Sal 15 (16)
«Miktam. Di Davide. Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio». Miktām è una parola discussa. Deriva da “katam” (incidere, intagliare). La parola indica qualcosa che è stato scolpito e quindi una scrittura permanente, scolpita per la sua importanza. La Bibbia dei LXX traduce “stēlographia”, una scrittura incisa; stēlē era la parola per pietra tombale (per l’iscrizione scolpita su di essa). Perciò “miktām” indica che questo tipo di Salmi sono collegati con la morte, ma vanno verso la speranza della risurrezione. Questo è particolarmente vero del Salmo 15; comunque quello che d’importante è “scolpito” in questi Salmi, va ricavato dalla lettura del Salmo stesso. Il riferimento è al Figlio di Davide; e specialmente alla sua morte e risurrezione; questa è la verità “scolpita” in questo Salmo miktām.
È un salmo di fiducia, la preghiera in cui un giusto esprime la propria fiducia nel Signore. A Dio si chiede protezione. In Dio ci si vuole rifugiare: Proteggimi, o Dio, in te mi rifugio. Il giusto si rifugia in Dio, e gli chiede protezione.
Notiamo il duplice movimento: a) da una parte Dio protegge il fedele (movimento discendente); b) dall'altra, il fedele si affida totalmente a Dio (movimento ascendente). Questo salmo, potremmo quasi dire, ci descrive il concetto dei Sacramenti: il punto di incontro tra la grazia di Dio che scende (quindi il Signore che opera) e l'uomo che attinge alla grazia e rende culto al Signore.
Il v. 2 è una bellissima professione di fede: “Sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene”. Ecco la fede del giusto, del timorato di Dio. Dio è il Suo Signore. Nessun altro è il suo Signore. Se Dio è il suo Signore, vuol dire che lui camminerà sempre secondo la volontà del suo Dio e Signore. ‘Senza di te non ho alcun bene’. Dio che ci ha dato la vita non è solo la fonte dalla quale proviene il bene, ma è "il bene". Questa è vera professione di fede, non è solo una fede pensata, ma testimoniata anche alla comunità, è una professione pubblica. D’altronde la fede deve essere pubblica, dovrà sempre essere proclamata dinanzi a tutti, sempre.
“Per i santi, che sono sulla terra, uomini nobili, è tutto il mio amore” (v. 3). I "santi" e i "nobili" sono le persone con cui si accompagna il giusto. Egli riconosce il valore che si trova nella comunione con i santi, con coloro che Dio ha messo a parte, e in cui si riflette la Sua santità. La nuova traduzione CEI (quella del 2008), traduce: “agli idoli del paese, agli dèi potenti andava tutto il mio favore”, rendendo del tutto incomprensibile il testo che già in ebraico è difficile. È difficile comprendere come l'ebraico “qeḏôšîm” possa essere tradotto “idoli” invece che “santi”. La traduzione dei LXX e della Volgata avevano fatto una scelta ben chiara, ed è quella emersa nella traduzione del 1974: “Per i santi, che sono sulla terra, uomini nobili, è tutto il mio amore”.
Nel v. 4 la professione di fede è fatta al contrario. Il pio adoratore si impegna a non favorire il culto idolatrico. “Io non spanderò le loro libazioni di sangue”. Una delle caratteristiche dell'idolatria era la "libazione di sangue", che poteva riferirsi anche al sacrificio umano, soprattutto di bambini. “Né pronuncerò con le mie labbra i loro nomi”. La distanza deve essere netta. Con gli idoli non si deve avere alcuna comunione, di nessun genere. Neanche il loro nome deve essere pronunciato. Sulla bocca del vero adoratore ci deve essere solo il nome del suo Dio. Gli idoli non meritano l'onore di essere nominati. Oggi, potremmo dire, il giusto evita di partecipare a un falso culto.
“Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” (v. 5). Qui ci sono dei simboli sacerdotali. Sappiamo che nella spartizione della terra di Canaan, dopo la conquista, la tribù di Levi non ebbe un suo territorio specifico ma solo delle città di residenza. Chi era consacrato al culto non doveva essere impegnato nelle strutture sociali ma doveva fare da intermediario tra Dio e il popolo. La terra dei sacerdoti era Dio stesso e questo concretamente significava il diritto di ricevere le decime offerte dalle tribù per il proprio sostentamento. Il salmista, quindi, attraverso delle immagini esprime questa dedizione del sacerdote al suo Dio.
1. Il Signore è per lui “parte di eredità” cioè “parte di un territorio”.
2. Il Signore è per lui il suo “calice”, cioè il suo ospite, il suo familiare che lo accoglie.
Il "calice" è segno dell'ospitalità di Dio al suo fedele. È Dio che porge il calice, così come - dal punto di vista strettamente umano - è colui che riceve in casa propria che offre all'ospite il calice. Nell'ultima cena chi offre il calice? È Gesù il padrone di casa, è l'ospite inteso alla latina (per i romani, infatti, l'ospite è colui che ospita e non colui che viene ospitato).
Per l'uomo giusto e pio, il Signore è la sua parte di eredità e il suo calice. Non è la terra l’eredità del giusto e neanche le cose di questo mondo. Sua eredità è solo il Signore. Solo il Signore è il suo calice di salvezza, di vita vera. Quest’uomo non si attende nulla dalla terra. È il Signore, nel presente e nel futuro, la sua vita, il suo benessere, la sua prosperità, per questo la pone nelle mani del suo Dio. Questo è abbandono totale. Lui vuole essere solo di Dio, sempre nelle sue mani.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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