affermare che la salvezza è universale: il trionfo della vita e la salvezza sono per tutti i tempi e per tutti gli uomini, poiché Cristo vive per sempre. Innestati in lui siamo già parte della nuova umanità resa viva dallo Spirito Santo. Paolo racconta che ha personalmente sperimentato questa salvezza essendo un persecutore perdonato, convertito e trasformato in colonna della Chiesa e mai lo dimenticherà testimoniando la meraviglia dell’amore di Dio per l’umanità: un amore senza condizioni e continuamente offerto. Paolo, come Isaia, come Pietro, è profondamente consapevole del proprio peccato; ma lascia agire la grazia di Dio in lui: “Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi ho faticato più di tutti loro; non io però, ma la grazia di Dio che è me” (v.10). Da persecutore Dio l’ha fatto apostolo, il più ardente, come da giovane timido, ha reso Geremia profeta coraggioso e Isaia, da uomo dalle labbra impure, l’ha fatto la «bocca di Dio» e Pietro, da rinnegatore, l’ha costituito il fondamento della sua Chiesa. Il vangelo da gridare sui tetti dell’umanità è proprio l’Amore e la Misericordia di Dio per tutti.

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*Dal Vangelo secondo Luca (5, 1-11)

 La prima lettura richiama quasi sempre il vangelo e oggi lo percepiamo molto bene. Non siamo abituati a paragonare l’apostolo Pietro al profeta Isaia, eppure i testi della liturgia ci aiutano a farlo proponendoci i racconti della loro vocazione. Diversi gli scenari: per Isaia, tutto avviene durante una visione nel tempio di Gerusalemme; per Pietro, sul lago di Tiberiade. Entrambi, però, si trovano improvvisamente al cospetto di Dio: Isaia nella sua visione, Pietro assistendo a un miracolo dopo una notte andata a vuoto. I dettagli forniti da Luca non lasciano dubbi. Pietro dice a Gesù: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” e Gesù invita a gettare ancora le reti.  Succede allora qualcosa di straordinario contro ogni aspettativa e umana esperienza. Se infatti di notte non si è pescato nulla, di giorno sicuramente è ancor peggio e questo lo sanno tutti i pescatori che lavorano di notte. Il miracolo però avviene perché, sulla semplice parola di Gesù, Pietro, esperto pescatore mostra una fiducia umile e smisurata e ubbidisce. il risultato fu una così enorme quantità di pesci da rischiare di rompere le reti. Sia Pietro che Isaia reagiscono allo stesso modo davanti all’irruzione di Dio nella loro vita; entrambi ne percepiscono la santità e l’abisso che li separa da lui. Le loro espressioni sono simili: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”, esclama Pietro, mentre Isaia dice: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono”.  Chiaro l’insegnamento: i nostri peccati, la nostra indegnità non fermano Dio perché lui si accontenta che noi ne prendiamo coscienza e ci presentiamo a Lui nella verità. Soltanto però, quando riconosciamo la nostra povertà, Dio può colmarci della sua grazia. Pietro e Isaia sono presi da un timore reverenziale davanti alla sua presenza: Isaia vede un carbone ardente toccargli la bocca, Pietro sente le parole di Gesù: “Non temere” e alla fine entrambi vengono chiamati al servizio dello stesso progetto di Dio, la salvezza degli uomini. Isaia come profeta, Pietro diventerà pescatore di uomini per la loro salvezza. Alle parole di Gesù: “Non temere, d’ora sarai pescatore di uomini” Pietro non risponde direttamente, ma insieme agli altri compie un gesto d’una semplicità impressionante: “E tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. I discepoli diventeranno collaboratori di Cristo anche se l’impresa sembrerà destinata al fallimento secondo il giudizio umano e occorrerà continuare  sempre a gettare le reti. E’ il mistero della nostra collaborazione all’opera di Dio: non possiamo fare nulla senza lui, e Dio non vuole fare nulla senza noi. Come dice Paolo nella seconda lettura, è la sua grazia che fa tutto: “Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana”. A ben vedere l’unica collaborazione che ci viene chiesta è una fiduciosa disponibilità come fa Pietro che con coraggio rischia un nuovo tentativo di pesca. E dopo il miracolo non chiama più Gesù Maestro, ma Signore, il nome riservato a Dio: si prostra ai suoi piedi pronto ormai a fare tutto ciò che dirà. In definitiva è grazie al sì di Isaia, di Pietro e dei suoi compagni e di Paolo, che oggi anche noi siamo qui. La parola di Gesù risuona ancora per noi: “Prendi il largo e gettate le reti per la pesca” e tocca a noi rispondere: sulla tua parola getteremo le reti. Per una pesca miracolosa il segreto è fidarsi sempre di Cristo, cosa non facile ma possibile a tutti.

 

Nota integrativa. Nel versetto 6, il verbo “presero una quantità di pesci” è συνεκλεισαν (synekleisan), derivato dal verbo συγκλείω (synkleió), che significa “rinchiudere”, “intrappolare” o “racchiudere insieme” e significa prendere i pesci con la rete strappandoli dal mare per ucciderli. Nelle sue opere, Sant’Agostino utilizza spesso l’immagine dei pescatori per descrivere l’opera degli Apostoli, in particolare di Pietro e Andrea, chiamati da Gesù a diventare “pescatori di uomini” (Matteo 4,19). Così annota nel Commento ai Salmi (Salmo 91, Discorso 2): “Essi pescano uomini, non per ucciderli ma per vivificarli; pescano, ma per condurli alla luce della verità, non alla morte”. Quando quindi si tratta di uomini, strapparli dal mare (simbolo del male) significa salvarli: prendere uomini vivi vuol dire impedir loro di annegare, cioè salvarli da gorghi di morte: portarli al respiro, alla Luce, alla Vita.

+Giovanni D’Ercole

 

 

*Sintesi 9 Febbraio 2025 V Domenica Tempo Ordinario Anno C

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! 

Aggiungo in coda al commento delle Letture alcune note che aiutano a meglio entrare nel testo e utili anche per la lectio divina o la catechesi. 

 

*Prima Lettura Dal Libro del profeta Isaia (6, 1- 8)

 Nella IV domenica del Tempo Ordinario Anno C (quest’anno sostituita dalla liturgia della Presentazione del Signore) si leggeva il racconto della vocazione di Geremia, oggi invece quello di Isaia: entrambi grandi profeti eppure tutti e due confessano la loro piccolezza. Geremia proclama di essere incapace di parlare, ma poiché è Dio ad averlo scelto sarà Dio stesso a dargli la forza necessaria. Isaia, da parte sua, è preso da un senso di indegnità ma è sempre Dio a renderlo “puro”. La vocazione dei profeti è sempre una scelta personale da parte di Dio che chiede una completa adesione, frutto di decisa consapevolezza: “Mandare e andare” sono i termini di ogni vocazione e anche Isaia risponde in maniera totale. Se Geremia è un sacerdote ma non si sa dove abbia ricevuto la chiamata divina, Isaia invece, che sacerdote non era, colloca la sua vocazione nel tempio di Gerusalemme: “Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato”. Isaia ci offre un’indicazione preziosa e afferma che ciò accadde nell’anno della morte del re Ozia che  regnò a Gerusalemme dal 781 al 740 a.C. Morto il re Salomone (nel 933 a.C., quasi due secoli prima), il regno di Davide e Salomone si era diviso: esistevano due regni con due re e due capitali. Al Sud, Ozia regnava su Gerusalemme; al Nord, Menaem regnava su Samaria. Ozia era lebbroso e morì di questa malattia a Gerusalemme nel 740 a.C. È dunque in quell’anno che Isaia ricevette la sua vocazione profetica. Successivamente, predicò per circa quarant’anni e morì martirizzato sotto il re Manasse di Giuda, secondo un’accreditata tradizione, segato in due con una sega di legno. Rimane nella memoria collettiva di Israele come un grande profeta, in particolare come il profeta della santità di Dio. “Santo! Santo! Santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria”: il Sanctus delle nostre celebrazioni eucaristiche risale dunque al profeta Isaia, anche se forse questa acclamazione faceva già parte della liturgia del tempio di Gerusalemme. Dio è “Santo”:  in senso biblico significa che è totalmente Altro rispetto all’uomo (Qadosh), non è cioè a immagine dell’uomo, ma come la Bibbia afferma, è l’uomo a essere creato a immagine di Dio. Chiamando Dio “Il Santo d’Israele” afferma inoltre che Egli è il Totalmente Altro e al tempo stesso vicino al suo popolo, così che il suo popolo lo può sentire come il proprio Dio.  In tutta la Bibbia Dio appare come colui che vuole diventare il “Santo” per l’intera umanità, il Dio che ci ama e vuole restare con tutti noi. 

 

Tre note integrative: 

1.Il libro di Isaia comprende sessantasei capitoli: non è però di un solo autore perché è un insieme di tre raccolte. I capitoli da 1 a 39 sono in gran parte opera del profeta che qui racconta la sua vocazione (all’interno di questi 39 capitoli, alcune pagine sono probabilmente posteriori); i capitoli da 40 a 55 sono opera di un profeta che predicava durante l’esilio a Babilonia (nel VI secolo a.C.); i capitoli da 56 a 66 riportano la predicazione di un terzo profeta, contemporaneo di quanti erano tornati dall’esilio in Babilonia.

2.La santità non è un concetto morale, né un attributo di Dio, ma è la natura stessa di Dio; infatti, l’aggettivo divino non esiste in ebraico ed è sostituito dal termine santo, che significa Totalmente Altro rispetto all’uomo: non possiamo raggiungerlo con le nostre forze perché ci supera infinitamente, al punto che non abbiamo alcun potere su di lui. Il profeta Osea scrive: “Io sono Dio e non uomo; in mezzo a te sono il Dio santo” (Os 11,9). Pertanto nella Bibbia nessun essere umano è mai considerato santo, al massimo si può essere “santificati” da Dio e, di conseguenza, riflettere la sua immagine, che è da sempre la nostra vocazione. 

3.In alcune traduzioni linguistiche l’espressione “Il Signore degli eserciti” viene reso con “il Signore dell’universo” probabilmente per andare incontro a una sensibilità a cui urta l’idea di un Dio degli eserciti e per esprimere nel contempo un senso universalistico dell’azione di Dio. 

 

*Salmo responsoriale (137 /138 ,1-5.7c-8)

Questo salmo trasmette una sensazione di gioia profonda e fin dal primo versetto tutto è detto. L’espressione “rendere grazie” è infatti ripetuta più volte: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore… Rendo grazie al tuo nome”. Il credente è colui che vive nella grazia di Dio e lo riconosce semplicemente, con il cuore colmo di gratitudine. Qui il credente è il popolo d’Israele che, come sempre nei salmi, parla e rende grazie per l’Alleanza che Dio gli ha offerto. Questo si comprende dalla ripetizione del nome “Signore”, che torna più volte in questi versetti. “Signore” è il Nome di Dio, il cosiddetto “tetragramma”, formato da quattro consonanti (YHWH), rivelato a Mosè al Sinai nell’episodio del roveto ardente (Es. 3). Generalmente diciamo “Yahweh”, nome sacro che si pronuncia raramente per rispetto. Dio si è rivelato a Mosè durante l’Esodo sul Sinai, anche sotto il nome di “Amore e Fedeltà” e lo sentiamo anche qui: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Questa stessa espressione “Amore e Fedeltà” ricorre più volte in altri salmi e in tutta la Bibbia: «Io sono il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). In questo salmo scopriamo che la santità di Dio consiste in Amore e fedeltà. Israele si rende conto che deve diventarne il profeta proclamandone l’Amore e la Fedeltà a tutta l’umanità. Soltanto quando Israele avrà compiuto questa  sua missione, allora si potrà davvero cantare: “Ti rendo grazie, Signore con tutto il cuore” e… “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra”. 

 

Nota integrativa. La traduzione italiana porta: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra” (v.4), Gli esegeti fanno notare che qui si tratta di un verbo ebraico inaccompiuto o imperfetto che può indicare sia azoni future, sia azioni abituali e ripetute oppure azioni continue o incomplete nel passato o nel presente. Quindi potrebbe essere validamente tradotto con il presente: “Ti rendono grazie tutti i re della terra” oppure con un congiuntivo: “Che ti rendano grazie tutti i re della terra” ed è ovvio che in ogni scelta cambia un po’ il significato.

 

*Seconda Lettura Dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,1-11)

Paolo, a parte l’apparizione sulla via di Damasco, non ha conosciuto e non è stato testimone della vita di Gesù di Nazareth; le sue fonti sono gli Apostoli della prima generazione e grazie a loro, ha ricevuto il Vangelo che trasmette a sua volta riassumendolo in due frasi: Cristo morì per i nostri peccati ed è risorto il terzo giorno, sintetizzabili in due sole parole: morto/risorto che costituiscono i due pilastri della fede cristiana e questo è conforme alle Scritture, cioè anche all’Antico Testamento dove però non si trovano affermazioni esplicite sulla morte e risurrezione del Messia. La formula “secondo le Scritture” non significa pertanto che tutto fosse scritto in anticipo, ma che tutto ciò che è accaduto è conforme al disegno misericordioso di Dio. Si potrebbe allora sostituire l’espressione “secondo le Scritture” con “secondo il progetto e la promessa di Dio”. Cristo morendo in croce ha cancellato i nostri peccati e, secondo la sua stessa promessa, è risorto: la morte è stata vinta ed è facile costatare che tutto l’Antico Testamento è colmo di promesse di perdono dei peccati, di salvezza e di vita. Ad esempio nell’Antico Testamento l’espressione “il terzo giorno” evocava una promessa di salvezza e liberazione perché dire che ci sarà un terzo giorno equivaleva a dire: “Dio interverrà”. Il terzo giorno sul monte Moria, Dio salva Isacco dalla morte (Gn 22,8); Il terzo giorno, Giuseppe in Egitto restituì la libertà ai suoi fratelli (Gn 42,18); Il terzo giorno, il Signore apparve al suo popolo radunato ai piedi del monte Sinai (Es 19,11- 16); Il terzo giorno, Giona, finalmente convertito, torna sulla terraferma e alla sua missione (Gn 2,1). Così si interpretava la parola di Osea: “Ci ridarà vita dopo due giorni; il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo davanti a lui” (Os 6,2). Il terzo giorno non è dunque un dato cronologico, ma l’espressione di una speranza: quella del trionfo della vita sulla morte. Proclamare che Cristo è risorto il terzo giorno secondo le Scritture è quindi affermare che la salvezza è per tutti i tempi e per tutti gli uomini, poiché Cristo vive per sempre. Da persecutore Dio ha fatto san Paolo apostolo, come da giovane timido, ha reso Geremia profeta coraggioso e Isaia, da uomo dalle labbra impure, l’ha fatto la «bocca di Dio» e Pietro, da rinnegatore, l’ha costituito il fondamento della sua Chiesa. 

 

*Dal Vangelo secondo Luca (5, 1-11)

 La prima lettura richiama quasi sempre il vangelo e oggi lo percepiamo molto bene. Non siamo abituati a paragonare l’apostolo Pietro al profeta Isaia, eppure i testi della liturgia ci aiutano a farlo proponendoci i racconti della loro vocazione. Diversi gli scenari: per Isaia, tutto avviene durante una visione nel tempio di Gerusalemme; per Pietro, sul lago di Tiberiade. Entrambi, però, si trovano improvvisamente al cospetto di Dio: Isaia nella sua visione, Pietro assistendo a un miracolo dopo una notte andata a vuoto. I dettagli forniti da Luca non lasciano dubbi. Pietro dice a Gesù: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” e Gesù invita a gettare ancora le reti.  Succede allora qualcosa di straordinario contro ogni aspettativa e umana esperienza. Se infatti di notte non si è pescato nulla, di giorno sicuramente è ancor peggio e questo lo sanno tutti i pescatori che lavorano di notte. Il miracolo però avviene perché, sulla semplice parola di Gesù, Pietro, esperto pescatore mostra una fiducia umile e smisurata e ubbidisce. il risultato fu una così enorme quantità di pesci da rischiare di rompere le reti. Sia Pietro che Isaia reagiscono allo stesso modo davanti all’irruzione di Dio nella loro vita; entrambi ne percepiscono la santità e l’abisso che li separa da lui. Le loro espressioni sono simili: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”, esclama Pietro, mentre Isaia dice: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono”.  Chiaro l’insegnamento: i nostri peccati, la nostra indegnità non fermano Dio perché lui si accontenta che noi ne prendiamo coscienza e ci presentiamo a Lui nella verità e quando riconosciamo la nostra povertà, Dio può colmarci della sua grazia. Alle parole di Gesù: “Non temere, d’ora sarai pescatore di uomini” Pietro non risponde direttamente, ma insieme agli altri compie un gesto d’una semplicità impressionante: “E tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. I discepoli diventeranno collaboratori di Cristo anche se l’impresa sembrerà destinata al fallimento secondo il giudizio umano e occorrerà continuare sempre a gettare le reti. E’ il mistero della nostra collaborazione all’opera di Dio: non possiamo fare nulla senza lui, e Dio non vuole fare nulla senza noi. La parola di Gesù risuona ancora per noi: “Prendi il largo e gettate le reti per la pesca” e tocca a noi rispondere: sulla tua parola getteremo le reti. 

 

Nota integrativa. Nel versetto 6, il verbo “presero una quantità di pesci” deriva dal verbo greco synkleió, che significa “rinchiudere”, “intrappolare” o “racchiudere insieme” e significa prendere i pesci con la rete strappandoli dal mare per ucciderli. Sant’Agostino utilizza spesso l’immagine dei pescatori per descrivere l’opera degli Apostoli, in particolare di Pietro e Andrea, chiamati da Gesù a diventare “pescatori di uomini” (Matteo 4,19). Nel Commento ai Salmi (Salmo 91, Discorso 2) scrive: “Essi pescano uomini, non per ucciderli ma per vivificarli; pescano, ma per condurli alla luce della verità, non alla morte”. Quando quindi si tratta di uomini, strapparli dal mare (simbolo del male) significa salvarli: prendere uomini vivi vuol dire impedir loro di annegare, cioè salvarli da gorghi di morte: portarli al respiro, alla Luce, alla Vita.

+Giovanni D’Ercole

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don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

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Love is indeed “ecstasy”, not in the sense of a moment of intoxication, but rather as a journey, an ongoing exodus out of the closed inward-looking self towards its liberation through self-giving, and thus towards authentic self-discovery and indeed the discovery of God (Deus Caritas est n.6)
Sì, amore è « estasi », ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio (Deus Caritas est n.6)
Before asking them, the Twelve, directly, Jesus wants to hear from them what the people think about him, and he is well aware that the disciples are very sensitive to the Teacher’s renown! Therefore, he asks: “Who do men say that I am?” (v. 27). It comes to light that Jesus is considered by the people as a great prophet. But, in reality, he is not interested in the opinions and gossip of the people (Pope Francis)
Prima di interpellare direttamente loro, i Dodici, Gesù vuole sentire da loro che cosa pensa di Lui la gente – e sa bene che i discepoli sono molto sensibili alla popolarità del Maestro! Perciò domanda: «La gente, chi dice che io sia?» (v. 27). Ne emerge che Gesù è considerato dal popolo un grande profeta. Ma, in realtà, a Lui non interessano i sondaggi e le chiacchiere della gente (Papa Francesco)
In the rite of Baptism, the presentation of the candle lit from the large Paschal candle, a symbol of the Risen Christ, is a sign that helps us to understand what happens in the Sacrament. When our lives are enlightened by the mystery of Christ, we experience the joy of being liberated from all that threatens the full realization (Pope Benedict)
Nel rito del Battesimo, la consegna della candela, accesa al grande cero pasquale simbolo di Cristo Risorto, è un segno che aiuta a cogliere ciò che avviene nel Sacramento. Quando la nostra vita si lascia illuminare dal mistero di Cristo, sperimenta la gioia di essere liberata da tutto ciò che ne minaccia la piena realizzazione (Papa Benedetto)
And he continues: «Think of salvation, of what God has done for us, and choose well!». But the disciples "did not understand why the heart was hardened by this passion, by this wickedness of arguing among themselves and seeing who was guilty of that forgetfulness of the bread" (Pope Francis)
E continua: «Pensate alla salvezza, a quello che anche Dio ha fatto per noi, e scegliete bene!». Ma i discepoli «non capivano perché il cuore era indurito per questa passione, per questa malvagità di discutere fra loro e vedere chi era il colpevole di quella dimenticanza del pane» (Papa Francesco)
[Faith] is the lifelong companion that makes it possible to perceive, ever anew, the marvels that God works for us. Intent on gathering the signs of the times in the present of history […] (Pope Benedict, Porta Fidei n.15)
[La Fede] è compagna di vita che permette di percepire con sguardo sempre nuovo le meraviglie che Dio compie per noi. Intenta a cogliere i segni dei tempi nell’oggi della storia […] (Papa Benedetto, Porta Fidei n.15)
Jesus proclaims the poor, the hungry, the suffering and the persecuted blessed, and he admonishes those who are rich, satisfied, who laugh and are praised by the people. The reason behind this paradoxical beatitude lies in the fact that God is close to those who suffer, and intercedes to free them from their bondage. Jesus sees this; he already sees the beatitude beyond its negative reality. And likewise, the “woe to you” addressed to those who are doing well today (Pope Francis)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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