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Lug 19, 2025 Scritto da 
Preghiera critica

Insegnaci a Pregare

(Lc 11,1-13)

 

La Croce-dentro della Preghiera: sguardo non più posizionato all’esterno

 

Orazione dei figli: prestazione o Ascolto?

 

Nelle comunità di Mt e Lc la “preghiera” dei figli - il «Padre Nostro» - non nasce come orazione, bensì come formula di accettazione delle Beatitudini (nelle sue scansioni: invocazione al Padre, situazione umana e avvento del Regno, liberazione).

In ogni caso, la piena differenza fra preghiera religiosa ed espressione animata dalla Fede è nel discrimine tra: Prestazione o Percezione.

[Come dice Papa Francesco: «Pregare non è parlare a Dio come un pappagallo». «Il nostro Dio non ha bisogno di sacrifici per conquistare il suo favore! Non ha bisogno di niente»].

Nelle religioni - infatti - è il soggetto orante che “prega”, esternando richieste, esponendo se stesso, lodando, e così via.

Ancora nel Tomismo, si considerava la virtù di religione come un aspetto della virtù cardinale della Giustizia. Come dire: la giusta posizione dell’uomo a cospetto di Dio è quella di colui che riconosce un dovere di culto (culto che si dirige a partire da lui) verso il Creatore; e l’uomo - soggetto della preghiera - lo adempierebbe.

Viceversa, il figlio di Dio in Cristo è un «uditore» del Logos: è colui che tende l’orecchio, percepisce, accoglie: insomma, il Soggetto autentico che si esprime è Dio stesso.

Egli si rivela attraverso la Parola, nella realtà degli eventi, nelle pieghe della storia universale e personale, nella particolare Chiamata che ci concede, persino nelle immagini intime.

Esse si fanno plastiche espressioni di Mistero (e Vocazione personale) le quali onda su onda addirittura guidano l’anima.

 

«Pregando, non blaterate come i pagani, infatti essi credono di venire esauditi per la loro verbosità» (Mt 6,7; cf. Lc 11,1).

Nella Fede partecipiamo della preghiera autentica di Gesù stesso - Persona in noi - rivolta al Padre, anzitutto in «ascolto» delle Sue proposte provvidenti: come se uniti all’Amico e Fratello ci inserissimo in questo Dialogo - ricolmo di suggestioni persino figurative.

Ma è l’Unigenito a pregare; non siamo noi i grandi protagonisti. Solo in tal senso l’atto orante può definirsi «dei figli» o “cristiano”.

La nostra vita di preghiera non è un esercizio ascetico - tantomeno un dovere, né una lista della spesa - perché Dio non ha bisogno di essere informato su qualcosa cui prima non aveva pensato.

Come dice il Maestro, il Padre sa ciò di cui abbiamo bisogno (Mt 6,8). Quindi per rivolgersi a Lui non è necessario alcuno sforzo [ fatica lacerante per centrarsi su se stessi e uscire fuori di sé…]. Né ci obbliga a troppe (o giuste) parole.

La preghiera autentica non è un ricalcare, né un salto nel buio esteriore, bensì uno scavo e vaglio, donato. Un tuffo nel nostro essere, dove l’intimità dell’Intesa si propone di capire la firma d’Autore nel cuore delle vicende; persino delle emozioni.

L’orazione dell’uomo di Fede non ha l’obiettivo d’introdurre la volontà di Dio e la realtà delle situazioni in angusti orizzonti e giudizi già comprensibili, come spingendola a sintonie innaturali.

La preghiera è un balzo percettivo senza identità ripetitive, dal proprio Nucleo - che azzera le tossine mentali; e così diventa un’esperienza di pienezza di essere, alla ricerca di senso globale e personale.

L’uomo orante non è neppure preda d’un qualche stato parossistico eccitato (ridicolo o soporifero): sta accogliendo un’Azione - un’Opera di paradossale sospensione, nel percorso verso la propria Beatitudine.

 

La preghiera è persino un gesto di ordine estetico in Cristo. Appunto perché tende a speronare il nostro immaginario quotidiano, affinché esso venga plasmato secondo la visione guida che inabita. Sposta e quasi dirige l’occhio dell’anima, e l’esperienza ecclesiale.

Una virtù-evento che via via cesella quell’immagine personalissima che porta a consapevolezza un obiettivo o una realtà comunitaria di lode, ovvero una narrazione innata... Voce di energie sconosciute, per cambiamenti importanti.

Passo dopo passo tale percezione e dialogo che s’affaccia induce a interiorizzare sprazzi nascosti della via che ci appartiene: una missionarietà che cerca sintonie, la creazione d’un ambiente vivo, e così via. Anche destabilizzanti.

Solo in questo senso la preghiera è in ordine ai nostri benefici.

Né può ridursi a distintivo di gruppo, perché pur riconoscendosi in alcuni saperi ciascuno ha un suo proprio linguaggio dell’anima, una rilevante storia e sensibilità, un inedito mondo iconico (anche in termini di micro e macro relazioni sognate), nonché un compito irripetibile di salvezza.

 

Anche per questo motivo - sebbene in ordine alla comunità di riferimento - il Simbolo dei rinati in Cristo che si rivolgono al Padre ci è pervenuto in versioni differenti: Mt, Lc, Didaché [«Insegnamento» forse contemporaneo agli ultimi scritti del Nuovo Testamento, una sorta di primo Catechismo].

Per introdurci a considerazioni specifiche, è opportuno chiedersi: perché Gesù non frequenta i luoghi di culto per recitare formule di tradizione, bensì per insegnare?

E mai risulta che gli apostoli preghino con Lui: sembra che essi volessero solo una formula per distinguersi da altre scuole rabbiniche (cf. Lc 11,1).

Il Signore tiene duro unicamente sulla mentalità e lo stile di vita: procede su opzioni fondamentali - e insiste sulla percezione tesa all’accogliere, più che al nostro dire e organizzare (poco intrisi di eternità fondata).

 

 

Padre

 

Il Dio delle religioni era nominato con sovrabbondanza di epiteti onorifici altisonanti, come se bramasse schiere sempre più nutrite d’incensatori.

Il Padre non si fa accompagnare da titoli prestigiosi. Un figlio non si rivolge al genitore come a un altissimo, eterno o eccelso, ma come a colui che gli trasmette vita.

E il figlio non immagina di dover porgere grida e riconoscimenti esterni - altrimenti il superiore e padrone si adonta e potrebbe castigare: il Genitore guarda i bisogni, non i meriti.

Il Dio delle religioni governa i sudditi emanando leggi, come fa un sovrano; il Padre trasmette il suo Spirito, la sua stessa Vita, che eleva e perfeziona sia le capacità di ascolto personale che l’accorgersi (ad es. dei fratelli).

Unica richiesta è quella di estendere le nostre risorse missionarie e di alimentarci del Pane-Persona che ci rimodella sulle sue stesse virtù, secondo ciò che dovremmo essere, e avremmo forse già potuto essere.

 

Una realtà alla nostra portata è la cancellazione dei debiti materiali che il nostro prossimo ha contratto nella necessità.

Non c’è testimonianza del Dio-Amore che non passi attraverso una comunità fraterna, in cui si vive la comunione dei beni.

La sicurezza di essere a posto con Dio è nella gioia della convivenza e della condivisione.

Nel credo religioso si confondono spesso le benedizioni materiali con quelle divine, il che accentua le competizioni, il primato artificioso e i disagi della vita reale.

Viceversa, lo spirito delle Beatitudini si rende palese in un popolo in cui sono abolite le distinzioni tra creditori e debitori.

 

 

«Non c’indurre»: antica Preghiera dei figli, nella vita reale

 

Essenza di Dio è: Amore che non tradisce e non abbandona; inutile, confusionario e blasfemo chiedere a un Padre: «Non abbandonarmi» [cf. testo greco]. Anche se può essere d’effetto all’orecchio esteriore.

Le false mistiche del Gesù abbandonato (addirittura dal Padre!) non educano; forse affascinano, sicuramente confondono - e plagiano.

Nella preghiera è garantito solo lo Spirito: la lucidità di comprendere la fecondità della Croce, il guadagno nella perdita, la vita non nel trionfo ma nella morte. E la forza per essere fedeli alla propria Chiamata, malgrado le persecuzioni anche “interne”.

La comunità e le singole anime chiedono tuttavia di non essere posti nelle condizioni estreme della prova, ben conoscendo il proprio limite, la personale invincibile precarietà, sebbene redenta.

 

Questa la soglia che distingue religiosità e Fede: da un lato la formula “sicura” dei convinti e forti; dall’altra un’orazione dimessa e in attesa: dei malfermi, riscattati per amore.

 

«Non c’indurre» è appunto (nel senso latino e greco: «introdurre sino in fondo») un’antico Simbolo dei rinati in Cristo, nell’esperienza della vita reale.

 

Nelle religioni esistono demoni e angeli nettamente contrapposti: potenze disordinate e oscure, contrarie a quelle luminose e “a posto”.

Ma a forza di far retrocedere le prime, le peggiori continuamente riaffiorano, sino a vincere la partita e dilagare.

Nelle vite dei santi vediamo questi grandi uomini stranamente sempre sotto tentazione - perché disdegnano il male, quindi non lo conoscono. Man mano, i continui assilli diventano però frotte incontenibili.

 

La donna e l’uomo di Fede non agiscono secondo corrivi e superficiali modelli prestabiliti, neppure religiosi; hanno consapevolezza di non essere eroi o fenomeni da paradigma.

Ecco perché si affidano. Essi lasciano trascorrere i problemi intimi: ne hanno compreso la forza!

È questo il significato della formula del Padre Nostro, nel suo senso originario: «non portarci sino in fondo nella prova, perché conosciamo la nostra debolezza».

Tale attenzione sorge affinché proprio il peccato - a furia di rinnegarlo, poi mascherarlo - non diventi paradossalmente il protagonista occulto del nostro cammino. Il perno dell’attenzione, che purtroppo ingorga i pensieri, bloccando i processi interni di crescita spontanea, percezione di Grazia e autoguarigione [in ordine alla propria irripetibile Chiamata].

Sarebbe il contrario d’una Redenzione e della Libertà, quindi dell’Amore: si annienta dove c’è un superiore che sovrasta - fosse pure Dio.

Assai proficuo è viceversa ricuperarne l’energia, che ci ha posti in contatto con i nostri strati profondi, per nuovi orizzonti. E assumerla facendola propria ospite, a pieno titolo - per (solo poi) investirla in maniera inattesa e sapiente.

Se viceversa la nostra “controparte” diventa costante retropensiero e blocco, siamo fritti.

 

Dolori, fallimenti, tristezze, frustrazioni, debolezze, mille angosce, troppe cadute, ci abituano a vivere il male come parte di noi stessi: Condizione da valutare, non “colpa” da tagliare in orizzontale.

Nel processo di vera trasmutazione salvifica, quel segnale parla di noi: dentro una deviazione o l’eccentricità c’è un segreto o una conoscenza da rinvenire, per rinascere personalmente.

Posando lo sguardo sui disagi e le opposizioni, ci accorgiamo che questi lati critici dell’essere diventano come un magma plasmabile, il quale più speditamente accosta la guarigione. Come attraverso una conversione, permanente, radicale… perché coinvolge e ci appartiene; non artificiosa e di periferia, ma di fondo, di Seme e Natura.

Schemi e convinzioni assorbite non lasciano comprendere che la vita appassionata è composta di stati contrapposti, di energie competitive - che non bisogna mascherare per farci considerare gente perbene.

 

Percependo e integrando tali profondità, deponiamo l’idea e l’atmosfera di pericolo incombente, privo d’ulteriori occasioni, solo per la morte.

Diventiamo maturi, senza dissociazioni o stati isterici derivanti da identificazioni artificiose, né disistima per una parte importante di noi.

Insomma, le ristrettezze e le “croci” hanno qualcosa da dirci.

Esse scuotono l’anima alla radice, spazzano via le maschere assorbite, accendono la persona, e salvano la vita.

In tal guisa, gli inconvenienti e le ansie ci aiutano. Nascondono capacità e possibilità che ancora non vediamo.

Nella virtù dell’eccezionalità malferma eppure unica per ciascuno, ecco aprirsi la vera strada.

Percorso del Padre e del cuore, Via che vuole guidarci verso traiettorie alternative, nuove dimensioni dell’esistenza.

 

La differenza della Fede, rispetto alla religiosità antica [nel senso della croce-dentro]?

È nella coscienza che solo i malati guariscono, solo gli incompleti crescono.

Solo i claudicanti riprendono espressione, evolvono. E cadendo, scattano avanti.

 

 

Preghiera continua: condizione di grazia e di forza, che non svia.

 

Venir meno senza venir meno. Lotta: incessante, efficace, con noi stessi e con Dio

(Lc 11,5-13)

 

A volte mettiamo il Padre sul banco degli imputati, perché sembra lasciar andare le cose come le orienta la nostra libertà.

Ma il suo Disegno non è far funzionare il mondo alla perfezione dei transistor (di una volta) o dei circuiti integrati (nei rispettivi “package”) o “chip” [vari “pezzetti”]…

Dio vuol farci acquisire una mentalità da Nuova Creazione. La sua Azione ci modella sul Figlio, trasformando progetti, idee, desideri, parole, comportamenti standard.

All’inizio forse la preghiera può sembrare venata di sole richieste. Più si procede nell’esperienza dell’orazione nello Spirito del Cristo, meno si chiede.

Le domande si attenuano, sino a cessare quasi del tutto.

I desideri di accumulo, o rivalsa e trionfo, lasciano il posto all’ascolto e alla percezione.

L’occhio che penetra si accorge di quanto è a portata di mano e dell’inusitato - nell’accoglienza sempre più cosciente, che si fa contemplazione e unione reali.

Non sappiamo quanto tempo, ma il “risultato” subentra improvviso: non solo certo, bensì sproporzionato.

Ma come estratto da un processo d’incandescenza continua, dove non esistono reti logiche, né facili scorciatoie.

 

Riceviamo il Dono massimo e completo. E possiamo ospitarlo con dignità. Una nuova Creazione nello Spirito, un diverso aspetto.

Un Volto insperato - non semplicemente quello fantasticato o ben sistemato (come trasmesso dalla famiglia o atteso a contorno).

 

Dio lascia che gli eventi seguano un loro corso, apparentemente distante da noi; quindi la preghiera può assumere toni drammatici e suscitare l’irritazione - come fosse una disputa aperta fra noi e Lui.

Ma Egli sceglie di non farsi garante dei nostri sogni esterni. Non si lascia introdurre nei limiti piccini.

Vuole coinvolgerci in ben altro che le nostre mète, di frequente troppo conformi a quello che abbiamo sotto il naso.

Inventa orizzonti dilatati, ma in questo travaglio dev’essere chiaro che non bisogna venir meno a noi stessi. Ossia al carattere della nostra essenza e vocazione.

Tutto ciò, proprio venendo meno a noi stessi - ossia cedendo il punto di vista rigido e dialogando coi nostri strati profondi.

Tale processo sposta l’accento condizionato.

Non è che Dio si compiace di farsi senza posa pregare e ripiegare dai poveretti.

Siamo noi ad aver bisogno di tempo per incontrare la nostra stessa anima e lasciarci introdurre in un altro genere di programmi che non siano conformisti e scontati.

 

Leggere gli accadimenti secondo visioni totalmente “inadeguate”, eccentriche o eccessive, meno contratte dentro le solite armature (e così via) può aprire la mente.

L’espansione dello sguardo accresce l’intuizione, modifica i sentimenti, trasforma, attiva. Coglie altri disegni, spalanca differenti orizzonti - con risultati intermedi già prodigiosi, sicuramente imprevedibili.

Quando qualcuno crede di aver capito il mondo, già si condiziona auspici ulteriori, più intensi, che vorrebbero invadere il nostro spazio.

Questa “natura” artificiale di assetti spuri, esterni o altrui, blocca l’itinerario che va verso la natura del carattere, la vera chiamata e missione personale.

 

La preghiera dev’essere insistente, perché è come una visuale posata su di sé; non come avevamo pensato: autenticamente. 

L’occhio interiore serve a fare una sorta di spazio sgombro e individuale dentro, che apre alla nostra e altrui Presenza, tutta da guardare (nel modo che conta).

Sarà il più sapiente, forte e affidabile compagno di viaggio… che porta la nostra identità-carattere e non tira altrove l’io essenziale della persona.

Lo svuotamento consapevole dalle cianfrusaglie accatastate (da noi stessi o altri) dev’essere colmato nel tempo mediante una intensità di Relazione.

Ecco il dialogo-Ascolto interpersonale con la Fonte dell’essere.

In essa è annidato il nostro Seme particolare: lì è come seduta e in fieri la differenza di volto che ci appartiene.

Sarà la profondità radicale del rapporto con la nostra Radice - forse smarrita in troppe aspettative regolarissime, anche elevate o funzionanti - che conferisce un’altra Via, più convincente.

E farà scoprire la tendenza e destinazione unica che ci appartiene, per la Felicità che non pensavamo.

 

Obbiettivi, propositi, discipline, memorie del passato, sogni di futuro, ricerche dei punti di riferimento, valutazioni abitudinarie di possibilità, cumuli di merito... talora sono zavorre.

Essi distraggono dalla terra dell’anima, dove il nostro grano vorrebbe attecchire per divenire ciò che è in cuore.

E dal Nocciolo far comprendere la proposta di Missione ricevuta - non conquistata, né posseduta - affinché conceda un’altra caratura prodigiosa (non: visibilità).

Spesso il sistema mentale e affettivo si riconosce in un album di pensieri, definizioni, gesti, forme, problemi, titoli, mansioni, personaggi, ruoli e cose già morte.

Tale morfologia d’interdizione smarrisce il presente autentico, dove viceversa attecchisce il Sogno divino che completa - realizzandoci nella specificità.

Allora, ecco la terapia dell’assoluto presentimento nell’Ascolto - della non pianificazione; a partire da ciascuno.

Ciò nella lacuna consapevole di quella parte di noi che cerca sicurezze, approvazioni, e asseconda banalità.

 

Attraverso il dialogo incessante col Padre nell’orazione, facciamo spazio alle radici dell’Essere, che (nel frattempo) ci sta già colmando di visuali e occasioni per una sorte differente.

Riattivando la carica esplorativa soffocata negli ingranaggi, creiamo la giusta intercapedine e ripartiamo nell’Esodo.

Accontentarsi, fermarsi, installarsi in un punto, tramuterebbe le conquiste anche qualitative in una terra di nuove schiavitù.

Obbligherebbe a recitare e ripercorrere tappe ormai acquisite - che viceversa siamo per vocazione richiamati a valicare.

Esodo… all’interno di una Relazione sorgiva, cosmica e identificativa, singolarmente fondante.

 

Grazie all’Ascolto protratto nella preghiera, noi figli acquisiamo il sapere dell’anima e del Mistero.

Dimoriamo a lungo nella Casa della nostra essenza molto speciale.

Così la piantiamo - o radichiamo ancor più a fondo - per capirla e recuperarla completamente, nitida e colma.

Ormai affrancata dal destino tracciato in ambiente di ristrettezze, già segnato ma privo di sogni.

 

Quando saremo pronti, l’Unicità scenderà in campo con una nuova soluzione, anche stravagante.

Essa partorirà ciò che siamo davvero, al meglio - dentro quel caos che risolve i veri problemi. E di onda in onda balzerà a Traguardo.

Via le definizioni e aspirazioni da nomenclatura, in una sorta di venir meno di noi stessi - in uno stato “scarico” ma colmo di energie potenziali - daremo spazio al nuovo Germe che la sa più lunga di tutti.

Già qui e ora la nostra Pianta caratteristica e inconfondibile vuole sfiorare la condizione divina.

La preghiera continua [ascolto e percezione, non saltuari] scava e smaltisce in questo spazio il volume dei banali pensieri ridondanti.

In tale interstizio e “vuoto” si spalancano opportunità. Si crea la pulizia interiore affinché giunga il Dono - non di seconda mano.

 

Vogliamo una decisiva conversione? Desideriamo il richiamo alla totalità dell’esistenza umanizzante, senza limitazioni e nella nostra unicità?

[Allora l’azione divina può raggiungere chiunque? Attecchisce in qualsiasi volto? E come si fa a non spezzarla?].

Perché non ora il nuovo inizio? La preghiera e il “nuovo pieno” dello Spirito diventano per noi - figli in fase di crescita - il latte dell’anima.

[Cf. Gv 16,23-28: Preghiera nel Nome: sabato 6.a Pasqua] [Cf. Mt 11,25-27: L’unica preghiera di Gesù poco insegnata: Mercoledì 15.a T.O]

 

 

La seconda caduta

Pro e contro

Lc 11,14-23 (14-26)

 

Il pregiudizio intacca l’unione, e nessuno può mettere Gesù sotto sequestro, tenendolo in ostaggio. Egli è il forte che nessuna cittadella arroccata può arginare.

Chi teme di perdere il comando e smarrire il proprio prestigio artefatto ha già perduto. Non c’è armatura o bottino che tenga.

Non c’è costume né compromesso o gendarmeria in cui confidare, che possa resistere all’assedio della Libertà in Cristo.

Le Scritture formano una unità inscindibile. Tuttavia, solo in Lui la Tradizione non blocca i carismi, non ci sminuisce, non causa ansietà, né porta allo scrupolo - bensì acquista il suo risvolto vitale.

L’amicizia col Risorto è infatti straordinariamente originale, e ha rispetto delle unicità. Sta in una continuità e insieme nella rottura con la mente antica. Monoteismo vitale d’uno Spirito nuovo, che accoglie i Doni.

Chi non s’impegna a dilatare l’opera creativa del Padre, chi non ce la mette tutta a capire e vivificare situazioni o persone - persino nel rispetto delle eccentricità che prima non avevano campo e sembravano incomunicabili - aleggia sulle illusioni, disperde se stesso e intacca tutto l’ambiente.

 

Dice il Tao Tê Ching (LXV): «In antico chi ben praticava il Tao, con esso non rendeva perspicace il popolo, ma con esso si sforzava di renderlo ottuso: il popolo con difficoltà si governa, perché la sua sapienza è troppa».

La gente normale accetta il caos, non elude la vita. I missionari sono allenati a trovare in ogni fatica, in qualsiasi errore o imperfezione, un nuovo assetto, ordinato e segreto. Nulla di esteriore.

In ogni incertezza sussiste una certezza, in ogni insicurezza una sicurezza maggiore, in qualsiasi lato in ombra una perla inattesa, in ciascun disordine un cosmo: è il segreto della vita, della felicità, dell’esperienza di Fede.

Le autorità erano attaccate al finto prestigio conquistato e preoccupatissime del fatto che Gesù fosse fedele al proprio compito unico, e potesse riuscire a sottrarre loro il popolo adescato - ma ora liberato - dalla religione delle paure.

Egli (la sua comunità) rimaneva più convincente perché avverava il Regno, iniziava a mostrarlo; non in fantasie di cataclismi che mettessero le anime a guinzaglio, ma vivo ed efficiente, passo dopo passo, persona persona.

Esso veniva incontro al desiderio di completezza umana che abitava ogni cuore, così non faceva leva su ossessioni e parossismi o sulla Legge, bensì sul bene reale, la guarigione, la vita (sempre diversa).

La cura delle infermità individuali e di relazione non era più un fatto secondario: così ad es. la liberazione d’un singolo infelice iniziava a sembrare che avesse valore assoluto, definitivo.

La scena della terra non poteva più essere dominata da catechismi adattati e da una consuetudine pia che negasse tutto meno i timori.

Insomma, Cristo stesso è l’uomo forte che vede lontano, segno della venuta efficace di Dio tra gli uomini.

Con lui declina il regno delle illusioni e posizioni fisse; subentra il mondo contrario al disfacimento dell’esistenza concreta, nel rispetto dell’unicità e convivialità delle differenze.

L’attività della sua Chiesa opera esorcismi: emancipa da forze-condizionamenti-strutture disumanizzanti. Si muove non su un piano legalista, ma di credo-amore operante che garantisce a ciascuno quel cammino di spontaneità e pienezza desiderate nell’intimo.

 

Anche oggi la comunità fraterna deve farsi consapevole d’essere strumento di redenzione e presenza energica di Dio fra le donne e gli uomini normali, di ogni estrazione culturale, per condurli, accompagnarli verso un presente-futuro che doni respiro non solo al gruppo, ma anche all’inclinazione individuale.

Le assemblee dei figli sono abilitate per grazia e vocazione a sciogliere nodi e superare steccati di mentalità - suscitando così un ambiente comprensivo, che accetta i viandanti: questo il principio e orizzonte non negoziabile della Fede.

Col superamento di antiche convinzioni fisse che mettono fra parentesi la realtà delle persone e ne accentuano i blocchi, la comunità dei figli nel Risorto è chiamata a diventare potenza di Dio.

Essa è sollecitata a farsi segno palese della presenza intraprendente dello Spirito Santo personale e solerte [«il dito di Dio»: v.20] che surclassa la spiritualità rassicurante e vuota, nonché la distrazione superficiale, indolente, della devozione secondo usanza imposta dalle convenzioni e dalle catene di comando.

 

Ma come mai Gesù sottolinea che la seconda caduta è più rovinosa della prima (vv.24-26)?

Se la mente del fedele viene svuotata del grande passo di Cristo vivo - che prima ha praticato e riconosciuto dentro sé e nella missione - essa non è più concentrata su qualcosa di utile, vitale e splendido: fiaccata, si perde.

Mentre Lc redige il Vangelo, a metà anni 80 si registravano non poche defezioni, a motivo delle persecuzioni.

I credenti avvilivano, costernati dal disprezzo sociale - così molti vedevano impallidire l’ebbrezza entusiastica dei primi tempi.

L’Amore non si poteva mettere in banca, ma diversi fratelli di comunità già provenienti dal paganesimo, dopo una prima esperienza di conversione preferivano tornare alla vita precedente, all’imitazione dei modelli, ai soliti pensieri facili, alle attrattive e al consenso delle folle.

Ripiegando e rassegnandosi alle forze in campo, alcuni abbandonavano la posizione di autonomia interiore conquistata grazie all’azione liberatrice dagli idoli, favorita dalla vita sapiente e orante nella comunità fraterna.

Poi tentavano anche la ricerca individuale d’un risarcimento e rivalsa per gli anni difficili trascorsi nell’essere stati fedeli alla propria vocazione, in quello stimolo di crescere insieme grazie allo scambio dei doni e delle risorse.

Lc avverte: è normale che ci siano tante notti quanti i giorni.

Si capisce lo stress del peregrinare per accostarsi all’infinito dell’anima, alla realtà competitiva e ai prossimi (persino di comunità) - ma attenzione... una seconda caduta sarebbe peggiore della prima.

La persona un tempo restituita a se stessa e che molla tutto demoralizzata, poi si lascerebbe andare alla disillusione generale, a una più globale mancanza di giudizio, consapevolezza e fiducia.

Tutto ciò capita ancora oggi per impellenze particolari, scoramento o precipitazioni, dopo aver visto ideali infranti da circostanze imperfette. O per la fatica di affrontare scoperte ed evoluzioni (che rimettono sempre tutto in discussione) nel lungo tempo necessario per una coerenza paziente ai propri codici profondi.

Così chi si lascia tramortire, facilmente tornerebbe a ricercare il via libera altrui e quell’allinearsi che nasconde i conflitti e fa tremare meno - perché il convincimento antico diventato modus vivendi non sposta i modi di fare né il quadro normale di riferimento.

 

Le difficoltà facevano cadere le braccia ad alcuni e ciò pareva mettere una pietra tombale sulla speranza di poter effettivamente edificare una società alternativa senza farsi troppo del male.

Ma il Vangelo ribadisce che non è previsto un atteggiamento neutrale (v.23) a distanza di sicurezza. Non ci sono mezze misure: solo scelte chiare, e niente esigenze represse.

Integrate sì: in cuore abitano sempre lati contraddittori, non c’è da sbigottire per questo. Gli stati opposti dell’essere sono una ricchezza che ci completa.

Anzi, si diventa nevrotici proprio quando le manie riduzioniste o le esigenze monotematiche (di club) prevaricano e soffocano la Chiamata poliedrica - che sebbene cesellata per Nome non si fa mai unilaterale.

Per vivere in modo pieno, libero e felice è bene essere noi stessi, consapevoli di ciò che siamo: figli perfetti (per il nostro compito nel mondo).

Quindi possiamo trascurare il malessere delle ingiurie di chi ci sgrida e livella, lasciarle scorrere via - e fare a meno di rincorrere lodi.

L’uomo di Fede ha sperimentato e conosce l’essenziale: è la vita che vince la morte, non il viceversa; quindi trascura le ossessioni (anche ammantate di sacro) e non si lascia sfiancare lo spirito.

Gode di una coscienza critica che sa collocare sullo sfondo i risultati immediati, così rigenera; incessantemente riattiva e non debella le forze.

Il battezzato in Cristo vive attitudini piene all’autenticità e totalità d’essere, indipendentemente da circostanze favorevoli o meno. Rimane distante da timori puerili, gode d’un cuore libero; è fermo nell’azione. 

Mette in preventivo di poter essere viandante, posto sotto assedio dal sistema isterico, che non sopporta cambiamenti veri (v.22).

In ciò riposa, sempre chiamando in causa le proprie radici naturali e caratteriali - dove sono custodite le energie primordiali dell’anima e i sogni innati (non derivati) che curano e guidano.

Del resto, il suo viaggio è contromano e sarà sicuramente punteggiato di dure lezioni.

Ma il cliché è tutta solfa indotta; tenta d’invaderci con recriminazioni senza peso specifico: tentativi di blocco privi di futuro.

 

Non c’è da sorprendere che gli accoliti del mondo conformista si difendano in tutti i modi.

E attacchi con quel vociare standard - socialmente “apprezzabile” - che tenta di accentuare i conflitti intimi e personali. Coi grandi mezzi a disposizione, facendo leva sui sensi di colpa.

Cammineremo ugualmente spediti sulla Via del Signore, pur sollecitati da dubbi e indecisioni; senza retrocedere, persino quando ci sentiremo persi - ma col sapore del guadagno finanche nella perdita.

I momenti difficilissimi saranno ulteriori chiamate alla trasformazione.

E in ogni circostanza proveremo il gusto della vittoria della vita piena sul potere del male e sul tenore culturale imitativo, altrui, banale.

Qui - nella fedeltà al proprio mondo interiore che vuole esprimersi, e nel cambio di stile o immaginazione negli approcci - risolveremo i veri problemi e tutte le questioni, in modo ricco, personale.

Rinati in Cristo che tutela e promuove a partire dall’eccezionale originalità, non possiamo “morire” perdendo l’essenza e l’Incontro irripetibile.

Tornando a identificarci nei ruoli, quali fotocopie - senza il Viaggio dell’anima.

 

Liberi verso la terra promessa che ci appartiene, non cerchiamo perfezioni di circostanza, bensì pienezza.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Chi e cosa mi attiva o mi perde?

È Gesù il mio Signore o sono io (lo status, il mio gruppo, le maniere “perbene”, gli influssi anche religiosi...) il Suo padrone?

Come affronto le situazioni, apro brecce e non mi disperdo, in armonia con la Voce antica e nuova dell’anima, e nello Spirito?

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don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".