(Gv 8,31-42)
Secondo l’opinione di molti giudei, l'Eredità ricevuta era assai più preziosa e rassicurante di qualsiasi altro insegnamento pur dignitoso, che chiunque potesse impartire.
Ma i fedeli in Cristo si rendono conto che nell’orizzonte di una vita da salvati la discendenza non è premessa di superiorità, né garantisce posti di rilievo nell’ordine delle cose di Dio.
Qual è dunque la relazione fra Gesù e Abramo, padre della fede? In che rapporto sta il discepolo con la storia del popolo eletto, quindi con la religione dei patriarchi?
I primi cristiani sperimentavano che dalla fedeltà alla Parola del Signore nasceva una Libertà insolita e preziosa; un aprirsi a Dio che nessun credo conosceva.
La relazione di Fede introduce in un ‘di più’ qualificato e reale della vita - conforme anche a inesperti e principianti - estraneo a qualsiasi cerchia di scelti e provetti.
Allora, cosa significa essere figli di Abramo? C’è chi immagina di avere il “documento” a posto, ma non capisce che una identità fissa è trappola della vitalità.
Gli intimi di Cristo introducono nella storia della salvezza un criterio di prostituzione teologica capovolto [cf. v.41: «fornicazione»], fondato sulla ricchezza divina. Un altro genere di Alleanza.
Il seguace di Gesù comprende che la realtà ha molti volti, ed egli stesso ne ha: è chiamato a integrarli, per una completezza sciolta.
Pur stando entrambi ‘in casa’, il «figlio» è un consanguineo - non rimane servo al pari dello schiavo (della discendenza).
Il Dio del popolo eletto dice ad Abramo: «Va’!». È un ordine.
Il Figlio ci propone: «Vieni!». È una virtù di Famiglia che garantisce il superamento delle difficoltà e la crescita armoniosa.
Non basta essere ferrati nei modi di fare. Bisogna aprirsi a una nuova esperienza.
È l’adesione di vita che convince a permanere nella dimora del Padre - non l’infiammarsi in circostanze particolari.
Tale consuetudine attenua gli spaventi e ci fa divenire Uno con la Verità-Fedeltà di Dio: partiamo da tale Nucleo fondante.
Essere nel Figlio scioglie dalle opinioni esterne, da una coltre di maniere (vv.33.37ss) non rielaborate, né assimilate e fatte proprie; tipiche di sottoposti, cui manca un’esperienza profonda.
Lo schiavo del cliché vive sotto condanna, perché troppo chiuso nei perimetri - accasato, ma fuori Casa: quindi in una realtà che ristagna, o avanza accentuando e sottolineando limiti.
Il figlio invece conquista spazi d’inedito, si emancipa dall’egoismo che annienta la comunione, dall’amor proprio che rifiuta l’ascolto, dall’omologazione che cancella l’unicità, dal conformismo che fa impallidire l’eccezionalità, dall’invidia che separa e blocca lo scambio dei doni, dalla competizione anche spirituale che ci droga, dall’accidia che sconforta e paralizza.
Il Dio delle religioni antiche è un mandante, figura cardine di sottomissione e domesticazione che snerva.
Il Padre è principio della Libertà che procede controcorrente, senza timore di mescolanze ed eterogeneità (vv.41.43).
Egli consente ai figli - persino ibridi - di riscoprire le radici della linfa sacra che li animano, e incontrare i caratteri irripetibili che si celano nel loro grande Desiderio.
[Mercoledì 5.a sett. Quaresima, 9 aprile 2025]