Santissimo Corpo e sangue di Cristo [22 Giugno 2025]
Dio ci benedica e la Vergine di protegga! In un tempo in cui sembra che l’Eucaristia non sia sempre il centro della vita dei cristiani, questo giorno ci invita a riflettere e a rimettere nel cuore della nostra vita sacerdotale la quotidiana degna celebrazione dell’Eucaristia e l’adorazione che la prepara e ne continua la contemplazione lungo tutta la giornata.
*Prima Lettura dal Libro della Genesi (14,18-20)
Melchisedek è nominato solo due volte nell’Antico Testamento: qui nel libro della Genesi e nel salmo 109/110 che leggiamo anche questa domenica. Questo personaggio ricoprirà un ruolo importante per coloro che attendevano il Messia, e ancor più tra i cristiani così da essere citato anche in una preghiera eucaristica. Abramo incontra Melchisedek mentre torna da una spedizione vittoriosa. La Bibbia raramente racconta i festeggiamenti dopo una vittoria militare, invece qui si celebra e, molto tempo dopo, viene data a questa storia un grande interesse. Questi i fatti: scoppia una guerra tra due piccole coalizioni, cinque contro quattro e il re di Sodoma fa parte dei combattenti, ma né Melchisedek né Abramo sono direttamente coinvolti all’inizio. Il re di Sodoma viene sconfitto e tra i suoi sudditi viene fatto prigioniero Lot, nipote di Abramo, il quale, informato, corre a liberarlo insieme al re di Sodoma e i suoi sudditi. Il re di Sodoma diventa così alleato di Abramo. A questo punto interviene Melchisedek (il cui nome significa “re di giustizia”) forse per un pasto di alleanza, ma l’autore biblico non lo precisa, e anzi, a partire da questo momento, concentra il racconto sulla figura di Melchisedek e sul suo rapporto con Abramo. Di Melchisedek abbiamo informazioni molto inusuali nella Bibbia: non ha genealogia, è contemporaneamente re e sacerdote mentre per molti secoli in Israele questo non doveva accadere; è re di Salem, probabilmente la città che più tardi sarà Gerusalemme quando Davide la conquista per farne la sua capitale; l’offerta che porta è composta di pane e vino e non di animali, come sarà invece il sacrificio che offrirà Abramo, raccontato in Gn. 15. Melchisedek benedice il Dio Altissimo e Abramo che gli versa la decima (un decimo del bottino di guerra) e con tale gesto riconosce il suo sacerdozio. Sono tutte precisazioni che hanno un chiaro valore per l’autore sacro, che si concentra sulle relazioni tra il potere regale e il sacerdozio: per esempio, è la prima volta che compare la parola “sacerdote” nella Bibbia e Melchisedek ne ha tutte le caratteristiche: offre un sacrificio, pronuncia la benedizione in nome del “Dio Altissimo che crea cielo e terra” e riceve da Abramo la decima dei suoi beni. Silenzio assoluto circa le origini di Melchisedek: la Bibbia attribuisce grande importanza alla genealogia dei sacerdoti, ma di Melchisedek, il primo della lista, non sappiamo nulla e sembra fuori dal tempo. Il fatto però che sia riconosciuto come sacerdote significa che esisteva un sacerdozio prima dell’istituzione legale del sacerdozio nella legge ebraica legato alla tribù di Levi, figlio di Giacobbe e pronipote di Abramo. Esistevano cioè sacerdoti non discendenti da Levi e perciò “secondo l’ordine di Melchisedek”, alla maniera di Melchisedek. Nessun esegeta sa dire con certezza da chi, quando e con quale scopo questo testo sia stato scritto, che potrebbe risalire all’epoca in cui la dinastia di Davide sembrava ormai spenta e si cominciava a intravedere un Messia diverso: non più un re discendente di Davide, ma un sacerdote, capace di portare ai discendenti di Abramo la benedizione del Dio Altissimo. Melchisedek, “re di giustizia e re di pace” è considerato un antenato del Messia come vediamo meglio nel salmo 109/110. Abramo non era ancora circonciso quando fu benedetto da Melchisedek e nelle controversie delle prime comunità formate da ebrei circoncisi e pagani, i cristiani dedurranno che non è necessario essere circoncisi per essere benedetti da Dio. Infine nell’offerta di pane e vino, che suggella un pasto di alleanza, noi cristiani riconosciamo il gesto di Cristo in continuità col progetto di Dio. Ad ogni Eucaristia, ripetiamo il gesto di Melchisedek accompagnando l’offerta di pane e vino con le parole “Tu sei benedetto, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto il pane (il vino) che ti presentiamo…”
*Salmo responsoriale (109 /110,1-4)
Alcune di questi versi del salmo sono rivolti al nuovo re di Gerusalemme nel giorno della sua incoronazione, un rituale che esprimeva in filigrana l’attesa del Messia e si sperava che ogni nuovo re incoronato fosse il Messia. La cerimonia si svolgeva in due momenti, dapprima nel Tempio, poi all’interno del palazzo reale nella sala del trono. Quando il re arrivava nel Tempio scortato dalla guardia reale un profeta gli poneva il diadema sul suo capo, gli consegnava un rotolo detto “i Testimoni” cioè la carta dell’Alleanza conclusa da Dio con la discendenza di Davide contenente formule applicate a ogni re: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”, “Chiedimi e ti darò in eredità le nazioni” e questa carta gli rivelava anche il suo nuovo nome (cfr. Isaia 9,5). Il sacerdote gli conferiva l’unzione e il rito nel Tempio si concludeva con l’acclamazione chiamata “Terouah”, grido di guerra trasformato in ovazione per il nuovo re-condottiero. Si snodava poi la processione verso il Palazzo e lungo il cammino il re si fermava per bere a una sorgente, simbolo della vita nuova e della forza di cui doveva rivestirsi per trionfare sui suoi nemici. Arrivati al Palazzo, nella sala del trono si svolgeva la seconda parte della cerimonia. A questo punto inizia il salmo di oggi: il profeta prende la parola a nome di Dio, usando la formula solenne: ““Oracolo del Signore al mio signore” che va letto come “parola di Dio per il nuovo re”. Nella Bibbia si incontra l’espressione “sedersi sul trono dei re” che significa “regnare”. Il nuovo re è invitato a salire i gradini del trono e a sedersi: “Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”. Sui gradini del trono sono scolpiti o incisi guerrieri nemici incatenati: quindi, salendo i gradini, il re poserà il piede sulla nuca di questi soldati, gesto di vittoria e presagio delle sue vittorie future. Questo è il senso della prima strofa, fare dei suoi nemici lo sgabello dei suoi piedi. L’espressione “alla mia destra” aveva un tempo un significato concreto, topografico: a Gerusalemme, il palazzo di Salomone è situato a sud del Tempio (quindi a destra del Tempio, se ci si volge verso oriente) per cui Dio troneggia invisibilmente sopra l’Arca nel Tempio e il re, sedendo sul suo trono, sarà alla sua destra. Poi il profeta consegna lo scettro al nuovo re; ed è la seconda strofa: “Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion domina in mezzo ai tuoi nemici”. La consegna dello scettro è simbolo della missione affidata al re che dominerà i nemici inserendosi nella lunga catena dei re discendenti di Davide, a sua volta portatore della promessa fatta a Davide. Il re è solo un uomo mortale, ma porta un destino eterno perché eterno è il progetto di Dio. Probabilmente questo è il significato della strofa seguente, un po’ oscura: “A te il principato nel giorno della tua potenza (cioè il giorno dell’incoronazione) tra santi splendori (sei rivestito della santità di Dio e quindi della sua immortalità). dal seno dell’aurora come rugiada, io ti ho generato”, un modo per dire che è previsto da Dio dall’alba del mondo. Il re resta mortale ma, nella fede d’Israele, la discendenza di Davide, prevista dall’eternità, è immortale. Nello stesso senso, la strofa seguente usa l’espressione “per sempre”: “Tu sei sacerdote per sempre”, il re futuro (cioè il Messia) sarà dunque al contempo re e sacerdote mediatore tra Dio e il suo popolo. Qui abbiamo la prova che, negli ultimi secoli della storia biblica, si pensava che il Messia sarebbe stato anche sacerdote. Infine il salmo precisa: sacerdote “secondo l’ordine di Melchisedek” perché esisteva il problema che non si può essere sacerdote se non si discende da Levi. Come conciliare questa Legge con la promessa che il Messia, re discendente di Davide della tribù di Giuda e non di Levi? Il salmo 109/110 dà la risposta: egli sarà sacerdote, sì, ma alla maniera di Melchisedek, re di Salem, al tempo stesso re e sacerdote, ben prima che esistesse la tribù di Levi. Il salmo 109/110 veniva cantato a Gerusalemme durante la Festa delle Capanne per ricordare le promesse messianiche di Dio: evocando una scena di intronizzazione, si pensava proprio a queste promesse per mantenere viva la speranza del popolo. Rileggendo questo salmo nel Nuovo Testamento vi si è scoperta una profondità nuova: Gesù Cristo è davvero quel sacerdote “in eterno”, mediatore dell’Alleanza definitiva, vincitore del peggiore nemico dell’uomo, la morte. San Paolo lo dice nella prima lettera ai Corinzi: “L’ultimo nemico ad essere distrutto sarà la morte, perché tutto ha posto sotto i suoi piedi”.
*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (11,23-26)
San Paolo qui rivela il vero significato della parola “tradizione”: un prezioso deposito fedelmente tramandato di generazione in generazione. Se oggi siamo credenti, è perché, da oltre duemila anni, i cristiani, in ogni epoca, hanno trasmesso fedelmente il deposito della fede come in una staffetta senza interruzione. La trasmissione è fedele quando si conserva la tradizione del Signore, come scrive san Paolo: “Io ho ricevuto da Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”. Solo questa trasmissione fedele costruisce il Corpo di Cristo lungo la storia dell’umanità, non essendo trasmissione di un sapere intellettuale, ma del mistero di Cristo e la fedeltà si misura nel nostro modo di vivere. Per questo Paolo si preoccupa di correggere le cattive abitudini dei Corinzi e afferma che vivere in comunione fraterna è direttamente connesso con il mistero dell’Eucaristia. Scrive Paolo: Gesù “nella notte in cui veniva tradito, prese del pane”. “Veniva tradito”: Proprio mentre incompreso e tradito, veniva consegnato nelle mani nemiche, Gesù “prese del pane, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse…”. Ha così la forza di capovolgere la situazione e da una condotta di morte, compie il gesto supremo dell’Alleanza tra Dio e gli uomini facendo eco a queste sue parole: “La mia vita, nessuno me la toglie: la do io” (Gv 10,18). Trasforma un contesto di odio e di accecamento in luogo dell’amore e della condivisione: “Il mio corpo che è per voi”, corpo donato per la nostra liberazione e l’efficacia di questa donazione è legata al concetto biblico di “memoriale”: fate questo in memoria di me”. “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”, questa formula è centrata sul tema della nuova alleanza, ripreso dal passo di Geremia (31,31-34) e stabilita non con il sangue versato sul popolo (Es 24), ma con il suo sangue e nello Spirito Santo. Qui possiamo capire cosa è il perdono, il dono perfetto compiuto al di là dell’odio, amore puro che trasforma condotte di morte in sorgente di vita. Solo il perdono è questo miracolo e lo ripetiamo in ogni Eucaristia: “Mistero della fede”. “Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore”: annunciamo la sua morte, testimonianza d’amore fino all’estremo, come ben ricorda la Preghiera eucaristica della Riconciliazione: “le sue braccia distese disegnano tra cielo e terra il segno indelebile dell’Alleanza” tra Dio e l’umanità. “Annunciamo la sua morte”: ci impegniamo nella grande opera di riconciliazione e di alleanza inaugurata da Gesù. “Finché egli venga”: siamo il popolo dell’attesa che proclamiamo in ogni Eucaristia e se Gesù ci invita a ripetere così spesso questa preghiera è per educarci alla speranza che significa diventare impazienti del suo Regno in gioiosa attesa della sua venuta. Infine: Paolo dice “finché egli venga” e non finché ritorni perché Cristo non è partito, è con noi fino alla fine del mondo (Cf Mt 28, 20). Anzi non smette mai di venire perché è presenza operante che realizza progressivamente il grande progetto divino fin dalla creazione del mondo e ci chiede di collaborarvi.
NOTA. L’ultima parola della Bibbia, nell’Apocalisse, è proprio «Vieni, Signore Gesù». L’inizio del libro della Genesi ci parlava della vocazione dell’umanità, chiamata ad essere immagine e somiglianza di Dio, dunque destinata a vivere di amore, di dialogo, di condivisione come Dio stesso è Trinità. L’ultima parola della Bibbia ci dice che il progetto si realizza in Gesù Cristo e quando diciamo “Vieni, Signore Gesù”, invochiamo con tutte le nostre forze il giorno in cui egli ci radunerà dai quattro angoli del mondo per formare un solo Corpo.
*Dal vangelo secondo Luca (9, 11b-17)
Per la festa del Corpo e Sangue di Cristo, leggiamo il miracolo della moltiplicazione dei pani in cui Luca vuole certamente sottolinearne il legame con l’Eucaristia descrivendo i gesti di Gesù con le stesse parole della liturgia eucaristica: “Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli”: una chiara allusione anche ai discepoli di Emmaus (Lc24,30). Gesù sta annunciando il regno di Dio, predica il vangelo e compie miracoli. La moltiplicazione dei pani si colloca in questo contesto: è sera, i discepoli si preoccupano della folla e suggeriscono di rimandare tutti perché nelle vicinanze ognuno per conto proprio trovi di che sfamarsi. Gesù non accetta la soluzione di dispersione perché il Regno di Dio è un mistero di comunione, non si accontenta del “ciascuno per sé” e propone la sua soluzione: “Voi stessi date loro da mangiare”. Ma come? Cinque pani e due pesci, replicano gli apostoli, sono sufficienti solo per una famiglia e non per cinquemila uomini. Gesù non vuole metterli in difficoltà, ma se dice loro di dare essi stessi da mangiare, è perché sa che possono farlo. I discepoli rispondono mettendosi a disposizione per andare a comperare il pane, ma Gesù ha un’altra soluzione: “Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa”. Sceglie la “soluzione del radunarsi” perché il Regno di Dio non è folla indistinta, ma comunità di comunità. Gesù benedisse i pani, riconoscendo il pane come dono di Dio da usare per servire gli affamati. Riconoscere il pane come dono di Dio è un vero e proprio programma di vita ed è questo il significato della “preparazione dei doni” durante la Messa. Si chiamava prima “offertorio” e la riforma liturgica del Concilio Vaticano II l’ha sostituito con “preparazione dei doni” per aiutarci a capire meglio che non siamo noi a dare qualcosa di nostro, ma è la “preparazione dei doni di Dio” e recando pane e vino, simboli di tutto il cosmo e del lavoro dell’umanità, riconosciamo che tutto è dono e non siamo padroni di ciò che Dio ci ha dato (sia i beni materiali che le ricchezze fisiche, intellettuali, spirituali), ma solo amministratori. Questo gesto, ripetuto ad ogni Eucaristia con fede, ci trasforma facendoci diventare davvero amministratori delle nostre ricchezze per il bene di tutti. Proprio in questo gesto di generosa spoliazione di sé stessi possiamo trovare il coraggio dei miracoli: quando dice ai discepoli “Date loro voi stessi da mangiare”, Gesù vuole far loro scoprire che hanno risorse insospettate, ma a condizione di riconoscere tutto come dono di Dio. Davanti agli affamati del mondo intero dice anche a noi: “Date loro voi stessi da mangiare” e, come i discepoli, abbiamo risorse che ignoriamo a condizione di riconoscere che quanto possediamo é dono di Dio e noi siamo solo amministratori che rifiutano la “logica della dispersione”, il pensare cioè ognuno al proprio interesse. Diventa quindi chiaro il legame tra questa moltiplicazione dei pani e la festa del Corpo e Sangue di Cristo. I tre sinottici raccontano l’istituzione dell’Eucaristia la sera del Giovedì santo e Luca aggiunge l’ordine del Signore “Fate questo in memoria di me”, ma san Giovanni ci offre un’altra chiave: riferisce la lavanda dei piedi con il comando di Gesù ai discepoli a fare altrettanto. Ecco quindi due modi inseparabili di celebrare il memoriale di Cristo: condividere l’Eucaristia e mettersi al servizio degli altri.
+Giovanni D’Ercole