Collocarsi negli eventi di persecuzione
(Lc 21,12-19)
Il corso della storia è tempo in cui Dio compone il confluire della nostra libertà e delle circostanze.
In tali pieghe c’è spesso un vettore di vita, un aspetto essenziale, una sorte definitiva, che ci sfugge.
Ma all’occhio non mediocre della persona di Fede, anche i soprusi e perfino il martirio sono un dono.
Per imparare le lezioni importanti della vita, ogni giorno il credente si avventura in ciò che ha paura di fare, superando i timori.
L’amore sponsale e gratuito ricevuto colloca in una condizione di reciprocità, d’attivo desiderio di unire la vita al Cristo - sebbene nell’esiguità delle nostre risposte.
Continuando invece a lamentarsi degli insuccessi, pericoli, calamità, tutti vedranno in noi donne come le altre e uomini comuni - e ogni cosa terminerà a questo livello.
Non saremo sull’altro lato.
Al massimo tenteremo di sottrarci alle asprezze, o si finirà per cercare alleati di circostanza (vv.14-15).
Lc intende aiutare le sue comunità a urtare la logica mondana e collocarsi negli eventi di persecuzione in maniera fervente.
Le angherie sociali non sono fatalità, bensì occasioni per la missione; luoghi di alta testimonianza eucaristica (v.13).
I perseguitati non hanno bisogno di stampelle esterne, né devono vivere nell’angoscia del crollo.
Essi hanno il compito di essere segni del Regno di Dio, che man mano porta i lontani e gli stessi usurpatori a una diversa consapevolezza.
Nessuno è arbitro della realtà e tutti sono fuscelli soggetti a rovesci, ma nella condizione umanizzante degli apostoli traluce un’indipendenza emotiva.
Ciò avviene per il senso intimo, vivo, di una Presenza, e la lettura delle vicende esterne come azione eccezionale del Padre che si rivela.
In tale magma energetico plasmabile, ecco affiorare percorsi unici, inedite opportunità di crescita... anche nelle avversità.
Atteggiamento senz’alibi né certezze granitiche: con la sola convinzione che tutto verrà rimesso in gioco [non per sforzo: per aver spostato lo sguardo, semplicemente].
Tempo sacro e profano vengono a coincidere in un Patto fervente, che si annida e cova frutti persino nei momenti del travaglio e paradosso.
Qui unica risorsa necessaria è la forza spirituale di andare sino in fondo… nei controsensi d’altro versante.
Così anche la famiglia o il “clan” di appartenenza vanno condotti a un differente mondo di convinzioni; non senza contrasti laceranti (v.16).
La Torah stessa obbligava alla denuncia degli infedeli alla religione dei padri - perfino parenti strettissimi - sino a metterli a morte (Dt 13,7-12) [nei fatti, solo per designare la gravità di quel tipo di trasgressione].
L’Annuncio non poteva che causare divisioni estreme, e su temi di fondo come il successo, o il progresso in questa vita - la visione di un mondo nuovo, dell’utopia di altre e altrui esigenze.
Tutto sembrerà congiurare e farsi beffe del nostro ideale (v.17).
Il riferimento al Nome allude alla vicenda storica di Gesù di Nazaret, col suo carico non solo di bontà ideale ed esplicita, ma pure di attività di denuncia contro l’istituzione ufficiale e le false guide che avevano messo sotto sequestro il Dio dell’Esodo.
Malgrado le interferenze, l’essere fraintesi, calunniati, messi in ridicolo, ricattati e odiati... ancorati a Cristo sperimenteremo che le tappe della storia e della vita procedono verso la Speranza.
La “protezione” di Dio non preserva da tinte cupe, né dal subire danni, ma garantisce che nulla vada perduto, neppure un capello (v.18).
Anche questo esempio spontaneo che Gesù trae dalla natura - eco della vita conciliante sognata per noi dal Padre - introduce alla Felicità che fa consapevoli di esistere in tutta la personale realtà.
L’espressione mostra infatti il valore delle cose genuine, silenti, poco eclatanti, le quali però ci abitano - non sono “ombre”. E le percepiamo senza sforzo né impegno cerebrale.
Nel tempo delle scelte epocali, dell’emergenza che sembra mettere tutto in scacco - ma vuole farci meno artificiali - tale consapevolezza può rovesciare il nostro giudizio di sostanza, sul piccolo e il grande.
Infatti, per l’avventura d’amore non c’è contabilità né clamore.
È nel Signore e nella realtà insidiosa o sommaria il “posto” per ciascuno di noi. Non senza lacerazioni.
Eppure traiamo energia spirituale dalla conoscenza del Cristo, dal senso di legame profondo con Lui e la realtà anche minuta e variegata, o temibile - sempre personale (v.18).
E (appunto) l’aldilà non è impreciso.
Non bisogna snaturarsi per avere consenso… tantomeno per il “Cielo” che vince la morte.
Il destino dell’unicità non va in rovina: è prezioso e caro, come lo è in natura.
Bisogna scorgerne la Bellezza, futura e già attuale.
Neppure conterà collocarsi sopra e davanti: piuttosto sullo sfondo, già ricchi e perfetti, nel senso intimo della pienezza di essere.
Così non dovremo calpestarci a vicenda (Lc 12,1)... anche per incontrare Gesù.
«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra - e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima anche perché non è universale».
(Rabindranath Tagore)
Gesù ci mette in guardia: non potremo contare su amicizie inattaccabili, né su potenze umane schierate a difesa della trama terrestre.
Anche colui che credevamo vicino ci scruterà con sospetto: il prezzo della verità sta sempre nella scelta contraria al mondo della menzogna [anche sacrale, datata o effimera] tutto coalizzato contro.
La nostra vicenda non sarà come un romanzo facile e a lieto fine.
Ma avremo possibilità di testimoniare nel presente le più genuine radici antiche: che in ogni istante Dio chiama, si manifesta - e ciò che sembra fallimento diviene Cibo e sorgente di Vita.
Ostinati solo nel cambio di proporzioni, tra spogliamento ed elevazione. Nella contrapposizione dei criteri e dei fondamenti stessi del pensare.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Che tipo di lettura fai, e come ti collochi negli eventi di persecuzione?
Sei consapevole che gli intoppi non vengono per la disperazione, bensì per liberarti dalla chiusura in schemi culturali stagnanti (e non tuoi)?
Sull’altro versante del mondo
I cristiani devono dunque farsi trovare sempre sull’“altro versante” del mondo, quello scelto da Dio: non persecutori, ma perseguitati; non arroganti, ma miti; non venditori di fumo, ma sottomessi alla verità; non impostori, ma onesti.
Questa fedeltà allo stile di Gesù – che è uno stile di speranza – fino alla morte, verrà chiamata dai primi cristiani con un nome bellissimo: “martirio”, che significa “testimonianza”. C’erano tante altre possibilità, offerte dal vocabolario: lo si poteva chiamare eroismo, abnegazione, sacrificio di sé. E invece i cristiani della prima ora lo hanno chiamato con un nome che profuma di discepolato. I martiri non vivono per sé, non combattono per affermare le proprie idee, e accettano di dover morire solo per fedeltà al vangelo. Il martirio non è nemmeno l’ideale supremo della vita cristiana, perché al di sopra di esso vi è la carità, cioè l’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo dice benissimo l’apostolo Paolo nell’inno alla carità, intesa come l’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo dice benissimo l’Apostolo Paolo nell’inno alla carità: «Se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1Cor 13,3). Ripugna ai cristiani l’idea che gli attentatori suicidi possano essere chiamati “martiri”: non c’è nulla nella loro fine che possa essere avvicinato all’atteggiamento dei figli di Dio.
A volte, leggendo le storie di tanti martiri di ieri e di oggi - che sono più numerosi dei martiri dei primi tempi -, rimaniamo stupiti di fronte alla fortezza con cui hanno affrontato la prova. Questa fortezza è segno della grande speranza che li animava: la speranza certa che niente e nessuno li poteva separare dall’amore di Dio donatoci in Gesù Cristo (cfr Rm 8,38-39).
Che Dio ci doni sempre la forza di essere suoi testimoni. Ci doni di vivere la speranza cristiana soprattutto nel martirio nascosto di fare bene e con amore i nostri doveri di ogni giorno. Grazie.
(Papa Francesco, Udienza Generale 28 giugno 2017)