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Ott 25, 2025 Scritto da 
il Mistero

Defunti, non “morti”: essi Vivono

(Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti)

 

«Io vedo questi paurosi spazi dell’universo che mi circondano, ed io mi trovo attaccato ad un cantuccio di questa immensità, senza ch’io sappia perché io sia collocato in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché il poco tempo che m’è dato da vivere mi sia assegnato a questo punto, piuttosto che in un altro da tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi succede. Io non vedo che estensioni infinite da ogni parte, che mi racchiudono come un atomo e come un’ombra che non dura che un istante senza ritorno. Tutto ciò ch’io conosco è che devo ben presto morire; ma ciò ch’io più ignoro è questa morte stessa, a cui non mi è dato sfuggire» [Pascal, Pensées, 194].

In occasione della recente scomparsa dei miei genitori, allo strazio della malattia e della perdita di entrambi (a breve) si è aggiunto il fastidio di un ambiente che continuava a farmi le “condoglianze”.

Come per buona educazione, certo, ma chi ha assimilato il linguaggio della Fede non fa cordoglio alcuno, né parla di “morti” bensì di Defunti. Essi vivono.

Non da sopravvissuti ai colpi che la vita riserva, ma come dei dilatati, autentici, adorni e finalmente realizzati appieno.

Donne e uomini fioriti in tutto, che hanno sperimentato un nuovo genere di essere nella propria essenza, un’esistenza differente.

Come in una atmosfera d’amore puro, dove (come Gesù) non si vive più per se stessi, ma uno con l’altro e uno per l’altro.

Senza i cronometri pressanti, né gli abbandoni.

 

Il termine Defunti deriva dal verbo latino «defungor» [infinito «defungi»] il quale indica il termine parziale di una vicenda, non un compimento totale.

Non un confine definitivo che si aprirebbe sull’abisso nullificante e cavernicolo di ombre smarrite o larve senza slancio, prive d’identità e futuro - dopo il transito nel tempo.

Le “condoglianze” [dal latino «cum-dolēre»] si porgevano volentieri all’interno di una mentalità prettamente pagana o legata a un senso archetipo di religiosità.

Quel genere di convinzioni induceva nei parenti e amici un affliggersi - un piangere senza speranza - che Gesù rimprovera apertamente [Gv 11,33 testo greco; la traduzione italiana è incerta].

Credere che con la morte tutto finisca significa immaginare che l’esistenza sia un progressivo decadere nel vuoto.

Tale convinzione fa ritenere assurdo ogni cammino di crescita anche spirituale. E postula l’insensatezza di coinvolgersi, d’impegnarsi nell’ideale del Bene duraturo - per un Bello che prosegua oltre la nostra vicenda terrena (e in favore del prossimo).

Le condoglianze stanno quindi per sé a indicare che tutto è finito.

 

In epigrafe al portale di un cimitero di una cittadina non troppo lontana da me si legge una scritta in caratteri cubitali: «qui nei secoli posano affetti vanità speranze».

Il freddo della fine di tutte le cose belle, e il “ghiaccio” del neoclassico rivisitato in stile primo Novecento... perfettamente abbinati su rivestimento di travertino imbiancato.

Invece la Speranza ci attira e rinfranca lo spirito, supera l’oltraggio, dona senso al nostro andare.

Già i credenti dei primi secoli avevano soppiantato l’idea pagana dell’appuntamento di nostra sorella morte quale «dies infaustus», sostituendolo nel suo opposto: «dies Natalis».

Giorno della vera Nascita, all’interno di una stessa Vita; ora completa, risanata.

Vita, che appunto continua - oltre i parametri temporali o di località. 

Senza la fatica dell’esistere che sperimentiamo. Immersi nella vastità dell’essere.

Vita senza le lotte contro di sé, e che prosegue nell’Abbraccio appagante, benedicente, di un Padre che non spersonalizza ma dilata l’esistere caratteriale, le qualità dei suoi figli.

In tale sbocciare pieno di luce e calore siamo come rifoggiati sul prototipo-Progetto dell’autentico Figlio.

Tratto di Alleanza che dovevamo e forse potevamo essere.

Sopraffatti di Felicità beata, perché la nostra parte-ombra è ora inclusa; priva di giudizi e commenti.

 

In «Speranza del grano di senape» leggiamo una gemma di Joseph Ratzinger, che ha avuto il fegato di scrivere parole da scolpire seriamente sui fregi delle trabeazioni (in luogo di altre superficialità a effetto - purtroppo diffuse):

«Oggi appare chiaro che il fuoco del Giudizio di cui parla la Bibbia non indica una specie di prigione dell’aldilà, bensì il Signore stesso che nel momento del giudizio si incontra con l’uomo [...]».

«Nell’uomo che si presenta allo sguardo del Signore tutto ciò che nella sua vita è ‘paglia e fieno’ brucia e rimane soltanto ciò che può davvero avere consistenza. E significa che attraverso l’incontro con Cristo l’uomo viene rifuso e rimodellato secondo ciò che egli doveva e poteva propriamente essere. L’opzione fondamentale di un tale uomo è il Sì che lo rende capace di accogliere la misericordia di Dio; ma questa decisione fondamentale è molte volte intorpidita e intirizzita, fa capolino soltanto faticosamente dai ceppi dell’egoismo da cui l’uomo non ha mai potuto liberarsi. L’incontro con il Signore è questa trasformazione, il fuoco che lo brucia e lo scioglie, facendolo diventare quella figura, quella forma senza scorie che può divenire recipiente dell’eterna Gioia».

 

 

Il fuoco che brucia: Cristo stesso

 

Alcuni teologi recenti sono dell'avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L'incontro con Lui è l'atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l'incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l'impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa « come attraverso il fuoco ». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia. È chiaro che la « durata » di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il « momento » trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno – è tempo del cuore, tempo del « passaggio » alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo. Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L'incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l'uno con l'altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza « con timore e tremore » (Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro « avvocato », parakletos (cfr 1 Gv 2,1).

 

[Papa Benedetto, enciclica Spe Salvi n.47]

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don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".