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Set 22, 2025 Scritto da 
Angolo della Pia donna

26a Domenica T.O. (anno C)

XXVI Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [28 Settembre 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Prosegue l’insegnamento sulla ricchezza e il rapporto con i poveri, campo quanto mai utile per la nostra riflessione di fronte alle grandi e piccole ingiustizie che la cronaca quotidianamente ci mostra.

 

Prima Lettura dal libro del profeta Amos (6, 1a. 4-7)

Nella Bibbia, Amos è il primo profeta “scrittore”, cioè il primo di cui ci è rimasto un libro. Altri grandi profeti anteriori sono rimasti molto celebri: Elia, ad esempio, o Eliseo, o Natan… ma non possediamo le loro predicazioni scritte, bensì soltanto ricordi tramandati dal loro ambiente. Amos ha predicato verso il 780-750 a.C. e di certo ha dovuto dire cose che non sono piaciute a tutti, visto che alla fine fu espulso per denuncia al re.  Originario del Sud, ha predicato nel Nord in un periodo di grande prosperità economica. La settimana scorsa avevamo già letto un suo testo, in cui rimproverava alcuni ricchi di costruire la loro ricchezza a spese dei poveri il passo di oggi lascia immaginare il lusso che regnava a Samaria: “Distesi su letti d’avorio… mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla…canterellano al suono dell’arpa come Davide e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano”. I governanti non sanno o non vogliono sapere che una terribile minaccia pesa su di loro: “della rovina di Giuseppe non si preoccupano”. Saranno poi deportati, anzi saranno i primi dei deportati e la banda dei gaudenti non esisterà più. Non si è ascoltato questo profeta di sventura che cercava di avvertire il potere e la classe dirigente, anzi lo si è fatto tacere liberandosi di lui. Ma ciò che temeva, si è avverato. Amos dunque si rivolge qui ai ricchi e ai potenti, ai responsabili. Che cosa rimprovera loro precisamente? È la prima frase a darci la chiave: “Guai a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria”. In altre parole: siete comodi, soddisfatti del vostro benessere e persino del vostro lusso… ebbene, io vi compiango perché non avete capito nulla: siete come gente che si infila sotto le coperte per non vedere arrivare il ciclone e  crollerà tutta questa società, pochi anni più tardi schiacciata dagli Assiri, con molti morti mentre i superstiti saranno deportati. Guai a quelli che si credono sicuri sulla montagna di Samaria”… Ma che fanno di male? Il male è fondare la propria sicurezza su ciò che passa: qualche successo militare effimero, la prosperità economica e le apparenze della pietà… per non dispiacere a Dio e al suo profeta. Si vantano persino dei loro successi, credono di averne qualche merito, mentre tutto viene da Dio. Ora, l’unica sicurezza d’Israele è la fedeltà all’Alleanza. Questa è la grande insistenza di tutti i profeti come farà Michea predicando qualche anno più tardi a Gerusalemme. A Samaria regnava l’ipocrisia: quando offrono sacrifici, trasformano il banchetto che segue in gozzoviglia… perché i pasti che Amos descrive sono probabilmente pasti sacri, come quelli che seguivano certi sacrifici. Pasti sacrileghi dunque che nulla hanno a che fare con l’Alleanza. La difficoltà di questo passo sta nella sua concisione: infatti, per comprenderlo, bisogna avere in mente l’insieme della predicazione profetica; la logica di Amos, come quella di tutti i profeti, è la seguente: la felicità degli uomini e dei popoli passa inevitabilmente attraverso la fedeltà all’Alleanza con Dio; e fedeltà all’Alleanza significa giustizia sociale e fiducia in Dio e se ci si distacca da questi due punti ci si perde. Di questo Amos sta parlando e basta rileggere il testo della scorsa domenica, in cui rimproverava ai ricchi di arricchirsi sulle spalle dei poveri. Nel testo di oggi, i banchetti di lusso descritti non giovano ovviamente a tutti e non si sente più il bisogno di Dio. Dirà anche Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13). Samaria si copriva di palazzi lussuosi, costruiti da alcuni a spese degli altri; una volta arricchitisi, grazie al commercio fiorente si faceva presto a espropriare un piccolo proprietario riducendo alcuni più poveri in schiavitù come nel testo di domenica scorsa. L’archeologia porta inoltre su questo punto precisazioni interessanti: mentre nel decimo secolo le case erano tutte sullo stesso modello e rappresentavano livelli di vita del tutto identici, nell’ottavo secolo, al contrario, si distinguono chiaramente quartieri ricchi e quartieri poveri.

 

*Salmo responsoriale (145/146, 6c.7, 8.9a, 9bc-10)

Questa splendida litania è solo una parte del Salmo 145/146 e la liturgia oggi non propone gli Alleluia che lo incorniciano nel testo ebraico essendo un Salmo alleluiatico. Questo significa che ci troviamo, come domenica scorsa, davanti a un salmo di lode. A parlare in questo salmo sono gli oppressi, gli affamati, i ciechi, i piegati, gli stranieri, le vedove, gli orfani che riconoscono la sollecitudine di Dio per loro. In realtà, è il popolo d’Israele che parla di se stesso: è la propria storia che racconta e ringrazia per la protezione di Dio avendo conosciuto tutte queste situazioni: l’oppressione in Egitto, dalla quale Dio lo ha liberato con mano potente e braccio teso e l’oppressione a Babilonia dove ancora una volta Dio è intervenuto. Ha conosciuto la fame nel deserto e Dio ha mandato la manna e le quaglie. A questi ciechi Dio apre gli occhi rivelandosi progressivamente attraverso i suoi profeti. Sono questi piegati che Dio rialza instancabilmente e fa stare in piedi; sono il popolo in cerca di giustizia che Dio guida. È dunque un canto di riconoscenza: Il Signore rende giustizia agli oppressi,  agli affamati dà il pane, libera i prigionieri, apre gli occhi ai ciechi, rialza chi è caduto, ama i giusti, protegge lo straniero e sostiene la vedova e l’orfano. Il Signore, che ritorna in maniera litanica è la traduzione del Nome di Dio in 4 lettere, Il Tetragramma: YHVH, che dice la sua presenza operante e liberatrice. Il versetto che precede quelli di oggi li riassume tutti: “Felice chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe, chi ripone la sua speranza nel Signore (YHVH) suo Dio”: il segreto della felicità è appoggiarsi a Dio e attendere tutto da Lui. Questo salmo è scelto per questa domenica come risposta al testo di Amos che avvertiva la gente di Samaria a ben sapere su chi porre la fiducia, fuggendo le false sicurezze perché solo Dio è degno di fiducia. Riconoscere la nostra dipendenza da Dio e viverla con piena fiducia, perché Egli è totale benevolenza: ecco la definizione della fede e il segreto della felicità, come predicano i profeti.  Non bisogna dimenticare l’esperienza unica di cui i figli d’Israele hanno avuto il privilegio: lungo tutto il loro cammino verso la libertà, hanno sperimentato accanto a sé la presenza di Colui che hanno riconosciuto come il Signore che li ha condotti alla ricerca della libertà e della giustizia per tutti, anzi a più grande giustizia, rispetto e difesa dei piccoli e dei deboli. Se si guarda più da vicino, si constata che la legge d’Israele non ha altro obiettivo: fare di Israele un popolo libero, rispettoso della libertà altrui. Su questo lungo cammino di liberazione Dio conduce il suo popolo. E’ bene per noi rileggere questo salmo non solo per riconoscere ciò che Dio compie a favore del suo popolo, ma anche per darci una linea di condotta: se Dio ha agito così verso Israele, a nostra volta, noi che siamo eredi di questo lungo cammino di Alleanza, siamo tenuti a fare altrettanto per gli altri.

 

*Seconda Lettura dalla prima lettera di san paolo Apostolo a Timoteo (6,11-16)

Non si potrebbe immaginare una sintesi più completa di tutto ciò che costituisce la fede e la vita del cristiano. Allo stesso tempo, sorprende le formule solenni di Paolo: “Davanti a Dio e… a Cristo Gesù, ti ordino”.  A una prima lettura, sembra di percepire gli echi di difficoltà nella comunità di Efeso, dove Timoteo aveva delle responsabilità: “Combatti la buona battaglia della fede”. Poco più sopra, nella stessa lettera, Paolo aveva già parlato del combattimento per la fede nel primo capitolo (1 Tm 1,18-19). C’è dunque un combattimento da affrontare per affermare la propria fede. Il momento è grave, il che spiega il tono solenne: è in gioco la fedeltà della giovane comunità cristiana al proprio Battesimo. Il passo che leggiamo oggi è incorniciato da due testi molto simili che precisano ancora meglio i due pericoli da evitare: le false dottrine e la ricerca delle ricchezze. Bisogna credere che ci fossero problemi reali sulle false dottrine: Timoteo, custodisci il deposito, evita chiacchiere empie e obiezioni di una pseudo-scienza. Per averla professata (sottinteso questa pseudo-scienza), alcuni si sono allontanati dalla fede (cf.1 Tm 6,20-21). E nello stesso senso, pochi versetti più su: Se qualcuno insegna un’altra dottrina, se non si attiene alle parole del Signore Gesù Cristo e alla dottrina conforme alla pietà, è accecato dall’orgoglio. È ignorante, malato, in cerca di controversie e di dispute verbali (1 Tm 6,3-4). Questo problema era già apparso all’inizio della lettera e Paolo aveva raccomandato a Timoteo di rimanere a Efeso (cf.1 Tm 1,3-4) e poi insiste con la stessa forza sul rischio della ricerca delle ricchezze perché la radice di tutti i mali è l’amore del denaro (cf.1 Tm 6,10). Ecco dunque i due peggiori pericoli per la fede agli occhi di Paolo che invita Timoteo a restare aggrappato al suo battesimo. All’epoca di Paolo, i battesimi erano amministrati davanti all’intera comunità e nel rito stesso battesimale la professione di fede era un momento molto importante perché il “sì” del nostro battesimo è radicato nel “sì” di Cristo al Padre e questo “sì”, bisognerà essere capaci di ripeterlo giorno per giorno. Timoteo avrà bisogno di tutte le sue forze ed è per questo che Paolo moltiplica le raccomandazioni perché perseveri nel combattere per la fede per ottenere la vita eterna. Le armi del combattimento sono la fede, l’amore, la perseveranza e la dolcezza che è l’arma principale. Il vero combattimento non ha nulla a che fare con guerre di religione e la storia mostra che le guerre di religione non hanno mai convertito nessuno. L’obiettivo su cui dobbiamo sempre tenere gli occhi fissi è la vita eterna che è anche la manifestazione («epifania») di Cristo. Paolo conclude con una sorta di professione di fede, che è precisamente ciò che Timoteo deve continuare ad affermare contro ogni avversità: “Dio è il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile, nessuno fra gli uomini l’ha mai visto né può vederlo”. Dio è il Tutto-Altro, tema che ritroviamo nell’Antico Testamento: è la trascendenza di Dio, il Tutto Altro che si rende però vicino a noi e al tempo stabilito renderà manifesto il Signore Gesù Cristo.

 

Dal Vangelo secondo Luca (16, 19-31)

L’ultima frase è doppiamente terribile: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”.  Un’affermazione che sembra disperata, come se nulla possa cambiare un cuore di pietra, ed è ancora più terribile sulla bocca di Gesù. Quando infatti Luca scrive il vangelo sapeva bene che la Risurrezione di Cristo non aveva convertito tutti, anzi, aveva indurito ancor più il cuore di alcuni. Passiamo alla storia del ricco epulone e del povero Lazzaro: del ricco non sappiamo molto, nemmeno il nome; non è detto che sia malvagio, anzi, più tardi penserà a salvare i suoi fratelli dalla sventura nell’aldilà. Vive però nel suo mondo così immerso nel suo comfort, come i Samaritani di cui parla Amos nella prima lettura, da non vedere nemmeno il mendicante che muore di fame sulla sua porta e che si accontenterebbe dei suoi avanzi. Il nome del povero è Lazzaro, che significa Dio aiuta, e questo già dice molto: Dio lo aiuta, non perché sia virtuoso, ma semplicemente perché è povero. Questa forse è la prima sorpresa che Gesù riserva ai suoi ascoltatori: questa storia era un noto racconto proveniente dall’Egitto, parla di due personaggi un ricco pieno di peccati e un povero pieno di virtù: giunti nell’aldilà, pesati sulla bilancia, vengono valutate le azioni buone e cattive sia dei ricchi che dei poveri . I buoni, sia ricchi che poveri, erano premiati, mentre i cattivi, ricchi o poveri, puniti.  Anche i rabbini, prima di Gesù, raccontavano storie simili : il ricco era figlio di un pubblicano peccatore mentre il povero un uomo molto devoto; anche loro pesati sulla bilancia e  valutati accuratamente i meriti degli uni e degli altri, il devoto risultava più meritevole del figlio del pubblicano. Gesù sconvolge un po’ questa logica: non calcola i meriti e le buone azioni perché non si dice che Lazzaro sia virtuoso e il ricco cattivo ma constata semplicemente che il ricco è rimasto ricco tutta la vita, mentre il povero è rimasto povero, alla sua porta: ciò significa l’abisso di indifferenza che si è creato tra ricco e povero, semplicemente perché il ricco non ha mai aperto il portone. Altro dettaglio importante nel racconto di Gesù: non è del tutto vero che non sappiamo nulla del ricco, perché ci dice come era vestito: di porpora e lino, chiara allusione ai vestiti dei sacerdoti.Il colore porpora, originariamente colore dei vestiti reali, era diventato dei sommi sacerdoti perché servivano il re del mondo; il lino era il tessuto della tunica del sommo sacerdote. Gesù vuol dire che puoi essere anche il Sommo Sacerdote ma se disprezzi i tuoi fratelli, non meriti il titolo di figli di Abramo. Infatti, Abramo è citato sette volte ed  è certamente una chiave del testo. La domanda di Gesù è: “Chi è veramente figlio di Abramo?” e risponde che se non si ascolta la Legge e i Profeti, se si è indifferenti alla sofferenza dei fratelli, nonsi è figli di Abramo. E va oltre: il povero avrebbe voluto mangiare le briciole del ricco, ma erano piuttosto i cani a leccare le sue piaghe. I cani erano animali impuri… quindi anche se il ricco pio si fosse preso la briga di aprire il portone, sarebbe stato comunque scandalizzato e avrebbe fuggito quell’uomo impuro leccato dai cani… La lezione di Gesù è dunque: Vi preoccupate dei meriti, cercate di rimanere puri, siete orgogliosi di essere discendenti di Abramo… ma dimenticate l’essenziale.. Non servono segni straordinari per convertirsi: basta la Legge con i Profeti e per noi basta il Vangelo: ma occorre viverli!

+ Giovanni D’Ercole

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don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

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